Ipotesi di felicità. Un poeta, la sua poesia, che cosa colpisce il lettore? Penso che, soprattutto in questi tempi, in cui molti scrivono e pochi concludono poesia, sia proprio l’originalità. Non sono un critico ma un lettore che apre e chiude i libri in base all’interesse che l’autore riesce a suscitarmi – interesse uguale curiosità. Non c’è scampo, tutti noi lettori, che scartabelliamo tra gli scaffali delle librerie o delle biblioteche, fisiche o online, siamo rimasti quei ragazzi sui banchi di scuola che eravamo, curiosi e irrequieti, chetati, cioè attenzionati, solo dall’originalità. Lo vedo con i miei alunni, nei loro occhi è scritto: “Cosa c’è di nuovo oggi?” “Cosa c’è di originale?” Se in ciò che gli si racconta a lezione, colgono un barlume di novità, allora ti seguono, altrimenti vanno altrove con i loro pensieri e ti lasciano. Così siamo noi lettori, se tra le righe non ravvisiamo un tocco di originalità, chiudiamo il libro annoiati e lo lasciamo sullo scaffale. Tanto più se si tratta di poesia. La banalità della scrittura è sempre pronta a balzare fuori da ogni pagina.
Che cosa ci aspettiamo dai versi? Una rapida ascesa in un vagheggiato ma totalmente indefinito parnaso poetico? No, le muse ce ne scampino, direi piuttosto una rapida espansione in un volume del cosmo – letterario, immaginifico, umano, psicologico, fisico, eccetera – ben definito che la nostra mente e la nostra sensibilità non riuscivano a localizzare, forse solo vagamente.
Molta poesia, di questi tempi, è priva della capacità di dare aria ai lettori, che sono simili a polmoni, si trovano invece molto spesso asfissiati da poca originalità e maldestra fantasia di una pletora di presunti poeti che farebbero bene a lasciare la penna e a farci respirare. Non è il caso di questo autore, Alberto Pellegatta. Si evidenzia immediatamente una originalità nella sua poetica, per quanto i versi non siano subito afferrabili ma non importa, perché quello che questo poeta riesce a fare è proprio incuriosire per l’espansione rapida, che lo spirito del lettore avverte, in un luogo originale prima latente.
Ecco la prima poesia della prima delle sei parti “autonome e parziali” (come scrive l’autore in una brevissima intro) di cui è composto il libro, si tratta della parte denominata PENSARE MALE:
Due grossi pesci puzzano in salotto
mentre sfoggi un sorriso balneare.
Oppure ecco la prima poesia della parte denominata L’IMPRONTA DELLA SPECIE:
Aspetterò il mio turno, non ricordo
come dare fuoco ai sogni. Batte
sui balconi delle case che ho cambiato
sui vetri che rispecchiano le facce
fatte in altri tempi e in altri specchi
approssimate, finché suona al citofono.
E via così.
Il poeta sembra quasi “buttare là” le sue riflessioni: “Tiè, beccati questa… questa e quest’altra”. Nella stessa breve intro si pronuncia così: “La confezione di questo libro, come la costruzione della muraglia cinese descritta da Kafka, procede per parti autonome e parziali. Perché il lavoratore, preso dalla smania di terminare il progetto, non fosse sconfortato dall’impossibilità di intravederne la fine. […]” Ebbene, è proprio questo “buttare là” riflessioni in apparente ordine sparso che a me piace moltissimo e dona al libro, a mio avviso, una nota di originalità. Avviene un po’ come per un pittore che dipinge una parete usando il pennello in modo fantasioso lanciando spruzzi qua e là, a forza di spruzzare riesce a dipingere tutta la parete. Se trovassi un pittore del genere mi fermerei a osservarlo incuriosito e penserei: “Ce la farà?” Spruzzo dopo spruzzo, in breve, sarei coinvolto e direi: “Lì, guarda lì… ci riesci a buttare un po’ di pittura lì?” Pellegatta è simile a quel pittore, pittura le pareti e rende l’ambiente confortevole ma lo fa a suo modo; ciò che conta, nella relazione con il lettore, non è il fine, che forse nel caso del poeta non c’è, quanto la modalità originale di lavoro: verso dopo verso si termina il libro e la stanza è perfettamente imbiancata, la poetica è delineata. Nel percorso di lettura i versi possono apparire slegati dal contesto ma, nell’insieme del lavoro, ognuno diventa pietra di sostegno della muraglia, per rientrare nell’analogia proposta dallo stesso autore.
