Pubblicato il 17/06/2011 12:15:41
Aspettava il treno alla stazione e s’aspettava gli sbuffi di vapore come nel Far West, ma gli sbuffi non c’erano, così come non c’era la poesia degli scrittori e dei diari di viaggio in quella attesa per andare e tutto ciò forse era buffo. Forse sarebbe stato meglio il finestrino di un torpedone sulla statale, di quelli metallizzati e arrotondati come nei film degli anni ’40, con il latte in bottiglia fuori la porta, forse, si forse, una vita fatta di forse. Comunque avrebbe avuto di che raccontare, gli piaceva raccontare, era buono a raccontare; ad ascoltare no, non lo era, non lo sapeva fare, gli mancava la pazienza. Raccontava spesso delle sue donne, belle, sempre uniche, tutte andate via, forse perché non aveva pazienza, perché non sapeva ascoltare. Mi disse di lei, l’unica di tutte, disse che stava male e che ultimamente era peggiorata, una cosa seria dissero gli amici di un tempo. Prendeva il treno per andarla a trovare, dopo vent’anni di silenzio, dopo vent’anni di chissà.
Quando il treno arrivò rimase lì, non salì, fissò la porta richiudersi, aveva deciso di non andare, decideva sempre all’ultimo. L’ultimo gesto di un gentiluomo, difficile da capire, forse. La volle trattenere nella mente come vent’anni prima – tempo balordo – come vent’anni prima, col succo di fragola, con le guance belle e coi pizzichi distratti su di una chitarra. Così mi disse, ma forse così non era neppure, eppure io ci credevo, in fondo era così bravo a raccontare.
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