Io e questo libro, malgrado le colossali differenze, condividiamo alcuni dettagli, l’anno di nascita, per esempio, e una strana costante assiduità tra gli scaffali di una certa libreria Feltrinelli. Infatti per anni l’ho visto tra le novità, le ultime uscite e i clamorosi quanto vani “best seller” della velina o del giornalista del momento. Tante volte l’ho preso in mano, guardato e poi riposto, un po’ intimidito, un po’ assuefatto alla sua precisa esistenza in quel preciso punto, tanto che, se avessi portato via una copia, il vederla sugli scaffali di casa, avrebbe potuto rappresentare una anomalia spaziale, una aberrazione della visuale solita, una discontinuità un po’ difficile da sopportare.
Poi improvvisa la decisione, un attimo di quel capogiro che colpisce quando l’oggetto desiderato è finalmente, saldamente, diventato di nostra proprietà, infine l’assoluzione burocratica dello scontrino, busta sì no grazie e finalmente il poderoso volume targato Garzanti si è depositato sullo scrittoio a casa. Dopo vari tentativi, assalti direi, sempre puntualmente respinti dalla fitta stampa in corpo minuscolo, complice una provvidenziale influenza, una discontinuità, di nuovo, eccomi inerpicarmi tra le vette e gli abissi di questa narrazione, in costante bilico fra schemi noti: il poliziesco, il romanzo d’ambiente, l’analisi psicologica, il reportage giornalistico. Ho messo l’accento varie volte sul concetto di discontinuità, volutamente – ça-va-sans-dire – perché di una fortissima discontinuità tratta l’opera. Una elisione in un contesto sociale ristretto, la sospensione della vita civile, sostituita dall’orrore, dapprima, ben presto sostituito da un sottile brivido costante, dovuto al vivere su di una sorta di filo del rasoio, fatto di sospetti, di ombre che scivolano nel buio, anche in pieno giorno. E per i due assassini una sospensione di giudizio, in un atto già privo di giudizio in sé, pianificato da tempo, ma che li coglie proprio nel vertiginoso e infinito momento del dover premere un grilletto, più volte, sebbene proprio in quel momento l’accorgersi dell’errore di giudizio porta a un’altra sospensione ma che sopraggiunge tardiva, non emenda, anzi aggrava l’atto criminale. L’atto efferato in sé, da cruciale climax si trasforma in alibi capace di riscattare una esistenza intera, ineluttabile quindi per evitare di svuotare del suo significato una intera vita, di stenti ed espedienti, certo, ma pur sempre vissuta. E chi mette il dito definitivo sul grilletto, in qualche modo impalma il compagno di avventure in un surreale e simbolico amplesso, che non può avere cittadinanza, nome o appartenenza, ma è afferente di uno spasmodico bisogno di affermazione, di sostituzione di un modello sfuggente che l’assassino vuole fissare col sangue in quella che sembrerebbe in tutto e per tutto una relazione, squilibrata, di appartenenza e che attraverso l’atto estremo vuole ridiventare paritaria. Sicuramente vi è anche l’intento di mostrare quel che la società americana era (è) realmente, dietro l’immagine patinata e fiera che normalmente appare e anche la difficoltà, quasi l’incapacità del romanzo americano di rappresentare la società reale. Quindi doppia denuncia sia della società sia del mondo culturale, il quale rispedì al mittente le accuse e bollò con l’antipatica etichetta di voyeurismo l’ambizioso progetto di Capote. L’omicidio efferato e apparentemente senza motivo appare per Truman Capote l’occasione per affacciarsi alla bocca di un pozzo profondissimo, il cui fondo sparisce nell’oscurità. E sarebbe quello che in molti fanno, la singolarità, mista a coraggio e passione sta nel calarsi pazientemente - lentamente - nel pozzo per giungere sul fondo, noncurante dell’orrore, della paura, del raccapriccio. Capote giunge a Holcomb, un piccolo centro nei pressi di Garden City, in Kansas, dopo che quattro componenti di una rispettabile famiglia sono stati misteriosamente assassinati durante la notte, come inviato del New Yorker, per i cui tipi il libro verrà inizialmente pubblicato a puntate. Appena giunto si avvale dell’aiuto di Harper Lee, autrice di “Il buio oltre la siepe” la quale riesce a entrare più facilmente in confidenza con le persone del luogo, in particolare con la moglie del detective incaricato delle indagini, dimostrando da subito la volontà di raccontare e spiegare il delitto dall’interno, partendo dall’ambiente che lo ha visto germogliare, crescere e dare l’orribile frutto vermiglio.
