Abbiamo avuto già la grazia di addentrarci nella scrittura di Savino, nella forza di una poesia inseguita e raccolta nel crinale di giorni lunghissimi dalla collina di Fiesole dove quest'autore quasi centenario (classe 1920) scioglie il suo canto sospeso tra una fine sempre più prossima e la luce di spazi (della memoria, degli incantamenti) che lo investono. Questo tredicesimo titolo per la cura della Gazebo (a cui va il merito della scoperta) ci restituisce un sentimento della vita in cui seppure tutto apparendo ormai lontano nel tempo che va a concludersi sa risolvere il suo bel verso ("per sempre lasciato/ non finito") nel contare i passi tra le stanze accompagnando ed entrando con l'uomo nell'ignoto. È infatti un esercizio dell'abbandono, un diario di consegna questo dettato altissimo che proviene da una terra (il proprio sé nel proprio confondersi) respirata nella sua florida consunzione nella conca che a valle quotidianamente lo distende e lo risplende. L'alternanza come tra veglia e sonno è tra una parola allora che cerca di lasciare "segni di passati risvegli" ed una che lo imprima entro un "aspro grido" nel quieto andare di un dire che si ferma perduto. A distinguerlo dai precedenti si segnala in quest'ultimo volume un eccesso di dolenza e di stanchezza cui il battito sulla coscia nella conta delle sillabe non infinge ("ignoto il passo, ignota la preghiera", tutto perso- anche "il volto degli amici"). Il ritorno all'immagine della cara madre (il cui sorriso basta "come pezzo di pane") sembra sospeso con quello della buca di Trespiano (che lo attende per l'ultimo riposo) all'apparire e scomparire dell'Arno nel suo scorrere come figura del tempo. Diversamente però ora più forte è il peso nella consapevolezza che tutto è tardi, che non si può tornare indietro a ricucire le dimenticanze ("non giocai mai con mio fratello") e che il tempo della vita (sentendolo anche dagli altri) sta finendo ma che- soprattutto- ancora non finisce: ancora non lo coglie. Ecco qui nella testimonianza di una chiamata e insieme di una permanenza è- nella fatica certo, nel buio di uno spazio per noi lontano di chi si cerca e trova un volto sconosciuto- il procedere di un uomo che dalla penna come dalle tasche fa cadere piccoli versi, piccoli segnali di un sonno, di un metro che non è più "sbaglio ripetuto" ma già preghiera a entrare anche con noi nel dire finale di una "lontana voce nuda" che forse già ci sa ancora e per sempre natali. Resta- e probabilmente resterà- una figura insolita quella di Savino. Autore e uomo schivo nella luce di un infinito finire. Per questo paziente e poeta sempre.