Eleggere a tema di una silloge poetica il mondo dei morti, visto come una comunità sui generis a mezzo fra l’utopico e l’escatologico, è senz’altro tentativo ambizioso, che come tale va misurato, con tutti i rischi che questo può comportare se sceglie di diventare materia poetica. Il giovane poeta Galloni si cimenta in un’impresa che ha una serie numerosa di ascendenti nella tradizione letteraria, dai più antichi fino ad alcune delle pietre miliari della poesia contemporanea, grandi maestri con i quali diventa inevitabile per Gabriele il colloquio.
I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.
(Vittorio Sereni)
Verranno
una notte inattesa e prenderanno
possesso della città: nerastri, untuosi,
le algose chiome sciogliendo,
a sconvolgere verranno, per tingere,
infine, di catrame
i rami, e benzinose essenze.
(Fabio Pusterla)
Così a volte succede che nel buio
si insanguini un volto, una mano
ci implori – così c’è
chi ignora e chi invece ha nel cuore
la comunione dei vivi e dei morti
(Giovanni Raboni)
Nel solco quindi di questa tradizione che si rivolge espressamente a un’ideale comunione dei vivi e dei morti, a un’osmosi possibile fra i due universi, Galloni sa muoversi in modo convincente con uno stile conciso ed incisivo, brevi testi di pochi versi in cui campeggia la pagina bianca ad amplificare il senso, scene che si sovrappongono fra di loro a creare un andamento poematico, una forte compattezza del testo e contribuiscono ad una complessiva godibilità della lettura (il che non sempre è un male per la buona poesia). Un libro che si presta ad essere letto tutto d’un fiato ma capace di agire con interessanti suggestioni su quella sfera dell’inconscio che è la patria propria di ogni espressione poetica, incidendo efficacemente sulle zone d’ombra del pensiero, dove risiedono non indagati significati.
Parlare dei morti è, per paradosso, l’espediente migliore per riferirsi in realtà ai vivi, che da termine di paragone diventano, con un capovolgimento di ruoli, i veri protagonisti dello scritto. Come dice l’autore “la musica dei morti è il contrappunto / dei passi sulla terra” (questo il distico che suggella la raccolta) e sono proprio i morti a poter affidare ai vivi prospettive nuove, “le coordinate per un’altra vita”, comunicando per accenni, segnali ambigui che vanno per l’appunto decodificati dai vivi e “sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile / della conversazione. Sanno amarci // con una mano – e l’altra all’Invisibile”. Ed è la parola il tramite autentico di questa comunione, la sua forza nel farsi nominazione e in tal modo favorire la riappropriazione del nostro spazio più autentico, come viene ben espresso in questi versi
Preferiscono
ricordarsi di un nome,
scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.
L’autore non esita inoltre a ricorrere anche a trovate verbali originali come in questa singolare dissacrazione della luna, che perduto ogni connotato convenzionale e aulico di certa poesia, diventa per i morti
L’imitazione di un antico sesso
senza ingresso né uscita né sala
d’attesa
o come in questi versi d’una provocazione al contempo intelligente e spietata
La pornografia dei morti
è un vuoto di finestra, un passo
tra la veranda e il giardino. È quello
che noi sogniamo tutto il pomeriggio.
e la religione di questa civiltà dei morti (“l’ultima / didascalia del mondo / conosciuto”, i nuovi vivi verrebbe da auspicare) porta a scardinare ogni credo precostituito, a favore del recupero di una concreta spiritualità delle cose, a tocchi blasfema, ma necessaria
Ogni defunto è il santo
patrono di se stesso.
È un cero la sua chiesa;
e il suo altare il sesso
di un parente amorevole.
Tutto sta a saper credere che sia praticabile una strada alternativa, con la consapevolezza di dover smarrire la più ovvia, perdersi per poter ritornare, “poiché un albero, lì, è solo radici”, accresciuti di una nuova fede nell’uomo:
Ci basterebbe credere a una riva;
a una luce che vada scomparendo
dietro gli scogli; o che un morto riviva,
che si perda tornando.
Ed è quindi di questo colloquio fra le due rive che si parla, due rive che si rispecchiano reciprocamente per scoprirsi immagini della medesima realtà; su entrambe le rive si ricerca la stessa luce che può essere raggiunta solo attraverso la caduta, un ritorno alla verità circostanziata della vita, come bene si dice in questa poesia, da cui nasce il titolo della raccolta
I morti continuano a porsi
le stesse domande dei vivi:
rimangono i corsi e i ricorsi
del vivere identici sulle
due rive. In che luce cadranno
tornati alle cellule.
E il dire poetico di Galloni procede senza esitazioni, con una buona costruzione d’insieme, non sempre comune per un autore così giovane, che dà ottima prova di profondità ed originalità, di tenuta del ritmo, di compattezza nell’architettura dell’opera.
Pertanto mi fa piacere chiudere con questi suoi versi, come una sorta di buon augurio per il suo percorso poetico, perché la poesia è soprattutto atto di difesa della vita, creazione di uno spazio abitabile grazie alla parola.
Un corpo morto non è abbandonato.
Ignora – è verità – le altre creature;
ignora i diktat dell’eternità.
Ma stanne certo: un giorno tornerà
alla vita e avrà voce di Creatore.