Il volume raccoglie una sequenza di quarantanove brevi prose – più un prologo e un epilogo – che principiano con il rituale “C'era una volta” delle favole e possiedono il tono mite che dovremmo usare in questo genere di narrazioni, ovvero raccontare con amenità e pacatezza cose tremende: iniziazioni, guerre, violenze, soprusi e riti tribali di una società.
Ben presto capiamo che “paese” forse dovremmo leggerlo: “Paese”.
Le storie descrivono garbatamente la vita di un ipotetico borgo, i suoi abitanti, le vicissitudini per adeguarsi alla modernità, i cambiamenti e la memoria di un passato contadino, la nostalgia delle lingue perdute o contaminate dalla globalizzazione, ma anche l'opportunismo verso il potere, la burocrazia kafkiana, la deresponsabilizzazione delle classi dirigenti: un paese dove niente si prende sul serio quando dovrebbe esserlo, ma dove niente può essere preso sul serio, perché tutto è uno spettacolo comico e ad ogni passo si svela il barocchismo delle gerarchie e degli schieramenti, che negano la realtà sotto gli occhi di ognuno.
L'autore sembra sorridere, ma sorridendo si arrabbia, affonda stilettate contro ipocrisia e calcolo dei subalterni, quanto verso il cinismo di chi conta, e i loro camuffamenti. In quel paese si tratta di stare in fila dietro la porta giusta, ma si rischia di trovarsi a fare anticamera, al millesimo posto, davanti a quella sbagliata, per scoprire infine che tutte le porte sono ugualmente giuste o sbagliate quando le chiavi si trovano solo nelle mani di chi comanda o, peggio, dei postulanti a lui più vicini, anche quella della grazia e della bellezza.
Chissà quale sarà quel Paese? Proviamo a indovinare. O forse, come recita un vecchio adagio, tutto il mondo è paese?
Usando versatili allegorie, il libro ci dice una “verità” semplice, però l'autore confessa che vederla lo ha reso più solo, persino nei corridoi del posto dove lavora.
Il suo “umorismo”, in senso pirandelliano, diverte con una punta di amarezza, che pare suggerirci: in fondo si tratta di favole per bambini, rifiutate – perché non adatte – da un editore di libri per bambini. Una metafora non è una parabola, non ha nulla del sacro di una rivelazione: con umiltà, ci ricorda che i ragazzini ci vedono benissimo quanto alla verità, tanto da gridare in pubblico che “il Re è nudo”, prima di corrompersi, da adulti, come succede in una delle storie.
Del resto, in quel paese, parlare fuor di metafora risulterebbe persino pericoloso: si finirebbe, nel migliore dei casi, per essere presi per matti, come tal Vitangelo Moscarda, che nella profondità della vita voleva starci tutto, fino ad annullarsi e a rinchiudersi da sé in un sanatorio.
In tempi di haters e di violenze verbali che hanno inondato i mezzi di comunicazione di massa e la politica, il libro mostra di saper dire con precisione e garbo, senza esagerazioni polemiche, tanto si sa bene qual è il maledetto paese, benedetto paese, strambo e tragicomico, amato paese.
Alla fine un po' d'amarezza, perché un tale luogo semplicemente non esiste più e tutto il mondo è divenuto un villaggio globale: l'osservatore riconosce che la falsità ha contaminato perfino lui e quel borgo lo ha inventato lui stesso, per poi condannarlo.
Attraversando riferimenti a vari protagonisti della cultura del non più fantomatico centro abitato, tra i quali Ludovico Ariosto – “uno degli uomini più fantasiosi mai venuto al mondo”, ironico verso l'adulazione che regna nelle corti e restio ad arrendersi alla noia che il potere comporta – si giunge, all'ultima pagina, a Boccaccio: la soluzione è isolarsi per evitare il contagio e rifugiarsi in campagna, dove passare il tempo raccontandosi ogni giorno una novella a turno? Allontanarsi dalla peste, aspettare tempi migliori e intanto narrare storie in una lingua antica che un tempo ci apparteneva.