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Berretto a bubbole

Poesia

Costanza Lindi
Midgard Editrice

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 31/03/2017 12:00:00

Divertente, arguta, a tratti irrispettosa per le provocazioni e le debordanze linguistiche delle sue interrogazioni, delle sue irriverenze rispetto a un quotidiano e a un mondo ostinatamente chiuso nelle proprie irriflessioni e nelle proprie irate inconcludenze questa terza prova (oltre a una raccolta scritta a quattro mani) della trentenne umbra Costanza Lindi. I riferimenti, i padri o i fratelli nobili che negli echi o nelle risonanze esplicite si accavallano sono quelli già dal titolo di Pirandello, quello di Marinetti e poi di certi richiami alle avanguardie del secolo scorso, a Palazzeschi ci pare soprattutto nonché alla cantautorialità degli anni settanta. E poi, eppure, nelle rivisitazioni di cui si fregia- nel divertissement mai banale del cimento- ecco i richiami anche al mito greco, nell'appassionata controfigurazione di Dei e uomini (Pandora, Narciso, Elena, Eco, Icaro), e lo scioglimento dalle carte della storia letteraria (Don Chisciotte, Cyrano, Mercutio, Achab) di una simbologia umana colta sempre in quel surplus di connotazione fatta di aspirazione e rovescio nell'incalzare della menzogna e della morte in cui solo Romeo, sapendo ascoltare le proprie bugie, può dire benedetta la propria follia. La maschera così va a connotare nella stasi delle paure il rammento di un bisogno e di un mondo che è nel minuto, nel frammento che lo copre e lo può svelare ("Tutto quello che voglio sapere/è in un granello di sabbia"). L' arlecchinata della prima e omonima sezione ma soprattutto la narrazione della seguente "Pseudobardi", entro una scrittura che come uno svuotatasche raccoglie il tutto- necessario, ordinario, frivolo- della vita, svelano uno spazio che nel riflesso poetico della Lindi si industria comunque a procedere senza di noi avendolo smarrito nel basso di una terra che non sa più la sua meraviglia ("Forse è meglio così./Sono giochi da grandi" subito però aggiungendo nel sarcasmo della dolenza). ll percorso, la cattura di nuovo del sentiero passa dal fingersi ciechi, dal restare dietro agli altri nella fantasia e nella provocazione delle mani in tasca, dal vivere distesi come camaleonti "sulla corolla di un papavero,/sposando la luce/ come capro espiatorio". In una realtà deformata e deformante, in un mondo in cui ogni cosa ha il nome sbagliato , l'ordine è dato dal "rendere leggibile l'essenziale", da uno "scrivere sull'acqua" reso nell'urto dei contrasti dal cortocircuito delle forme continuamente richiamate e impresse in giochi di parole che ne infingono la lingua illuminandola o mettendola alla prova nella capacità evocativa di suscitare prospettive e feritoie diverse come negli esercizi di "Gingilli" la sezione finale e in "Lilliput" dove in brevissimi versi i testi scherzano con gli elementi del mondo (dagli animali agli oggetti) in scomposizioni diremmo cubiste comunicando l' alternativa perfezione- e profondità- delle svagate dislessie che ci compongono (il mare che si mangia le parole nella spuma, le ali a mostrare la parte più bella delle giraffe). Pertanto è bene accompagnarla nel procedimento togliendo alle sue disposizioni il nome di maschera perché nell'effetto riuscito il volto che ci mostra è quello di un tempo rimestato e smorzato per misericordia al fuoco di una disperante urgenza che è in quel perdono di noi stessi che viene a strattonarci fino al tramonto nel riconoscimento di una medesima desolazione. La gioiosità sottesa, la vivacità della luce, la curiosità della vita e dell'amore ("Quello che vorrei capire/è perché le cose stanno così/finché stanno così,/e perché cambiano/per stare così/finché stanno così") è ciò che resta e che in conclusione guida oltre l' interrogazione metapoetica di una scrittura che sa sciogliere (e non "per finta") nel gioco delle frizioni e delle condivisioni il proprio soffrire, piangere e prendere la pioggia. Un autrice dunque nella solidità di un cammino a cui manca solo maggiore vigilanza rispetto a qualche eccesso che scema in dissonante ripetitività ma sempre nella chiarezza della partitura:"Che io possa essere estremamente breve/nell'estrema brevità del mio poter essere./Che l'estremo possa essere breve dentro di me/vantando con brevità l'estremismo del mio vivere".


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