Gutta cavat lapidem, sostenevano gli antichi latini, a voler descrivere, con quella sintesi espressiva che è loro propria, come fosse la pazienza, esercitata con instancabile attenzione, giorno dopo giorno, a consentire il raggiungimento dei traguardi più insperati e ardui. Il bel titolo “La perizia della goccia” dell’opera prima di Canaletti fa pensare immediatamente a questo motto: in questo caso la goccia è la forza improvvisa con cui scaturisce la poesia, la parola che chiede di essere detta, farsi verso, e la perizia è la necessità di saperla coltivare, prima di tutto nella propria interiorità, allevarla per poterle dare una cifra personale, lasciarle costruire uno spazio in cui rendersi compiuta. Nel caso dell’autore questa perizia porta a una forma poetica molto densa, fatta di brevi periodi con quasi esclusiva presenza della paratassi, concentrazione espressiva, un andamento per lo più discorsivo con alcuni salti lirico-semantici che introducono un effetto di sorpresa sul lettore. Il profilo della scrittura è sempre pacato e riflessivo, un atteggiamento di composta esposizione cui fa da richiamo anche l’espediente di fare iniziare ogni nuovo periodo dopo il punto sempre con la lettera minuscola, quasi a voler indicare che sono le piccole cose, non gridate e non ostentate, le sole a cui serve dare la giusta misura sulla pagina, a poter aspirare alla prospettiva del verso.
A dominare questa poesia sono le esperienze concrete, il relazionarsi con e nel mondo, come è chiaro fin dai primi versi. È l’uomo che si confronta con il ciclo delle stagioni, il trascorrere inesorabile del suo tempo individuale e cosmico, e Canaletti ce ne parla fra figure di pescatori indomiti, fedeli al mare, spiagge all’alba, donne di riviera che scatenano prodigi insospettati con un accenno lezioso, paesaggi di neve e brina che ci preparano al “grande gelo”
la notte rimbocca
lo stradello bianco di fiocchi
e selciato. è una cura continua
la perizia della goccia
che scivola sul prato.
Ma sono anche i catramisti che con la fatica del loro lavoro, mentre tutti dormono, sanno spianare nuove strade che domani saranno inondate da luce insospettabile, trasversale (come la poesia sa fare in definitiva con le parole, dando loro un senso nuovo). Così Canaletti scrive in una, a nostro giudizio, delle sue poesie più riuscite, in cui i termini tecnici (come “catramisti”, “finitrici”) si combinano efficacemente all’afflato lirico, smorzandolo e dandogli terrigna concretezza
mi ricordano il lavoro
dei catramisti, e nessuno
è più vicino a dio di loro
quando scavano e rivangano il terreno
delle strade.
quando imprecano sotto il sole
e sulle finitrici.
abbandonati ai loro cristi.
le vie del cielo sono
le vie della terra, solo
con meno secoli di storia.
E tutto sta a saper accettare questo ordine sancito dalla ripetizione incessante, la terra dove la legge del cielo sa replicarsi, e così saper dire “vedi Neno com’è docile l’addio / questo avvolgersi nel tempo?”, come nella sobria e commovente poesia dedicata al nonno.
Se è il vissuto la materia prima su cui è possibile costruire una poesia che sia davvero onesta, credo che Canaletti ne dia evidenza in tutto il libro ed in particolare nella sezione “Suite del sisma” in cui l’esperienza traumatica del terremoto viene strutturata in una partitura essenziale, mai indulgente a cadute elegiache o sentimentalistiche, in cui persone e cose in modo simbiotico si fanno uguale parte del dramma. Così la scossa, la prima, ad annunciare un’iterazione sempre più tragica, viene declinata in tutte le sue varianti sonore nella prima poesia della sezione, in cui si assiste a un crescendo da “sussulto”, “boato”, “vibrazione”, “sberla” fino alla sintesi espressionistica di “petardo in piena notte”, con quegli sprazzi di luce che illuminano l’impensabile, un mondo sconvolto fatto di “cere di santi, tavoli grandi / e dipinti pesanti alla parete”, e ancora “la chitarra all’angolo della stanza / senza fodera. tutto è nudo.” come se gli oggetti stessi diventassero testimoni, anche l’inanimato si facesse specchio dell’ineluttabile che accade. I versi diventano allora descrittivi, occorre che la cronaca nuda dei fatti prenda la parola, che da sola spieghi l’impronunciabile e gli oggetti si antropomorfizzano, vivono essi stessi la paura e lo sgomento delle persone che li attorniano:
il letto e le pareti tremano
gl’oggetti passeggiano per la stanza
ci schiacciamo all’angolo del portante
il soffitto si muove come costole
al singhiozzo.