Dalla lettura possiamo immaginare come ben presto Capote si appassioni alla vicenda in modo quasi morboso, dedicandovi lunghi anni e lasciandosi assorbire interamente dalle indagini sia poliziesche sia psicologiche sui due colpevoli, che vengono ben presto rintracciati e arrestati. Dice l’autore, nella prefazione, “Tutto il materiale di questo libro non derivato da mia osservazione diretta o è stato preso da registrazioni ufficiali o è risultato di colloqui che si sono protratti per un tempo considerevole”. Truman Capote ha impiegato circa sei anni per comporlo, (dopo aver scritto “A sangue Freddo” l’autore non ha più portato a termine nessun’altra opera, come se fosse rimasto prosciugato da dentro) ha seguito da vicino le indagini della KBI (Kansas Bureau of Investigation), immagino abbia passato molte ore coi colpevoli e si suppone che ad un certo punto il suo coinvolgimento mentale, con uno dei due, sia stato perlomeno intenso. Paradossalmente l’intento di uno dei due omicidi sembrerebbe aver sortito il suo effetto proprio sull’autore del libro, il quale oltre a descrivere i fatti molto minuziosamente, sa bene che comunque uno scrittore (e un grande scrittore come Capote lo sa, e lo fa benissimo), anche nel descrivere in maniera anodina la realtà, riesce a instillare nel lettore il suo punto di vista e i suoi dubbi, sempre tanti in questi casi, oltre alla visione critica verso la società che produce simili casi. Il libro giustappone le vicende degli assassini e delle loro famiglie con quelle della ristretta società di Holcombe (dove avviene il fatto), e di quella placida società americana a parole aperta a tutti ma dove in realtà sotto la cenere covano le fiamme del razzismo e dell’esclusione di quanto vissuto come corpo estraneo. Un simile omicidio è un avvenimento quasi catartico per una piccola comunità in cui tutti conoscono praticamente tutti, ma immediatamente ognuno si trasforma in potenziale assassino. I rapporti cordiali, financo amichevoli, sembrano gelarsi e tutti si ingegnano per trovare ombre nelle vite degli altri, anche in quelle stroncate dagli assassini. In fondo, sembrano dirsi un po’ tutti, se è successo a loro può succedere anche a me, e anche, se è successo a loro forse è perché un po’ se la sono cercata, sebbene le loro vite ci siano apparse sempre irreprensibili. La paura verso l’ignoto, sia esso rappresentato da uno sconosciuto di passaggio o da un segreto nella vita di una persona conosciuta, raggiunge livelli di isteria e un parossismo tali che l’intero sistema sociale della placida cittadina del Kansas pare vacillare.
Ma l’aspetto su cui l’autore concentra maggiormente la sua attenzione, le ricerche, le riflessioni, è la vita dei due assassini, Capote analizza meticolosamente ogni gesto compiuto dai due dal momento in cui concepiscono l’efferato omicidio sino a quando la “giustizia” pone fine alle loro esistenze.
Molto si è detto sul rapporto fra l’autore e gli assassini, Capote passò lunghissime ore in compagnia dei due assassini e in effetti appare al lettore quasi maniacale la profondità dell’indagine e la gran quantità di minuzie con cui vengono ricostruite le ore di latitanza dei due. Ogni minimo gesto o pensiero viene messo sotto la lente d’ingrandimento, i fatti analizzati in profondità e i dettagli anche minimi fatti oggetto di attenzione. Il quadro che ne emerge è quanto di più completo si possa immaginare, il delitto appare come al centro di una vasta ragnatela composta dalle esistenze dei due omicidi, sembra quasi che a un certo punto non possano fare null’altro che entrare nella casa e ammazzare i quattro componenti della famiglia Clutter, ma anche contemporaneamente non commettere l’omicidio, semplicemente dimostrare a loro stessi che in fondo entrare nella casa di una famiglia e in qualche modo prenderne possesso già è un atto sufficiente. Ma a quel punto scatta la competizione fra i due, il voler primeggiare, uno dei due non vuole essere sempre il secondo del duo e gli appare perfettamente normale, forse l’unica scelta, commettere un tremendo crimine. Tanto che a un tratto l’omicidio, col suo terribile carico, passa in secondo piano, diventa un fatto marginale, il vero omicidio diventa simbolico e lo commette uno dei due nei confronti dell’altro. Appena arrestati i due confessano quasi subito e il loro destino è immediatamente segnato