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Una relazione pericolosa

Romanzo

Leonardo Bonetti
Italic Pequod

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 30/12/2016 12:00:00

 

Sembrerebbe che la cosa più pericolosa in questo bel romanzo di Bonetti sia una facile assonanza con il ben noto lavoro di Choderlos de Laclos, per il resto l’autore segue una sua linea ben personale per raccontare all’affascinato lettore la non sempre facile relazione del protagonista con l’altro sesso. La vicenda inizia a Positano in un sensualissimo scenario di rocce scogli e mare. La scena appare tranquilla, incontriamo il protagonista, Gregor Läkla, affermato docente universitario, alle prese con l’amante Josephine e le difficoltà di vivere in segreto questa relazione. Ben presto si aggiunge al quadro la giovanissima figlia di un collega dello stimato docente e le acque placide del golfo cominciano ad agitarsi. Con l’urgenza di uno scenario in movimento, e che prepara il gran finale, l’azione e i protagonisti si spostano a bordo di un transatlantico diretto verso il circolo polare artico, dove il professore ha in serbo una sorpresa, l’esecuzione di una sinfonia di Dvoràk, suo amato compositore nonché connazionale.

Il professor Läkla sembra rappresentare il maschio totemico, affermato nella sua carriera, ha una piccola e adorante corte, non teme la solitudine, e ha quella sicumera tipica degli accesi nazionalisti. Accanto a lui le rappresentanti dell’ideale femminile: Bonetti divide la donna moderna in tre per rappresentarne meglio le sfaccettature, legate alle varie condizioni e alle epoche della vita. Josephine, la moglie del collega, innamorata e devota, ha le sue richieste ma sa accettare le condizioni, è soggiogata dall’uomo anche se in apparenza vorrebbe non esserlo, fedele al marito, fedele all’amante e, forse, infedele solo a sé stessa. L’altra donna Christine, giovanissima, sembra l’innocenza che non bada a forma e posizioni sociali ma tenta di passare indenne attraverso le difficoltà della sua età e di presentarsi al mondo sotto un aspetto nuovo, suo, ma che non sa essere omologato già da tempo. Sembrerebbe la ninfetta facile preda dell’uomo maturo a cui tenta di sfuggire, e così farsi inseguire, ma non sa che nell’eterno circolo di cacciatore e preda, inseguitore e inseguito sono perfettamente intercambiabili. La ragazzina fa di tutto per provocare, scandalizzare il professore, per respingerlo e attrarlo a sé. Il professore appare stizzito per le continue messe in scena ma partecipa al gioco, vi porta tutta la sua forza e ne viene sconfitto, se invece si fa spettatore passivo e subisce smancerie e provocazioni, esce trionfante dal confronto, in questo continuo vorticare i due si fanno sempre più vicini, indissolubili sino ad alitare ciascuno nel fiato dell’altra. Poi abbiamo la terza sfuggente ed enigmatica figura, apparentemente una bimba giovanissima, ma più probabilmente la Donna per eccellenza nel suo essere inafferrabile e dai contorni tanto sfumati da non poter non incantare il professore, cuore inquieto e mente sempre alla ricerca. A completamento del quadro la Musica, figura allegorica amatissima dal Bonetti, impenetrabile crogiuolo dove tutto verrà rimescolato e i ruoli travolti, nella quale il professore, sempre misurato, potrà far esplodere tutti suoi sentimenti. La vera relazione pericolosa forse è proprio questa, la musica, capace di accendere la passione più totale, di liberare l’energia a lungo e a stento trattenuta. L’unica relazione alla pari che il professore intrattiene, nutre e usa come ricettacolo di speranze, è con il concerto di Dvoràk, entro il quale getta senza remore il ribollire dei suoi sentimenti; la furia che rischia di travolgerlo nella relazione con le due donne, si fa maestà del suono, sovrano del cuore e della mente. Ma è anche trionfo dell’ego, nel parallelo della cittadinanza del compositore e del protagonista, la matrice unica e quindi madre di entrambi, Dvoràk e Läkla, fusi e trionfanti al termine della crociera lungo i Fiordi nella maestosa sinfonia. E come non intravedere nella navigazione verso nord del professor Läkla il mito del carro e dell’auriga verso l’Iperuranio, dove risiedono le idee e a cui il professore anela, dove annullare le passioni, le insidie delle due donne, la fascinazione della misteriosa creatura e abbeverarsi alle idee, pure, ma anche far gioire l’intelletto e lasciare il corpo gelare. Infatti il viaggio è verso un Nord sempre più freddo, mentre la passione arde, e le relazioni si fanno via via più pericolose, ma nell’ideale anfiteatro il professor Läkla potrà abbeverarsi all’intelletto e forse mettere fine alla pericolosità della relazione fra corpo e mente. A tratti questo viaggio in crociera sui Fiordi, idealmente iniziato nel calore assolato del Mediterraneo, mi ha evocato la relazione fra la cultura classica, incarnata dal professore, che vuole preservare sé stessa dall’irriverenza dei tempi cosiddetti moderni, o della contemporaneità. Giorni di ridicolizzazione, o di sgarbata ignoranza verso un sapere che viene dall’antichità e che ha dato le basi alla nostra civiltà, sapere che viene dal grembo del mediterraneo ed è alimentato dalla linfa del cuore dell’Europa, il professore difende una forma, che è contenuto, Christine sembra farsi beffe, Josephine usa tutto per stabilire una posizione strategica nella quale barcamenarsi. Ma, fatto non trascurabile, è Anton, collega e amico del professore, ad affidargli sua figlia Christine, in un passaggio di testimone archetipale fra il sapere locale, quasi domestico, e quello quasi assoluto dei grandi, universale; ma anche significativo del voler far entrare in contatto le generazioni più giovani con la Storia. Di passaggio sottolineo che Anton ricorda molto da vicino il nome di Dvoràk e sempre in un fiorire di simboli il compositore affida l’opera al professore, senza il quale è come una fanciulla, già dall’aspetto di donna ma in qualche modo immatura, aspetta l’uomo che la sappia capire e accompagnare per giungere al suo compimento, alla sua massima e migliore estensione. Il professor Läkla, sebbene a una prima e superficiale analisi sembri rappresentare l’immoralità, in realtà si fa paladino della più pura ed elevata moralità, ovvero quella che si rapporta non a dogmi fasulli o a etichette roboanti ma basate sul pregiudizio e non sul giudizio, intendendo il giudizio come un sinonimo di senno, ed è la moralità del rispetto del sapere antico, della cultura come pilastro e roccaforte di qualunque essere umano. E qui spunta un altro significato per il titolo del romanzo, ovvero quanto è pericoloso far relazionare la cultura classica con il modo di vedere e intendere delle nuovissime generazioni, quanto è pericoloso temere che il sapere antico possa non essere attuale e tentare di fargli rincorrere vezzi e capricci giovanilistici. Ma sarà (sempre la musica, la grande musica) una grande esecuzione, ovvero l’armonia nella sua purezza, l’equilibrio fra conoscenza, passione, fedeltà e interpretazione rispettosa, ad accogliere e conciliare il sapere antico con l’imprevedibile direzione che il mondo moderno sta prendendo. Una affermazione, forte, ma anche una speranza, uno sguardo al futuro già presente.

