Il mare di noi che ancora non parlavamo
era un cuore che si gonfiava impercettibilmente
sotto la nostra meraviglia e la ragione anche
per cui una volta sbucati dalle viscere
piangere non avremmo dovuto.
Dimmi se il sale non ha quel sapore che il mare
avrebbe se non fosse quello che in realtà è
e se in un angolo del lido che frequentammo
bambini
l’alchimia ineffabile non lo trasformasse –
mescolandolo col sudore, l’acqua della doccia
del bagno in comune e con l’odore che hanno
gli uomini quando tornano ad essere tali –
dimmi se non era quello che ancora oggi
ci coglie in una distrazione, in una evasione
non cercata mentre passiamo da una azione
all’altra del nostro riempire tempo e modelli,
modelli e tempo.
E’ proprio questa la rivincita che la vita felice
si prende con noi: non altro essere che ozio,
invincibile ozio.
Al quale possiamo contrapporre
catene montuose di cartellini timbrati e le macabre
statistiche dei caduti sul lavoro senza scalfirlo,
l’imperturbabile.
Anche adesso che scrivi è una sola la speranza:
di non aver lavorato, non esserti distratto,
fatto invece una lode all’ozio tenace
che con l’acqua salata si disseta felice.
(2001)
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