Una serie di coppie di distici compone la prima delle tre sezioni della silloge poetica Unità di risveglio uscita nel 2010 nella collana bianca dell’editore Einaudi. In Sintomi la crepa, che diventerà un abisso nella successiva sezione Terra di nessuno, è già aperta, e la Rosadini cerca di colmarla con i fruscii delle innumerevoli consonanti fricative: allitterazioni ripetute che fanno nell’orecchio quel “ronzio remoto/ come un’arnia affollata in fondo alla palude”.
La parola poetica che vi batte dentro con tale ritmo ostinato è testimone di un progressivo svuotamento interiore percepito anche come un guasto fisico, che investe ogni membro del corpo: strappi, grumi di sangue, ossa scheggiate, pieghe, tagli, cicatrici, “la bocca sdentata dell’inguine” lo ingiuriano, nonostante l’inarrestabile proliferazione (“mi crescono le unghie, ed i capelli”).
Dunque, da subito, viene posto al centro dell’universo poetico della Rosadini il corpo, quale strumento primo dell’experiri, veicolo d’ogni emozione (“la gioia della mente/ sta/ nel corpo”), realtà oggettiva all’interno della dimensione spazio-temporale in stretta correlazione con quella dell’interiorità soggettiva.
Esso è il protagonista assoluto della sezione centrale della silloge: Terra di nessuno, in cui l’autrice racconta l’esperienza del coma in cui piombò per tre settimane nella primavera del 2015. La parola viene chiamata ad affrontare un argomento al limite del dicibile, a inseguire frammenti memoriali ed onirici e a razionalizzare pulsioni e percezioni di difficile decifrabilità; e si fa vibrante, tesa, complessa, talvolta sperduta, confortata soltanto dal medicamento della musica: rime interne, assonanze, consonanze, allitterazioni e altre figure di suono.
Ma più di ogni altra cosa la soccorre (per usare un’espressione di Cristina Campo) l’eletta figura del mare. È un ritorno alla casa della prima infanzia, affacciata sul mar Ligure. Alle acque fetali della propria storia biografica.
In questo senso, può considerarsi centrale il testo a pagina 52 (introdotto dalle parole dell’amica e poeta Mariangela Gualtieri che chiama “mamma” l’acqua), in cui la vampa dei ricordi trova sollievo nella contemplazione del mare: “alito azzurro di luce”, “promessa”, “traccia sedimentata”, che “parla in un modo familiare”.
Di fatto il linguaggio adoperato dalla Rosadini s’intesse di verbi, aggettivi, nomi, tutti ampiamente legati all’elemento acquoreo e che disegnano, all’interno soprattutto di questa sezione (ma, sia pure meno vistosamente, anche nelle altre due), un’omogenea e vasta area semantica. Come se tutto il mondo poetico espresso dall’autrice possa essere rappresentato con una sola metafora, ma così variamente declinata, da produrre un effetto a raggiera di forte impatto emotivo-evocativo.
Già nel testo d’apertura della seconda sezione, il corpo in coma viene definito: “Uno scafandro ottuso/ sul fondo del mare”. E d’ora in avanti tutto ha a che fare con la liquidità tra ripetuti affondamenti, vortici, onde, fondali, “acqua che stringe/ da ogni lato”, “liquido/ che affoga ogni protesta”, derive, risucchi, naufragi. Perfino i familiari in visita sono paragonati ad ormeggi sicuri, ad approdi di speranza. Sanno di luce e sale marino: sono la vita che sta fuori, la luce estiva, l’altro canto.
Del resto l’acqua è uno dei simboli archetipali più complessi e più intensamente usati nell’ambito del linguaggio comune, filosofico e mitologico-poetico: sorgente di vita, elemento di dissoluzione, simbolo degli strati profondi dell’io, fertilità e morte, emblema del flusso del tempo: il “sempremai ricominciato” (come scrive Valery) che istituisce una relazione ciclica tra vita e morte.
Inutile elencare tutti i poeti che lo hanno amato e fatto oggetto del proprio canto, ma certamente, fra tutti, è Omero con la sua Odissea a venire per primo in mente: la storia di Ulisse che compie un lunghissimo viaggio per mare, ostacolato da mostri, fatture, ire celesti, tempeste, prima di raggiungere l’amata patria e la casa e gli affetti più sacri, è soprattutto un percorso di ritorno verso se stesso, verso la propria identità, come quello compiuto dall’autrice. Perché prima di ritrovarsi bisogna perdersi, prima di amarsi bisogna conoscersi, prima di ritrovare la salus, bisogna sapere cosa sia la malattia.
E, dunque, non stupisce che la Rosadini titoli la terza ed ultima sezione del libro Itaca. È il momento dell’approdo alla propria casa, agli oggetti, agli affetti, tra spaesamenti, consolazioni, dubbi e domande. E finalmente in quello conclusivo:Home again (significativamente corredato dell’annotazione Milano-Genova 2007-2008) il paesaggio marino della propria casa d’infanzia colora i versi con le sue belle cromìe: “indaco cielo e azzurro mare”, “linea/ di verde che sfuma piano verso oriente”, il “bianco/ nuvola”, e, lungo il litorale, brilla “il vivido dei fiori spruzzati”. Alla paurosa verticalità dello sprofondamento si sostituisce lo “spartito orizzontale/ di nuvole”, il “pentagramma che inizia dalla costa”.
Il viaggio si è concluso, ma il futuro non sarà come il passato (anche il ritorno di Ulisse è un non-lieto fine con tutto quel bagno di sangue che consacra il ricongiungimento degli sposi), perché la malattia ha provocato dei mutamenti fisici e psicologici a cui bisognerà adattarsi.
Un libro, allora, questo della Rosadini insieme materico e intimo, ché il corpo viene nominato, esplorato, esposto come un oggetto, e i sintomi del male inventariati, le più piccole percezioni registrate come in una sorta di diario medico, il sistema nervoso innestato nei suoni delle parole, i sogni narrati come una realtà parallela a quella sospesa, chiusa, immobilmente rituale, quasi onirica, dell’ Unità di risveglio; ma, allo stesso tempo, un percorso profondo nello spazio interiore, un’indagine sul senso del proprio essere nel mondo, un modo di integrare esperienza, memoria e poetica.