Come sempre la scrittura di Bonetti incanta e affascina il lettore, l’esposizione procede lineare, con metodo sinfonico, abbiamo un’apertura di luce e passioni, tinte forti ma rallegrate da trilli come in una vera e propria ouverture sinfonica, i temi sono presentati e i vari personaggi fanno sentire la loro voce, ciascuno con una sua coloritura personale. Poi, nel procedere della narrazione, i toni cambiano, ma l’armonia iniziale non ci abbandona mai, gli sprazzi di luce squarciano a volte le scene per lasciarci incantati, a volte i toni si fanno più riflessivi, sembra veramente di sentir riecheggiare, fra le parole scritte, la Serenata per archi di Dvoràk. Il linguaggio di Bonetti è una continua fucina di assonanze, contrappunti, immagini appena accennate che poi ritroviamo sotto un’altra luce ad occhieggiare un significato che era rimasto fra le pieghe ma che riluce come un sassolino sulla spiaggia appena le nubi, nel loro incessante andirivieni, lasciano filtrare un raggio di sole. E così le pagine del romanzo, terre di tesori, a volte ombreggiate dalle nubi, altre rifulgenti nel sole ma sempre ricche, ricche di emozioni e sorprese. Sovente le parole di Bonetti sono come elementi in un crogiuolo alchemico, possono diventare qualsiasi cosa, l’autore è come un demiurgo capace di far sorgere mondi ed astri, e di farceli ammirare e scrutare qualche secondo per poi riporli, rimescolarli nel calderone, e trasformarli di nuovo in altro, sempre sorprendendo, ma senza strafare, usando solo ottimi ingredienti: la letteratura dei grandi del Novecento, la musica che ha accompagnato il fluire della modernità prima che questa esaurisse la sua parabola pochi lustri orsono, il conoscere i cuori dall’averli osservati, e dai colori e dalle immagini raccolti con uno sguardo sempre vivido e attento. Bonetti usa tutto questo con sapienza per creare un romanzo sorprendente, fuori dai canoni e dagli schemi in cui altri si adagiano, con irrequietezza e voglia di gettare uno sguardo oltre l’orizzonte, e forse nel tentativo di far trovare all’animo l’iperuranio.

 


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