Poi leggi le poesie della silloge Dispacci di Narda Fattori e ricominci a sentire l’aria circolare dentro i polmoni e schiarirti il cuore già a cominciare dai versi iniziali, simili a delle finestre spalancate da cui entra la vita, tutta. E, pagina dopo pagina, finisci con l’immergerti nella vita biografica ed intima dell’autrice, e nelle sue relazioni con gli altri, con il mondo esterno, la Natura, gli eventi della storia contemporanea.
Il dolore, la gioia e, tra l’una e l’altro, tutti i diversi sentimenti possibili, sono da lei accolti con la grazia di chi ha appreso come stare in equilibrio, se è vero che la vita “non fu ballo”, ma nemmeno “solo sventura”, ed ogni cosa è stata affrontata con l’umiltà di sapere che “siamo fatti/ di quasi niente”.
Inutile cercare un tema dominante, perché, con quella semplice complessità che appartiene al vero poeta, Narda Fattori abbraccia il tutto e lo racconta con un linguaggio di straordinaria pulizia formale, che, sebbene accolga tanta terminologia contemporanea, travalica il tempo dando voce a sentimenti assoluti, universali, entrando nei territori dell’anima.
Così, sia quando canta la tragedia contemporanea dei tanti annegati nel mare Mediterraneo e quella della guerra e della crudeltà, sia quando dà voce ai ricordi ed ai sentimenti personali, in realtà la sua poesia non fa che mimare il flusso eterno dell’esistere da sempre contraddittorio, il suo coagulo di bene e male, senza acrimonia o pregiudizio , perché l’essenziale è la continuità; perché, a forza di resistere dentro, s’impara ad avere quello “sguardo ridente/ alla vita sì alla vita ai suoi dolori/ agli amori ai troppi errori “ e, perfino, a sperare che “si volesse aprire ancora una porta”.
La malinconia, la solitudine, la macina dei ricordi si aprono strada in questi versi, in cui l’elemento lirico e quello narrativo appaiono così strettamente intrecciati e caratterizzano la personalità di una donna che ha molto sopportato e sofferto, e, tuttavia, sembra avere raggiunto il segreto del vivere, lo stesso che narra un’antica, bellissima leggenda, secondo la quale, dopo la morte, l’anima di ciascuno verrà pesata in una bilancia che avrà sull’altro piatto una piuma.
La Fattori, insomma, non ci comunica solo il dovere etico del vivere nell’innocenza del bene, come i bambini, ma aggiunge un più profondo messaggio estetico-filosofico, come a dire che solo colui il quale sa guardare le cose lievi, quelle senza apparente significato e scopo, raggiunge il segreto dell’essere. Che sono le cose minime a reggere il mondo con la loro grazia. Per questo motivo Narda canta “il ricciolo dei tuoi capelli”, “il cielo lassù azzurro alto col gregge chiaro”, una ragazza che “spalanca lo sguardo sull’azzurro”, “la processione ridente dei bambini”, “una farfalla/ che si appoggia sul fiore senza peso”. E, mentre viene da pensare al celeberrimo passo del Libro dei Re in cui si racconta che Dio fu “nel mormorio di un vento leggero”, d’improvviso sembra illuminarsi il senso di un titolo “Dispacci” che, di primo acchito, sembra così poco consono al tono poematico della silloge.
Il fatto è che la Fattori, “da un avamposto arrischiato, uno dei pochi tuttavia che garantiscono vista acuta ed eloquio chiaro”, come scrive nella prefazione Anna Maria Curci, invia i suoi testi (o i suoi “dispacci”) per richiamare gli uomini al bene ed al bello, ai loro bagliori, sia pure minimi, che, tuttavia, illuminano il buio del mondo contemporaneo come di ogni vita individuale. Se i “dispacci” arriveranno a destinazione, non è detto: potrebbe accadere di no, come al messaggero di Kafka; e, però, essi resterebbero comunque in attesa di una probabile, futura accoglienza. Poiché la poesia è un valore che non ha tempo e, dunque, non fallisce mai.
Narda, intanto, organizza i suoi testi secondo una struttura instancabilmente positiva: il male, rappresentato con verità e forza descrittiva, non occupa mai tutto lo spazio dei versi; c’è sempre in essi, spesso nella strofa conclusiva, un controcanto d’amore, la qualità tersa di un pensiero mai disposto al disfacimento, alla resa.
E, soprattutto, c’è la limpidezza del dire che fa parte di una precisa postura etica: la comunicabilità per Narda è, infatti, un valore aggiunto al gesto di per sé generoso del poetare; quasi che il mettere in comunione con gli altri il proprio mondo interiore, il pensiero, lo sguardo sulle cose sia una forma di religione, un modo, cioè, di tessere legami duraturi e significativi.
Quasi superfluo appare, infine, sottolineare come l’ampio bagaglio culturale e la preparazione filosofica dell’autrice non costituiscano elementi di gravezza e di ostentazione, ma come, invece, elaborati in modo del tutto personale, diventino quasi un pulviscolo d’oro sparso nella tessitura dei versi, che se ne impreziosiscono senza sovraccaricarsene.
Bella e fluida è la musicalità della versificazione -ricercata attraverso catene sonore di significanti, specialmente allitterazioni, consonanze ed assonanze (preferite alle rime)- che fa di questi Dispacci tante preziose epifanie.