In questo suo ultimo lavoro Stefano Vitale procede in totale coerenza con il percorso poetico e stilistico (già ben delineato ne “Il retro delle cose”) lungo i binari di una poesia-pensiero dialogante, mai oscura o ermetica, ma con il preciso intento di denudare la realtà dai finti orpelli della doxa, scavarla in profondità e con una ricerca che è anche filosofica tout court approdare a una qualche forma di precaria verità. Il vero paradosso è che questa verità attingibile ha il marchio di “una festa d’ubriachi” e consiste nel “difendere il tuo errore”, è per l’appunto “La saggezza degli ubriachi”: si permea e plasma sulle sue stesse incertezze, si regge su un connaturato disequilibrio che è al contempo unico appiglio. Il titolo non ci ricorda tanto l’adagio “in vino veritas”, troppo ovvia lettura anche se il riferimento popolareggiante non è da escludere, quanto piuttosto l’oraziano “Nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus”, inteso come processo liberatorio dalle costrizioni della pura razionalità conoscitiva che pare essere unica possibilità nella società moderna, a favore di un approccio di tipo pre-razionalistico volto al disvelamento dell’inganno insito nell’apoditticità del determinismo razionalistico.
Bisogna riconoscere che, capovolgendo Prospero, “Siamo fatti della materia dei nostri sbagli”, ossia siamo fermamente al centro de “La Tempesta” del vivere, e se si può conoscere è solo nella forma di “presunta Verità”. Tuttavia la strada di “godere del silenzio / dei nostri pensieri nascosti e veri” non riesce ad estrometterci dalla esigenza fallace de “la voglia di sentenze”, contraltare al linguaggio salvifico degli ubriachi che è invece – metaforicamente - il mezzo per scardinare finte certezze. In questa ottica compare a più riprese l’accenno, quasi allegorico, allo specchio che da esatta rappresentazione della realtà diventa invece “inevitabilmente deformato” strumento di conoscenza, quasi a dire che la superficie delle cose per quanto replicata fedelmente ne amplifica l’inganno (ancora più avanti “Anche gli specchi possono sbagliare / restituire ombre disfatte”, p.20 e ancora “Io sono e non mi vedo”, p.19 per arrivare a “nell’arroganza degli specchi / tutto ci sfugge e scorre a fiumi il sangue”, p.22).
Il nostro procedere nella vita, ci dice Vitale, è quindi secondo il percorso di una “folgore spezzata” o per mezzo della contraffazione scenica cui si resta soggiogati (“controfigura di me stesso / dietro le quinte”, p.19), ma questo non porta ad un’insensata desistenza perché come afferma Vitale occorre cercare “l’esatto bagliore / di un istante già dimenticato” (p.21) e “Il nostro compito è scambiare parole” (p.22), aliter la Poesia.
Altro tema d’interesse, a nostro giudizio, è la negazione del modello neopositivistico di matrice darwiniana che vede nella competizione la chiave di volta del modello sociale contemporaneo e l’unica strada per il successo personale. L’uomo è afflitto da una visione evoluzionistica dominata dalla “astuzia della Storia” ci dice Vitale, mentre “giochiamo col secchiello e la paletta / scavandoci la fossa, annoiati sorridendo” (p.28), a dominare vacuamente è “l’ansia del combattimento” per “costruire il tempo / che nessuno ancora ci ha servito” (p.37). Ad essere oggetto di demolizione poetica è dunque “L’idea della perfezione” astrattamente in voga che urta contro l’evidenza della nostra “fragranza impura” che va strenuamente difesa da questo “tarlo che rode l’occhio di legno” (p.39), e Vitale procede convintamente in questa operazione a colpi secchi di efficaci metafore associate a sentenze gnomiche di sicuro effetto come tipico del suo procedimento estetico. È la perfettibilità ad essere messa in discussione a favore di un visione della vita che va accettata nella sua innata e salutare fragilità (p.41):
Oltre l’indicibile resta l’agonia
del tempo che intanto tutto allevia
anche il peso dell’errore
che noi stessi siamo.
