Fenomenologia di un interagire relazionale
Il giovane con la pistola - nel corso di un improvvisato e convulso dialogare che non lascia tempo alla sorpresa per farsi avvertita emozione -, si sforza di apparire pericolosamente minaccioso. Con lo sguardo fermo sulla mia faccia e il foro dell’arma puntato verso il mio petto, mi avverte forse per la quarta volta: “Sta’ zitta, ho detto, non farmi fare una cosa che non voglio fare...!”.
Un lampo: la famosa sequenza di un film di tanti anni prima, credo con Alberto Sordi, torna in mente e mi porge la battuta. Adeguatamente enfatico, anche il tono della voce si sforza di far fronte alla circostanza: “E fallo! Spara...!”. Ma subito soccorre la ragione pratica e riflettente: “Non hai capito che se mi ammazzi mi fai un favore...!?”
Il ragazzo mi fissa per un attimo, poi rilancia la minaccia, precisandone i termini: “Adesso ti sparo nelle gambe!”. Già... non mi farà il favore di uccidermi.
A questo punto il complice, non armato, lascia la postazione di guardia alla portiera opposta, dove il mio amico - pallore da rigor mortis e afasica sudorazione - continua tuttavia a respirare, e percorre con pochi passi il semicerchio che la parte anteriore della vecchia cinquecento disegna sull’asfalto. Senza quasi parlare, allunga una mano verso il mio giubbino di pelle. “Non te lo do il giubbino... fa freddo e mi serve per stare calda”. Rinuncia e volge la sua attenzione verso i miei anelli: “Dammeli”. Il ragazzo con la pistola allunga la mano libera, mi sfila l’anellino a doppio cerchio d’oro con brillantini, lo passa all’altro. E inscena una piccola pantomima: gira e rigira più volte con le dita ruvide la fede ancora scintillante al mio anulare sinistro; poi, rivolgendosi al compagno, dice con voce ferma: “Questo non se ne viene”.
Sono passati quarant'anni da quella sera di febbraio. Al mio anulare sinistro brilla ancora lo stesso cerchietto d'oro - e ogni volta che lo sguardo vi si posa non so reprimere un sorriso: che avrà fatto in tutto questo tempo il giovane rapinatore?
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