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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Trilogia delle ore

Poesia

Emiliano D’Angelo
Puntoacapo

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 08/02/2019 12:00:00

 

Quarantenne avvocato campano legato alla critica d'arte e a collaborazioni con Musei e centri d'arte visiva, si offre Emiliano D'Angelo in questo agile volumetto ad un convincente esordio poetico dopo alcune pubblicazioni di racconti su diverse riviste (ed una pièce teatrale per gli allievi del Teatro Stabile di Torino). Autore raffinato per una formazione culturale che per naturalezza qui esce fuori tutta (al contrario di molta esposizione che dietro al modello cerca di infingere il proprio vuoto di interrogazione e di senso) accompagnando nella meditazione sul tempo la sua malinconica ma divertita- per stizza, per invisa finitudine- riflessione sulla mortalità e le sue bellezze, i suoi dissapori. Nella struttura delle tre sezioni con cui il libro ci accompagna come a seguirci dal sorgere del giorno alla sua conclusione, i richiami, gli omaggi ai tanti scrittori, pittori, e musicisti soprattutto, non sono infatti che un compendio- struggente, bello nell'intensità delle sue fughe e delle sue rivalse- ad un sentire umano che si sa vinto in quel suo sogno di vita appena dilatabile e che solo l'amore- forse- e l'arte- certo- allora possono provare a cantarne l'illusione. Così la figura del risveglio con cui si apre il testo che ci fa preda ancora di fantasmi e della luce di un dio che incombe nella sua collera resta insieme figura di un ossessione e di un abbaglio che non cessa nell'instabile destino che ci ospita ma che pure non nega a una bellezza che proprio da questo limite, da questo continuo morire si fa sublime. Perché a suo modo, è un canto che abbassandolo fa più caro il cielo questo procedere per piccole evasioni, per giri inversi entro una terra che si offre nella sua povertà come in "Meditazione su un tema di Grünewald" dove chi tende la mano più che chiedere salvezza la offre. E come accennavamo non c'è però soffocamento in questo dettato che ama piuttosto un dirsi e un dire ora nella sottigliezza della piccola provocazione, e dello scherzo quasi, ora nella leggerezza di una consapevolezza che sa della bellezza stessa la necessaria fragilità del suo stadio nel passaggio (e paesaggio- di "agave protesa" e "lucertola in amore") verso l'esilio. Lo sguardo al mito e alla nudità degli animali (si veda nella meraviglia l'indovinatissimo ritratto del gatto nero, "Charlot etilico e lunare") a fronte di una annunciata e catodica digitale e apocalissi occidentale (che scaccia una morte che però continua a depositare la sua polvere) è una consolazione per se stesso forse più che per gli altri eppure è, resta segnale di un segreto, di una possibilità di mondo che si annuncia dal buio (come l'istrice nella sua "danza di guerra e di paura"o le ragazze che vanno a scomparire in "Hanging Rock" tra "musica e stupore./E uno stridore, lontanissimo, di insetti"). Ma non è una poesia della fuga questa di D'Angelo, no, ma di una presenza forte all'interno dei chiaroscuri di una esistenza che sfugge, che non si dice e non ci dice- se non per scarti che possono però anche essere preziosi- nella malia di un irraggiungibile culmine. Per tale motivo questo dettato ci è caro perché prossimo e riconoscibile nelle sue consonanze e vivo proprio in quel "linguaggio scarno ma ricco di suggestioni" ricordato da Anna Bertini in una delle due postfazioni (l'altra è di Emanuele Spano) grazie al quale bene sa incarnare evocazioni e ritorni di una anima affaticata, dolente ma malinconicamente mai vinta. Un testo dunque ricco, intenso e mai banale che si segnala anche per l'accuratezza di una edizione corredata nelle inserzioni grafiche all'interno di acquetinte su disegni di Stefano Di Stasio.

 


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