Ma c’è un altro aspetto che viene in luce, ed è l’essenzialità della poesia di Pellegatta, a tratti telegrafica:
Le barche battono le loro nacchere
nuziali. Spingono il cielo a est e
tra non molto ciò che avvistiamo
sarà un allattamento a Vienna.
Il cielo si abbassa sotto l’abbaiare dei cani.
Alla seconda passeggiata e alla terza lunazione
mi sono annoiato:
acqua nei laghi, penisole di lepri, troppo.
Di quattro cose al massimo ho bisogno.
L’ultimo verso, sopra riportato, rivela forse il carattere dell’autore, ma non lo conosco personalmente, sicuramente rivela la sua modalità di lavoro poetico: nella costruzione dei versi è essenziale, forte e mite al contempo. Sa innestare una scrittura più prosastica al punto giusto ma senza abbandonare la sua linea di lavoro poetico: “di quattro cose al massimo ho bisogno”. La poesia, quando eccede e non riesce a farsi essenziale, pulita, sfrondata dall’inutile, ben calibrata e lontana dall’estemporaneità, diventa insopportabile dopo appena pochi versi. È quello che non accade in questa raccolta di versi.
Porto adesso l’attenzione su un titolo che ho molto apprezzato: “LA MOLTIPLICAZIONE DEI COMIGNOLI, O DOVE ACCOMPAGNARE IL LETTORE”. L’incipit di questa poesia è degno di un romanzo di Murakami (che amo):
Non pioveva da mesi quando ho iniziato a scrivere.
Facevi qualcosa nell’altra stanza. Aggancio la cella
di un caso di cronaca nera. Ogni tre respiri
ti faccio spazio. Aggiungerei del gin.
[…]
Quando trovo uno scrittore che sa dosare l’aspetto narrativo nei suoi versi, viceversa, sa dosare l’aspetto poetico nella sua prosa, senza banalità ma con la semplice capacità di calibrare le parole, sceglierle e concatenarle con sapienza, allora mi ritengo soddisfatto di quella lettura, e molto. È questo il caso. Nella stessa poesia l’autore continua:
[…]
I tonni addormentati su una lista
il sale grosso e il contrario della legge.
Chiunque conosca le frequenze umane sa che
l’acqua ritorna alla costa e che ogni tanto
una sedia non è altro che una sedia.
[…]
“Una sedia non è altro che una sedia”, trovo questo verso fantastico, l’ho letto varie volte scorgendo in esso una sorta di mantra capace di trasportare in un’aria più rarefatta dove la verità pura e semplice delle cose umane sembra voglia rivelarsi, per quanto diafana – se non altro se ne ha la sensazione.
[…]
Non posso scrivere meglio di così, se no sarei già morto.
Togliti la giacca per entrare in questa poesia
siamo qui solo per l’italiano e avremo aerei sufficienti.
Nel corso della lettura ho trovato diverse poesie per le quali ho avuto il pensiero: “Eccola, questa avrei voluto scriverla io!” Quando succede allora è fatta, il poeta è “assunto”. Per adesso ho assunto pochi poeti contemporanei alle mie “dipendenze” di lettore esigente – strizzata d’occhio. Come ho già detto altrove, parlando della plaquette di un poeta “assunto”, basta una sola poesia a giustificare l’impresa della scrittura e della pubblicazione di un libro.
Si potrebbero dire molte cose ancora ma la poesia, per quanto oggettiva, come l’arte in genere, ha una componente di soggettività nel lettore (si veda l’indeterminazione poetica accennata in “Quanti di poesia”, Edizioni L’Arca Felice e trattata in “Poesia e scienza: una relazione necessaria?”, Edizioni CFR) che non può essere espressa se non come esperienza personalissima di fronte al dire poetico. Pertanto chiudo, invitando però alla lettura integrale di “Ipotesi di felicità”, e propongo la parte finale di una poesia che si trova proprio nella sezione omonima:
[…]
Il dolore esce oleoso dal rubinetto chiuso male.
Nell’incavo del ginocchio dove prude.
Per questo le scariche, il trauma, non per ritrovare
l’equilibrio, non per formare piazze o tendenze
ma per disobbedire alla natura, che a poco a poco
diventi libertà. Dolci sparatorie rischiarano la notte.
Per ogni forma il suo contrario. Andare in pezzi
per migliorare.
Buona lettura.