“Non siamo noi che personifichiamo, sono le epifanie che giungono a noi come persone”, scrive Hillmann. A me sembra che nessun’altra affermazione possa meglio esprimere il mondo poetico di Garufi, che, nel rimandare ad una visione sacra del reale, abitata da divinità, angeli e presenze metafisiche, rinverdisce il concetto di ispirazione, ormai così poco condiviso, se non disprezzato, nel mondo delle lettere contemporanee, perlopiù votato ad una laicità che ha svuotato di ogni alone di mistero il gesto amanuense dello scriba (il solo, nel passato, che conoscesse l’arte della scrittura e che fosse in grado di comunicare con gli dei).
Significativamente Giovanni Tesio, che firma una densa e coinvolgente postfazione, parla di “angelismo visitante”: annunci, voci che versano nell’orecchio del poeta sussurri e segreti e formule mistiche; i propri morti, innanzitutto, e tutti i poeti letti ed amati, e le cose che sempre sono altro rispetto a ciò che appaiono: “tra questi fiori che fiori sembrano/ e sono invece anime che nella notte ondeggiano” (Verso il mare, pag.10); e, a pag. 13: “quelle nuvole che sembrano distanti/ ma sono angeli divini”; e si potrebbero offrire altri esempi di questa straordinaria rappresentazione (la cui espressione richiama il linguaggio acceso dei mistici) che tenta di costruire una corale fratellanza fra le cose e fra quest’ultime e l’uomo.
Garufi allude, attraverso uno stile maturo, nutrito di letteratura, armoniosamente costruito, alla felicità visiva e cognitiva dell’infanzia: a questo mirano le irruzioni memoriali nel suo più lontano passato, come anche l’ascolto e l’accoglimento delle voci misteriose della sua terra natia.
Tutto questo potrebbe fare pensare alla poetica del Pascoli; ma in Garufi non c’è alcun balbettamento, nessuna patologia sentimentale (nonostante la dolente qualità di molti ricordi), ma piuttosto una gioia intima, un’affermazione di vitalità più che whitmaniana, perché essa proviene dallo spirito, dalla percezione di una coralità sacra ed affratellante.
È l’amore il fiato più profondo di questo libro, così percorso da termini evocativi, quali “luce” ed “aria”, che si rifrangono in verbi e nomi attinenti al volo, all’esplorazione dell’alto, e trovano i loro concreti emblemi nei molti volatili che percorrono il cielo, mentre si respira nei versi lo spalancamento dei sensi, il flusso palpitante dell’essere.
Un libro, si diceva, di “angelismo visitante”: angeli sono anche tutti i poeti letti ed amati dall’autore, dalla letteratura classica a quella contemporanea. Essi sembrano spargersi come uno stupefacente pulviscolo d’oro nei versi di Garufi: l’uno accanto all’altro, in un mescolio di sintagmi, stilemi, versi, titoli mietuti a piene mani, senza che l’espressione soffra di alcuna pesantezza o superbia esibizionistica, poiché l’autore non cita, anche quando sembra farlo, ma ridice e illumina di ardore empatico ogni parola.
Si ha l’impressione di entrare nell’onirica biblioteca di Borges, dove è possibile trovare Montale e Sereni, Luzi, Pasolini, Leopardi, Dante; e, tra i poeti stranieri, Pound, Eliot, Baudelaire, Coleridge; e tra i classici, Catullo, Isidoro di Siviglia, e, ancora, così tanti altri che, man mano che si va avanti, si comprende che la meta è la dimensione visionaria ed assoluta della lingua, quella che “manca alle persone”, come afferma Garufi in un’intervista: la lingua “altra”, che è conoscenza immediata e intatta, la lingua “una” prima del disastro di Babele, quella fondativa, quella, insomma, della Poesia.
Di fatto, questo libro, con tutti i suoi angeli sussurranti, vuole essere un omaggio alla Poesia, invocata come una musa, alla maniera degli scrittori di poemi (e, di fatto, poematica è l’architettura segreta di questa silloge nonostante le sezioni in cui si divide e la frammentazione in più testi); elogiata come la sua “seconda famiglia” dall’autore; incapace di salvare il mondo, ma efficace “nell’entrare nel cuore delle persone”.
Forse per sottolineare questo fallimento della poesia come evento risolutivo del male che è del mondo reale, forse per allontanare da sé il sospetto di cecità o l’accusa di vigliaccheria nella fuga in una dimensione troppo privata, forse per ricordare agli altri il suo concreto impegno politico-amministrativo, Garufi conclude il suo libro con la sezione intitolata Poesie del disamore, in cui ironia, sarcasmo, dolore e risentimento etico accompagnano l’esplorazione delle relazioni umane nella società contemporanea.
Ma è proprio il termine “disamore” a condurre ancora una volta al suo opposto: il lettore è chiamato, come fa l’autore, a non nascondersi, a non abbandonarsi all’otium quale facile via di fuga, ma ad impegnarsi all’interno della comunità: le voci degli angeli, dei cari morti, gli ideali, la bellezza, la purezza dell’infanzia potranno, casomai, servire da psicopompi nell’arduo cammino della vita terrena. In questo senso va letto il titolo della silloge: quel Fratelli, che richiamando una celebre poesia di Ungaretti, desidera restaurare all’interno del clima d’odio della società attuale, simile a quello che si respirava nei campi di battaglia durante la prima guerra mondiale, i legami affettivi naturali, la religio dell’esistere: compito primo della poesia.