Il tutto viene scandito come lucido monito (si veda il martellante “Non c’è più tempo” nella poesia a p.44) e il darwinismo di ritorno viene inchiodato alle sue responsabilità e al suo vacuo messaggio (p.44)
perché non c’è un perché
all’ottusa malformazione
della Specie che noi siamo
Lo stesso avviene per il mito del progresso tecnologico nella interessante poesia “Treno che sfila” (p.51) dove l’alta velocità diventa addirittura “travaglio”, “pura illusione”, denigrato il “mito rinnovato del tempo guadagnato” mentre l’unico beneficio che offre la segregazione imposta dal viaggio (evidente il nesso con il viaggiatore cerimonioso caproniano) è la possibilità di recuperare a sé stessi il beneficio del silenzio, “la piuma” di un “sorriso”.
Questo distacco dai modelli precostituiti del razionalismo di maniera a favore della saggezza irrazionalistica degli ubriachi non conduce tuttavia al pessimismo arrendevole, ma prospetta la necessità di una visione alternativa, “alla coda dell’occhio” (p.56), ossia al margine delle cose per disvelarne un senso altro, più nascosto, negare il mondo imposto a favore di quello autentico come solo la poesia consente: “così mi giro dall’altra parte del mondo / e canto, sottovoce, canto” (p.56) – con un tono quasi da chansonnier. Si leggano a tal fine anche gli emblematici ed efficaci versi a pag.53
Tirar fuori dalla selva del tempo
una parola certa e precisa
[…]
per dare un senso
al silenzioso scrutarsi delle cose
Anche l’omaggio a Leopardi citato con il gioco del nomen-omen nella poesia Cadono in una voragine è sempre all’insegna di questo rinnovato coraggio offerto dalla poesia (p.45):
alziamo lo sguardo
verso le stelle, manto di leopardo,
notturno continente che tutti ci racchiude
e al tempo stesso (p.49)
Ci guida il canto
piccola ostinata intima luce
che riposa nel tabernacolo
delle nostre viscere
La sezione “Dal terrazzo” bene si amalgama alla logica della silloge portandoci ad una sfera più intima, dove il domestico terrazzo da cui si osserva la Natura con le sue trasformazioni ci ricorda il nostro stato di “cose tra le cose” (p.63), consci senza drammi della “intima necessità dello svanire” (p.60) riassorbiti nel cuore della Natura (p.61)
forma dell’Essere
incomprensibile e chiarissima
Natura
Troviamo qui molti versi memorabili per la loro icasticità ed asciuttezza espressiva per ricordarci che siamo “mondo che rinasce / nella pura insolenza del vivere” (p.65) e ancora “automatismo creaturale / bellezza del nostro limite / che unisce e libera” (p.64). Ci si può dunque perdere nella ebbrezza della contemplazione come per le rondini “vita ammirata / che non possiamo afferrare” (p.70) o della città fra le prime tenebre dove il paesaggio diviene varco per conoscere se stessi
fedele paesaggio
del mio silenzio
del mio passaggio
Questo processo cognitivo-contemplativo assume il suo acme nell’ultima sezione “Moments musicaux” dove a confrontarsi dialetticamente sono suono e silenzio, senso e rumore, nel tentativo di afferrare il “fermo presagio dell’eterno canto” (p. 76) o a p.78
quest’assenza
di noi a noi stessi
perduti nello specchio infranto del suono
dove si può notare ancora il riferimento allo specchio che va distrutto per restituirsi alla verità, per quanto essa sia percezione d’assenza. In fondo “Desideriamo tutti una forma” “epigrafe del tempo senza tempo” (p.81), una permanenza provvisoria al fuggire inesorabile nella “porosità del tempo”. La silloge si chiude proprio nell’urgenza del recupero del silenzio “pianissimo del Nulla / oltre il dolore” (p.85) per compensare la “ossessione scomposta della vita che ci resta” perché, crediamo di poter concludere, la saggezza degli ubriachi consiste proprio nel negarsi all’ostentazione dei tempi, ai falsi miti universalmente riconosciuti – quelli, veramente, insipienza da osteria – testamento olografo della nostra epoca.