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Punto di fuga

Poesia

Marco G. Maggi
Puntoacapo Editrice

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 27/10/2016 12:00:00

 

Un cielo senza Dio quello di Maggi (quarantenne piemontese all'esordio, dopo prove sparse tra riviste e premi), un cielo senza direzioni (in cui altro non si è che " materia che brucia/su pire d'infinito") ma a cui comunque artigliarsi in aperture montaliane di varchi a rompere nell'urlo il respiro che non si può trattenere "prima che il buio avvolga". Nelle stonature dello sguardo degli altri, con gli altri, nell'impossibilità di riconoscerne il pensiero (pur nell'intreccio d'amore che insegnando toglie "senso a ogni vertigine" come dimostrano i testi dedicati a migranti del 3 ottobre e ai martiri di Sant' Anna di Stazzema) la condanna alla fuga, appunto, o per meglio dire a un volgere il capo a una natura che ci comprenda, che possa rispondere nelle rimemorazioni di consueti connubi. Ed infatti sono questi i testi che maggiormente ci convincono di una scrittura e di un dettato a tratti altalenante entro una lingua ora avvolgente, calda e sensualmente risonante ora debole, a smarrirsi facilmente in sforzi di secca. Una natura, dicevamo, a cui però l'uomo non sembra più appartenere, in una terra che non sa, o piuttosto, vuole più assorbire. Resta,come nella suggestiva "Promontorio", una preghiera cara per i morti nell'oscurità che nasconde il mare. Resta nel setaccio di ritorni di amore il naufragio in avanzare della propria giornata od imparare (mentre "ognuno biascica per proprio conto") forse allora dal figlio che pari all'onda che crea se stessa cerca d'imporsi tra "i marosi di una nuova speranza". La poesia non può che raccontare questo reclamo tra le intemperie del tempo e degli abbracci, nel panico stesso che la penna e il foglio, pur nella lotta, possono accogliere giacché da autore sincero Maggi sa riporre nel canto quello "strazio che più non sa fingere" cercando (per quanto conscio che nel rigirare la vita sovente resta il silenzio attorno) di dare altra misura che non sia la perdita al sorriso nell'uomo. Perché comunque in una vita che come panni stesi sulla sua corda ora arride alla luce ora "più spesso ci sbatte" e abbandona "su un sasso", "volare è scegliere/ tenere il fiato o respirare" pur nella perfezione sterile e nell'agguato dello spillo che non perdona nella bella analogia con le farfalle. Ed allora ci appare questa poesia come un tentativo di resistere ai timbri stessi dell'autore, ai suoi contrasti, alle sue contraddizioni nell'intelligenza delle interrogazioni, negli affetti di spiriti e cose (i vecchi armadi, la borraccia dei pastori) sulla soglia come ne "L'ultima foglia che cade" della figura che sa consegnarsi all' inverno, nel dubbio incalzante poi dato il sonno della ragione che la "Terra/-così speciale-/sia il frammento mitocondriale/ di una cellula di Dio". Così allora inizia a possedere senso forse nell'espressione del desiderio "frenare le scie al pensiero" per ritrovarsi finalmente entro un "firmamento più denso" dove è possibile raccontare "e sfogliare la vita"- non più trattenuta dalle incrostazioni e sentita come un' eccezione nel "tremito feroce che dilata vene/ e tornanti di arterie". Su questa soglia dunque, in una malinconia di avvicinamento che non lascia il suo autore, ci fermiamo augurando a Maggi maggiore attenzione nella scelta di testi e a cadute di tono che possono inficiarne forza e motivi.

 


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