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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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O Verdone!

Poesia

Alessio Romano
Lalli Editore

Recensione di Maria Musik
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Pubblicato il 03/10/2008 23:28:00

Perché Alessio Romano abbia scelto per la copertina del suo libro un autoritratto del padre, “O Verdone” appunto, fra i tanti che il pittore siciliano ha prodotto, così diverso per lo stile ed i colori dalla scelta del fotografico puntinato in bianco e nero che domina la produzione dell’artista, è una domanda che è lecito porsi? Probabilmente sì. Forse perché il padre quando si è così rappresentato aveva l’età che ha ora Alessio Romano? Forse perché è l’emblema di un giovane/vecchio?
Certo è che, neanche si è aperto il libro, e già ci si interroga. Convocati ad una lettura attenta solo da questo eloquente incipit ci si immerge in una marea artistica inquietante, difficile, certo non immediata. Eppure, sebbene affaticati, si continua a leggere affascinati, scivolando fra le pieghe di una vita così breve e già così adulta.
Una giovinezza che preferisce alle serate con gli amici e ai fuggevoli amplessi la compagnia “ingombrante” di Wagner e di Leopardi, di Cesare Pavese col contrappunto del Flauto Magico di Mozart, che irride e adula Tchaikovsky e Cardarelli, Pasolini e Paganini. Tutti geni, tutti artisti, tutti grandi, tutti morti.
Ed il suo scrivere e poetare gode nell’usare un linguaggio aulico, a volte trecentesco a volte romantico, e nello stesso tempo lo dissacra, giocando come un gatto che mai ucciderà il suo topo.
Proprio questo stile è, spesso, di intralcio al lettore. Per chi abbia lasciato sui banchi di scuola o nelle aule universitarie il linguaggio ormai desueto dei grandi, da Dante sino a Leopardi e Pascoli, è difficile non scoraggiarsi davanti a termini sconosciuti o dimenticati che, senza note a piè di pagina, lo costringe a fermarsi per consultare un vocabolario che includa lemmi obsoleti o a tralasciare il verso, abbandonandolo nell’incomprensione. Anche la sintassi di alcuni versi, che esplodono in un contesto più ”moderno”, affaticano il lettore.
“Tant’era bella,/che nessuno avrebbe contemplarla/osato sanza innamorarsi,/o giudicandola”
Il troncamento iniziale, il dividere con l’infinito l’ausiliare dal verbo servile, quell’aulico “sanza” proiettano il lettore ignaro (è alla prima poesia del libro) nel dolce stil novo per, poi, farlo ripiombare nel nostro secolo con un secco gerundio.
E, ancora, termini antichi e ricercati: “Moribondo camminai per mille verste,…”; perché non dire “miglia”? All’omaggio a Prokofiev, l’autore sacrifica il lettore, colpevole di non sapere che la versta è un'antica unità di misura dell'impero russo, ormai in disuso. (Per la cronaca: la lunghezza di una versta è di 500 sazhen, pari a 1066,8 metri).
Ed il lettore, ormai giunto ad un terzo dell’opera, s’indispettisce, viene da pensare: “Chi è questo ragazzo che vuole farmi pesare la mia ignoranza? Cos’è, una sfida? Oppure è solo un imitatore di mille personaggi? Un erudito, forse, ma chi vuole raggirare con tutti questi aggettivi anteposti ai sostantivi e tutto questo citare artisti?”.
Se, poi, il lettore è una lettrice il dispetto è ancora più pungente. Questo innalzarmi come fossi Beatrice per, poi, precipitarmi ingiustamente nell’Inferno, come fece Dante con Taide. Quale misoginia si cela dietro a versi antichi che fra i colori di un dipinto, un violino, un “frisare” che sfiora lisciando, vagheggiano amori sacri e profani, con donne dal sentire adulto, ed a rifiutare disgustato le allettanti cosce sode e superficiali delle coetanee per, poi, di nuovo evocarle? Ma come mi vuoi santa e bajadera?
Ma la realtà è un’altra. L’artista si sperimenta, evocando i grandi, che più non emula, cerca conforto per la sua arte, cerca dolorosamente se stesso trovandosi, diverso dagli altri, deciso a diventare nient’altro che un poeta, sacrificando a volte pulsioni e desideri nel inseguire la “perfezione”. Ed in questo, anche se alcuni suoi scritti parrebbero sostenere il contrario, non c’è dileggio o superiorità ma, forse, ossessione.
“Facilmente concepita l’idea/che un poeta che ancor poeta non è,/per diventarlo dev’essere pure mago,/e non v’è alcun poeta precedente/che mi carichi d’incredibile energia/perché più in alto di loro/mi è parso di vedere l’incantevole/destino conquistato,/e più in basso di come viene uccisa/una formica ho visto/il destino nell’altro suo volto.”
E mentre il poeta cresce, recidendo a morsi il cordone ombelicale, ma senza mai rinnegare l’arte paterna e le materne cure, pur allontanando entrambi come ogni altra distrazione dal suo distinguersi dagli altri, chiuso in un individualismo affamato di senso si droga dei versi e delle sonate dei grandi Maestri del passato. Ora è un giovane/vecchio e la sua poesia riverbera tutta l'angoscia ed il compiacimento ed il tormento di questo guardare il negativo fotografico del ritratto di Dorian Gray.
Alessio Romano è, a mio avviso, una giovane promessa che ha bisogno di “piegare” la volontà e l’istinto ad evolvere verso uno stile più coerente, ad “impoverire”, solo di poco, il lessico a favore di una maggiore efficacia espositiva ma che già ora riesce ad agganciare la mente, il cuore ed il gusto del lettore. Non di tutti i lettori ma di quelli che accettano che si possa contaminare il linguaggio contemporaneo, che dall’asfalto spuntino prepotenti giurassici fiori, che accetti di condividere l’angusto spazio del ghetto dei poeti e dei pazzi “… Perché non è limitato/l’uomo che ha una ristretta consuetudine/ma è pazzo l’uomo/che non si muove come fa l’altro.”.
Che dire di “O Verdone”: un libro "bello e impossibile", difficile da capire ma che non esiterei a consigliare. È perversamente e verginalmente attraente!

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