Gli uomini perdono la loro individualità, per scoprirsi una comunità ricostituita, in cui è necessario fare cerchio comune contro il male, sapendosi certamente imbelli nella connaturata fragilità di esseri biologicamente determinati
Eppure lì siamo attaccati
fino alle midolla, ossa contro ossa
in un abbraccio che sbriciola gli arti
e senza armi aspettiamo insieme.
per quanto ogni punto di riferimento sembri crollare, ogni fede vacillare: anche i suoi simboli ne vengono scossi e stravolti, il cielo si rovescia, rovina sugli uomini e sulle cose
cadono i santi, i quadri d’alti prelati
il cristo in legno sulla croce
il cielo ci piomba dentro.
e quindi l’epilogo, il tentativo quasi impossibile di un ritorno alla vita qual era prima, dove alle case si sono ora sostituite le autovetture, quei loro bivacchi minimi incapaci di offrire una vera protezione, e tuttavia unici scudi contro il buio. E l’uomo stesso è goccia nello sconquasso degli elementi, si è disperso e ora si trova al fondo ultimo della sua precarietà di cui è pienamente cosciente.
camera con vista
la chiamano, i più ironici
di noi. è un’utilitaria gialla
con i vetri opachi di condensa
e ci dormono in tre almeno.
tutti siamo scivolati tra le pareti
come gocce che perdono dai tubi
e ora siamo raccolti nei bacini
delle auto. Immobili
tremiamo.
Ed ecco lo splendido ossimoro che chiude la suite, di particolare pregnanza semantica: da un lato l’immobilità come impossibilità ad agire e cambiare un corso immodificabile e tuttavia il tremare come incapacità di sostenerla, questa immobilità che scuote le radici di ciò che siamo.
L’elemento comune ai testi della raccolta è la capacità di Canaletti di osservare il mondo con occhi fermi, scandagliarlo ed appropriarsene per valorizzarne quei dettagli che, interiorizzati, divengono personale dizione poetica, anche quando “questo sembra mi sia donato / il ricordo che devasta la memoria.” o ancora in una dichiarazione di poetica esemplare “sai, tentiamo il bordo delle cose / aspettando il sospiro dell’alba.”. Ecco allora “Impressioni” o ancora “Pellicola muta”, un trittico dove la poesia diventa ripresa cinematografica per dire il silenzio, l’irrepetibilità degli istanti che restano unici, soprattutto per quel poco che sanno valere, fossero anche solo rumore d’acqua (e ancora ritorna quell’elemento acquatico che attraversa tutta la raccolta, l’acqua come elemento primordiale alla maniera di Talete, il solo che sa permeare di poesia la realtà, scavandola goccia a goccia)
immagina la camera
a spalla, come nei film
che ami tanto. inquadratura
traballante delle mani
mentre lavi i piedi. senza
musica, il rumore dell’acqua.
potrebbe essere la nostra sera
una come tante, poco forse
per quel che vale.
La poesia di Canaletti sa procedere con garbo e al tempo stesso essere incisiva, senza mai ostentare, alzare la voce. Ed è con questa leggerezza che Canaletti riesce ne “I primi anni di vita” a parlarci d’amore, venendo meno ai consigli che Rilke avrebbe dato a un giovane poeta come lui, e lo fa in modo personale, senza deliqui, ma con un immaginario poetico personale, come in questi versi
ai vecchi lampioni
le vene ricordano le nervature
stanche delle foglie, sai quelle
gonfie e verdi
te le appoggio sull’addome tiepido
come tracciandoti un sentiero.
E le prime esperienze d’amore sono descritte con efficacia di senso, nella sincerità che ci si aspetta in un’età come la sua, dove l’amore è prima di tutto scoperta, di sé ancora prima che dell’altro.
ho provato l’amore
in un angolo di strada.
stringevo con le dita
la corteccia della notte
aperta sul mio smarrimento. […]
[…] era rosso
il nero, il silenzio
un luce di faro sorda sul mare.
la prima volta, come la creazione
fu un gioco da bambini.
Ciò che svanisce lascia il segno indelebile delle esperienze che meritavano di essere vissute perché è nel loro consumarsi che hanno tracciato tutta la misura del loro restare. L’addio è l’impossibilità di sovvertire la congiunzione, fosse durata anche solo un attimo, perché sopravvivervi è cogliere e introiettarne tutta la sostanza più autentica. Con i versi di Canaletti diremmo, citando da diverse poesie della sezione
non
siamo nulla
fuori da questa
memoria. […]
bastarsi, non
bastarci mai.[…]
e furono solo
i primi passi, un secolo fa
e qualche mese poi.
forse i migliori […]
E così, senza punto, decide di chiudere la sua raccolta Canaletti, lasciandoci sperare che questo sia solo il suo primo capitolo lasciato in sospeso, che presto torni a farci dono dei suoi versi (come è richiesto al poeta autentico di cui Piersanti dice nella prefazione).