In “La pietra salvata”, il lavoro editoriale, Ancona, 2016”, la poesia di Maria Grazia Maiorino raggiunge il lettore come l’eco di un diapason accordante ad extra la consuetudine delle cose concrete, le persone, i familiari, gli oggetti, le notizie, i ricordi di viaggi, i luoghi visitati e ab intra il suo mondo intimo che serba gelosamente sentimenti, affetti, delusioni, conquiste e tenerezze di una vita, come reliquie da custodire e quasi venerare. Ma subito si coglie il bisogno di dare a questo mondo del suo relazionarsi un viatico poetico che getti un ponte tra se e gli altri per necessità di condivisione e di canto. E se due sono gli spazi semantici, uno con il suo rigore e concretezza e l’altro con la suggestione, il mistero e i contrasti dei moti d’animo e delle emozioni, questi spazi si saldano nella visione del mondo attuale delle persone da lei conosciute o amate o solo avvicinate riconducendole a una esterna-interna proiezione di perenne dialettica di errore verità, reazione e progresso.
Già nelle prove precedenti della scrittrice avevamo notato una simultaneità di atteggiamenti e procedimenti come qualità tutta sua, affinatasi nell’assiduo esercizio del labor limae, quel modo dei poeti esigenti di rendere presente e passato, storia e cronaca del proprio vissuto come dato inscindibile da quello altrui, in prospettive dense e stratificate e immettere, in questo impasto linguistico, i lieviti di una tradizione letteraria e di una scrittura originale creando un ricambio fra realtà e memoria del tutto distintivo, creativo e riconoscibile. Caratteristiche queste messe in luce, con acume e perizia introspettiva, dalla prefatrice Anna De Simone che ha enucleato l’intonazione, il modus operandi della Nostra, capace con i suoi testi di ricreare zone di evocazioni già in sé compiute e talora mirabili per l’incantato nitore e/o lo spessore dei loro elementi, dei loro oggetti. A testimonianza di questo procedere le citazioni e i riferimenti ad autori di razza che la disamina della De Simone nomina non tanto per folgorazioni analogiche, che fanno parte più del repertorio culturale della stessa prefatrice, quanto per la tensione vigile e complessa dello scandaglio di Maria Grazia, consapevole sicuramente di essere alle prese con uno scavo nuovissimo della sua vocazione poetica. Al riguardo, se proprio devo trovare un’atmosfera dentro cui sistemare risonanze della Nostra da altri, mi viene da accostare ai suoi questi versi: “…perché qui c’è da camminare nel buio della parola…” e “…nell’ora indovinata/stiamo noi,/due sguardi versati in un corpo,/uno stare senza dimora/che ci fa intangibili…” da “Mandate a dire all’imperatore” , Crocetti, Milano, 2010, del compianto amatissimo Pierluigi Cappello.
La pietra salvata, a lettura ultimata, si presenta libro complesso e compatto e studiatissimo, leggero nell’ annuncio da celebrare: “…Abitare i vostri paesaggi – amici -/è il terzo occhio che si apre/goccia rubata al miele della mente.”, in un incastro di sensi e sovrasensi cercati con parole a volute che rivelano e nascondono, innocenti e stupite. Questa poesia configura una succinta storia umana in chiave biologica del nostro tempo, rilevata su un terreno, che poi è il mondo fondante del poeta, particolarmente adatto a tale indagine perché dotato di caratteristiche vitali estreme: qui probabilmente, più che nelle opere precedenti, l’ambiente naturale si salda a tutta l’esperienza pregressa dell’Autrice, agisce nelle pieghe riposte dove giacciono lacerti di vita non risolti, dubbi inespressi e omissioni d’amore che la scuotono in funzione del consorzio umano a cui si sente di appartenere cordialmente.
Poesia di sicuro in salita, che sente e vuole interpretare i fatti, i ricordi delle persone non in sé ma nel loro affacciarsi allo sguardo di allora, rimasto intatto nella memoria: “…(Cerchiamo parole ultime/per risarcire i saluti mancati,/l’andarsene improvviso dei nostri cari, /forse per esercizio a morire)”, oppure “…Siamo le parole che ammorbidiscono/pietre sepolcrali gocciolano miele/esuberanti fanno svettare le lettere/ capaci di sposare il dolore con la grazia” e quindi si dà riaperta la miniera della realtà e dell’analisi esistenziale, passate al vaglio del ricordo-mito e della sintesi documentaria. Dunque un considerarsi persona tra altre persone, con il corredo intero contrastante di desideri e passioni, con di fronte la ragione e alle spalle magari le omissioni, le attenzioni mancate: “e a un tratto non ti basta più/per metterci dentro tutte le parole/i gesti gli amici e questo libro/ infinito/dove ti specchi capovolta…”.
Per questo le sezioni del libro, straordinaria “Come un perdono” dove l’autrice tocca punte vertiginose con i suoi venti haiku, si muovono ad incastro e più che seguire un ordine aritmetico paiono insiemi di uno scrambled book, di un testo di parti intercambiabili per la stessa loro prontezza di scansione immaginosa che induce a pensare, mi sia consentito, alle migliori letture e ancora a una tempra di meditazione propria di un modo profondo di aderire al “dato di coscienza” della prima condizione dell’uomo.
Non è, allora, semplice contaminazione culturale-emotivo e morale se la Maiorino, attraverso i suoi moduli espressivi dinamici cerca una contropartita nella scelta di vocaboli in grado di stigmatizzare un passato continuamente proteso nel presente in un incontro-scontro tra modi vivere diversi e comunque possibili; si giunge per sintagmi, distribuiti in tutta la raccolta, sulla riva del mistero, che si traduce in lei, nell’anabasi di un monte doloroso perché troppo umano e certamente puro nella tensione contemplativa e nell’anelito di imitazione. Ed è come stringere forte una certezza “…che ti lascia tra i vivi sulla terra/ma con i versi del poeta entrati/come chiodi nella carne”. Siamo già in un’altra dimensione, “Viaggio in Terrasanta” e “La Pietra salvata” chiudono un libro aperto in qualche modo all’ infinito, termine indicato in precedenza dalla stessa Maiorino riferendosi al Diario 1941-1943 di Etty Hillesum, né si poteva dire altrimenti.
Quando alla forma usata che dire: con questa fisiologica reazione sul paesaggio di ricordi ed emersioni, di scelte di campo ardite e talora accennate (ma solo che non si indaghi a fondo l’empito mobilissimo da cui emergono) usando un metro vigile, di estrema sobrietà espressiva, Maria Grazia Maiorino convince per lo stupore degli emblemi e l’affinamento stilistico in grado si situarla come punto di riferimento nel mondo poetico.