“Un’incisione seria vuole - / io voglio – una morsa e un fuoco, / il rigore di un assedio, / un segno.” dice Emilia Barbato nel testo “Impoetica” quasi a voler definire una poetica nel cuore stesso di un ossimoro che le dà il titolo; forgiare la parola è identificarne il tarlo, “difetti di punzone” o ancora, come si legge in un altro testo, “Ecco, io spoglio la mente con la stessa / risoluta determinazione / con cui il fiore / di tarassaco mostra / al vento le sue nudità”.
Credo che bastino questi pochi versi a lasciare intendere la direzione di un percorso poetico in cui la parola si scarnifica, abiura ad ogni compiacimento estetico fine a se stesso, per sbalzare dal foglio nella sua nudità, infliggere la grazia rude della poiein, senza compromessi. Per questo ogni esplicito riferimento autobiografico o storico è omesso, oppure appena accennato, lasciato all’intuizione del lettore, senza possibile univocità di interpretazione. Leggendo si immaginano eventi, fortemente connotati dal senso di una perdita, di una mancanza, di una sconfitta, ma sottoposti ad un potente crivello semantico che obbliga il lettore all’esperienza salutare di uno sconvolgente capogatto (nella prima accezione possibile del titolo, ossia capogiro, vertigine cognitiva) perché nell’identica dotazione di ciascuno “un corpo cade, uno vola“, tutti circoscritti in un moto a spirale: “La formazione della conchiglia/ è lenta e troppi mesi / scavano il nicchio, l’oceano / ha profondità inarrivabili per le grazie”. Tutto avviene alla luce sghemba di una resa dei conti con se stessi, spogliati di qualunque illusione o conforto, relegati come recita lo splendido titolo di una poesia in un “Inverno minore” dove “il cuore / non devi praticarlo / ha sentieri irrimediabili, / carichi di mine”.
La procedura stilistica che permea la silloge, con indiscutibile coerenza in tutti i testi, è quindi il ricorso all’ellissi, al salto logico, l’introduzione di una scena iniziale che spesso deraglia verso un finale inatteso, quadri utopici o esiti surreali, creando lo stupore nel lettore, insinuando uno straniamento che riverbera compiuto sul silenzio, sullo spazio vergine della pagina. Come sembra dire l’autrice il lettore deve saper fare spazio alla parola, poterla accogliere affinché si compia quella reazione, quella chimica necessaria; non a caso uno dei testi ha come titolo “Making room” dove si certifica “l’espansione originaria della parola / che dimentica la sua condizione / di nucleo primordiale, la sua fragilità”.
I risultati più alti del libro vengono raggiunti senz’altro nella sezione eponima, dove è evidente l’eccellenza della dizione poetica, la capacità di interiorizzazione esperienziale e trasfigurazione della stessa da parte dell’autrice, ciò che è il solo nucleo attorno a cui può attecchire una parola poetica credibile. Poesia come rigenerazione palingenetica attraverso il processo di conferimento alla terra, scerpare un ramo dalla pianta madre per farne nascere una nuova radice, la lacerazione necessaria che sola può originare la prospettiva di una nuova vita, perché occorre “far capogatto”, radicare un nuovo ganglio nel brullo dell’origine. I due poemetti “Capogatto “e “Maggio”, evidentemente fondati su due concrete esperienze traumatiche di vita, sanno creare con autenticità una dizione poetica concreta, misurata, con una padronanza di linguaggio invidiabile; e proprio questo si chiede ad un poeta, offrire al lettore un linguaggio personale per (cercare di) interpretare il mondo.
Riportiamo a testimonianza di quanto detto una scelta di versi emblematici dal poemetto “Capogatto” che danno il segno sul procedimento estetico e formale perseguito dall’autrice:
“modulo un vagito – attecchisco - / fuori di me schiudo / gemme, cresco una figlia”
“Recidere è il tono ubbidiente / della mia voce / all’impeto della mente / affinché il cuore, tremando, taccia.”
“conduci nella mano questo tremito di speranza, / nel calore le mie temibili muffe”
“Disponi le mie gemme dormienti / nel verso giusto”
“segno teneramente la tua corteccia / con un’impronta trasversale e una longitudinale / traccio la sacralità in cui m’innesto”
perché restituirsi a se stessi è ritornare nell’alveo sacro della vita, saper trasformare la ferita in una germinazione nuova. Questo linguaggio che attinge alla botanica ed all’agronomia, con la potenza espressiva di cui si è data evidenza, si esplica con altrettanta forza nel poemetto “Maggio” dove la natura sembra voler creare una sorta di recinto protettivo (viene in mente il Fortini di “Composita Solvantur”) dove possa consumarsi l’insensatezza delle tredici settimane a cui si accenna, lo scandire vano d’un tempo non voluto possa così essere emendato, l’ansia e la paura esauriti e cristallizzati nella memoria segnino dunque un nuovo approdo. Ecco alcuni versi significativi:
“assìepati alle spighe d’orzo, / ai silenzi dei ruderi, misura / la produttività delle tue erbe / selvatiche, la tue farine mancate”
“Nelle acque del tempo diluisci questi pigmenti / finemente macinati, i minuti, le ore / i giorni inoperosi”
“Spargi spore sulla pietra dura, fanne giardini, perché diventino / paesaggi ideali in miniatura, / tredici isole perfette di tempo”
“da tredici coroncine fertili, /un distillato lenitivo, un olio essenziale, / calma la confusione dei pensieri, / i disturbi d’ansia, la paura delle spose.”
Credo di poter interpretare correttamente il pensiero di Emilia, concludendo con l’idea che la poesia sia in fondo l’aspirazione ad una maturità coscienziosa in cui strappando alla vita il poco che s’intuisce poter contare, “un transito, una recondita armonia”, resta la convinzione che “sei vecchio o saggio quando / i colpi che dovrebbero piegare / insegnano bellezza, / quando desìderi restituirti ai luoghi”, “Quello che dovremmo recuperare con cautela / è il nostro modo di essere luoghi, / di raccoglierci e languire riflettendo l’aggressiva / decadenza delle cose, delle case, dei muri”, impresa in cui solo la poesia ci può soccorrere.