dalla pena capitale, la corte e l’intera società hanno già deciso la loro colpevolezza e la pena che li attende, addirittura i due imputati sono i più convinti del dover essere giustiziati per porre fine all’intera vicenda, quasi un coronamento della stessa. Durante il dibattito processuale Capote porta alla luce un dilemma che mi ha molto colpito, ed è sulla capacità di intendere e di volere, generalmente percepita come discrimine netto. Un assassino sa quello che sta compiendo, o no? E da lì, se lo sa allora è colpevole perché nel sapere quel che compie ha chiare nella mente tutte le conseguenze, e forse anche in prospettiva un pentimento, che renderà più amara la pena. Ma in questo caso siamo di fronte a uno straniamento del concetto, i due erano in grado di capire perfettamente quello che stava succedendo, ma per una dinamica interna loro e legata a quel momento l’omicidio diventa insignificante, certo sanno che stroncare quattro vite può avere delle conseguenze, ma non sono importanti in quel momento, nulla è importante, la cosa che conta è compiere quel gesto, in quel momento, di fronte all’amico con cui si sono fatti tanti chilometri per giungere fin lì. E poi ripartire, silenziosi e invisibili verso una nuova facile vita che però non si riesce a trovare, e i quattro cadaveri svaniscono nella affannosa ricerca di un benessere che tarda ad arrivare, che non si trova per i due ormai indivisibili resi uniti da quattro vite sacrificate. Paradossalmente una volta isolati nelle celle di isolamento i due sembrano quasi dimenticarsi l’uno dell’altro, e i giorni che li separano dalla pena capitale vengono vissuti con pacifica rassegnazione.
A un certo punto della lettura ci si aspetta quasi di sentire la voce di Truman Capote che in sussurro, quasi un soffio, dice: “Si fa presto a dire psicopatici”, al di là di questa digressione tuttavia è chiaro di come Capote sia veramente andato sin sul fondo del pozzo oscuro di cui dicevo e vi abbia anche grattato un po’ il fondo per portare alla luce le enormi contraddizioni sia della società americana ma anche dimostrare di come sia facile giudicare una “diversità” un comportamento deviato, fuori dalla norma, una discontinuità, un inatteso. Sicuramente l’intento non è assolutamente di giustificare il crimine, o di farne in qualche modo l’apologia, certamente no, il rigore morale e la ferma condanna sono nel dna del libro, ma sicuramente, se si pensa alla vita, alla discriminazione anche feroce di quegli anni, voglio credere che Capote abbia voluto anche portare alla luce il fatto che prima di giudicare bisogna conoscere, bisogna sapere i dettagli, le motivazioni, che animano le persone. E se un terribile omicidio è sempre un fatto mostruoso, possiamo leggerlo come rappresentazione estrema di atti che anziché condannare in modo frettoloso vanno prima capiti. E che la verità, sebbene una, porta con sé milioni di frammenti di altre verità tutte valide tutte reali e da saper leggere.
Queste righe sono semplicemente alcune considerazioni derivate dalla lettura e dai pensieri che essa mi ha suscitato, certo ci sarebbe molto ancora da dire, infatti moltissimo è stato scritto e detto su questo libro, e anche da persone molto più autorevoli di me. Su di esso sono stati scritti numerosi saggi, una enorme quantità di articoli e ha ispirato tre film: Al romanzo di Capote sono ispirati i film A sangue freddo (1967) di Richard Brooks, Truman Capote: A sangue freddo (2005) di Bennett Miller e Infamous - Una pessima reputazione (2006) di Douglas McGrath. Inoltre il libro è considerato uno dei più importanti del XX secolo, e ha dato vita ad un genere letterario detto “reportage narrativo” o “romanzo verità”.
Malgrado le mie parziali considerazioni su alcuni aspetti che mi hanno colpito, e senza che lo vada a sottolineare, vale assolutamente la pena di leggere questo libro, per la profondità, l’intensità e l’acume dispiegato dall’autore nel costruire e portare avanti la narrazione. Naturalmente per dirla con Tom Wolfe, ma senza acredine, se il nome degli assassini è noto dall’inizio ciò che spinge il lettore ad andare avanti è la ricerca di particolari, anche raccapriccianti, o di qualcosa che possa stupire ancora di più di quattro corpi massacrati a sangue freddo. Ma è sicuramente anche perché affascinati dallo stile e dalla profondità della scrittura.