La pratica della letteratura ci ha insegnato a individuare un oggetto del desiderio nella ricerca che il protagonista di ogni romanzo compie.
Ecco, il piccolo Pietro - ragazzino alla frontiera tra l’infanzia e l’adolescenza - cerca, come chiarirà sul finire del romanzo, il coraggio di farsi attraversare dalla vita.
Coraggio mi è parsa proprio la parola-chiave di questa storia tenera e feroce, commovente e amarissima, nella quale a dispetto di tutto e di tutti un ragazzino vuole vincere, vuole credere nel suo mantra che la paura è una bugia, vuole trovare conforto rispetto al dolore di una perdita irreparabile, vuole splendere in maniera irragionevole e imprevedibile anche nel grigio di una condizione desolante e abbandonica.
Il coraggio degli altri è contagioso, pensa Pietro e proprio la sua reazione alla perdita della madre, reazione che solo superficialmente sembra di negazione e rimozione, è in realtà esempio paradigmatico del suo coraggioso modo di guardare l’esistenza. Egli dà al dolore per la morte della madre la forma bizzarra e stravagante di un amico immaginario, Canetto, che però non è un bambino, ma un bastardino invadente che mordicchia, gioca, si nega e si propone alla sua attenzione in una sorta di personificazione immaginifica del dolore come amico fidato. E ci vuole coraggio per dare al dolore l’aspetto di un compagno di gioco.
Nell’estate in cui si svolge la vicenda raccontata nel libro, al piccolo Pietro la vita di morsi ne darà parecchi. Si ritrova all’improvviso orfano, nudo di fronte a un dolore cui non sa rassegnarsi, in modo spicciativo insieme alla sorellina Nina, che aveva più coraggio che anni, viene mandato a vivere in una terra archetipica e lontanissima del Sud: da Milano (città dove viveva col padre) arriva dunque ad Arigliana (paesino originario dei genitori e dove sono rimasti a vivere i nonni).
Il protagonista si ritrova così solo ed estraneo alla terra che avrebbe dovuto essere materna e offrirgli una nuova casa, ma che invece inizialmente lo emargina in quanto "settentrionale", lo respinge come cittadino e lo etichetta in definitiva come altro da sé: diverso.
Rocambolesca e dolorosa sarà l’esperienza che gli aprirà successivamente la strada all'integrazione nella comunità lucana: proprio da lui, nel corso di un gioco, vengono trovati a vivere dentro un’antica torre normanna degli stranieri clandestini e fra loro anche un ragazzino più o meno della sua età.
È Josh. All’improvviso un nuovo “altro”, un nuovo perfetto nemico si offre alla comunità di Arigliana. Un nuovo straniero attorno al quale esorcizzare tutti i mali del mondo e contro cui sfogare brutalità e violenza.
Attraverso la voce del giovane protagonista, che di Josh diventerà fatalmente amico non senza aver dovuto superare qualche forma di infantile gelosia nei suoi confronti, sono descritti allora pregiudizio, paura, disprezzo, rifiuto, sfruttamento e ferocia provati dalla piccola comunità nei confronti di Josh e della sua famiglia, inermi e innocenti come vittime sacrificali.
In seguito, una parte della popolazione inizierà a conoscere, rispettare e amare gli stranieri, mentre l'altra parte continuerà a considerarli dei nemici, ma in mala fede, li incolperà infatti strumentalmente del peggioramento delle condizioni di lavoro, li renderà facili bersagli d’odio per mascherare invece arretratezza, corruzione, povertà e atti di devastazione che già erano presenti all'interno della società di Arigliana e che ora si riproporranno con crudeltà maggiore e, diremo senza spoilerare, definitiva.
Emigrazione, immigrazione, odio razziale sono quindi raccontati nel libro pur senza essere centrali nella vicenda, come una sorta di sfondo narrativo che vuole rappresentare due lati della stessa frontiera. Si emigra dal sud d’Italia per cercare lavoro al nord, ma al sud Italia si arriva anche, da altri sud, da luoghi lontani e indefiniti dai quali occorre cercare riparo, in una dimensione di perenne, quasi preistorico nomadismo che ci vuole – a ben guardare – stranieri tutti o piuttosto tutti concittadini di un mondo in cui arrivano a intersecarsi ovunque vicende di malaffare, corruzione e caporalato, un mondo dove l’egoismo, la prepotenza e la prevaricazione sul più debole ha troppo spesso la meglio.
La terra lucana si rivela mondo evocato in maniera quasi felliniana, tra pomodori, cipolle, olive, melanzane, uva, noci, zafferano.
Il materano s’intuisce essere luogo molto amato da Catozzella, che pure ne denuncia la sconfitta rispetto ai soprusi del potere malavitoso, inevitabilmente colluso con la politica. In questa terra, marchiata da una sorta di peccato primigenio, si vive tutti tra l’ignominia del terrore e l’ignavia dell’omertà; chi resta resiste in una sorta di sopravvivenza che alla fine sarà rifiutata solo dai ragazzini. Da Pietro, che non si rassegnerà e proverà a denunciare e dal giovane e misterioso esule Josh, che non riuscirà ad accettare come prospettiva auspicabile per il suo futuro di vivere ad Arigliana.
Josh è un poetico orfano musicista che legge in segreto The migration of the Palm e quindi non solo leggeva, ma leggeva pure in inglese, segno evidente di quanto fosse suonato. Il ragazzino fa da badante con dolce arrendevolezza ad un vecchio del paese, dimenticato da nipoti e figli. Alla morte di quest’ultimo, dopo essersi fatto un tè, Josh, poco più che bambino, deciderà di lasciare per sempre Arigliana, per intraprendere da solo un inatteso viaggio di ritorno verso la sua misteriosa e supponiamo respingente terra d’origine, che resterà ignota al lettore fino alla fine, esattamente come l’ultima domanda che il bambino Pietro ha rivolto alla madre ancora in vita.
La Arigliana di Catozzella mi ha ricordato per certi versi l’immaginaria Acqua Traverse di Ammaniti, ma è anche ben descritta come la terra di Orazio e Sinisgalli, di Rocco Scotellaro ad Albino Pierro ricordati nell’esergo del libro, e ancora di Carlo Levi il cui capolavoro il padre e il nonno di Pietro citano come una Bibbia e infine del regista Pasolini a cui il libro si rivolge già nel titolo come ad un Maestro.
E c’è poi un altro intellettuale a cui mi pare questo libro debba qualcosa. È Alessandro Leogrande, che Catozzella (che ne fu editor per La frontiera) ricorda nella sua Nota di chiusura, quasi che i due abbiano inconsapevolmente dato vita - uno con la sua personalissima Non Fiction Novel, l’altro col suo Bildungsroman - alla più grande epopea italiana degli anni Dieci sull’Altro. Epopea che ben mi sembra riassunta in questa citazione dal testo di Catozzella, piena di infantile ottimismo e di splendente umanità: “Nella vita è meglio essere coraggiosi che sapere le cose. Di gente che sa una cosa o l’altra è pieno, ma di gente coraggiosa come lo straniero adulto che senza saperlo ha cambiato Arigliana invece no”.