La neve
La lama scivola intorno ai capelli. Di stoppa la ciocca che è stretta fra brividi di dita. Rami secchi le dita e paglia da ardere i capelli. Come un arco al violino, la lama libera scintille bruno ramate sul pavimento, timide prima, come ragazzini curiosi, gomiti incerti sul bordo della pista, a gruppi decisi, poi, giovani uomini gonfi nel branco.
Avanza la lama, inesorabile ipnosi degli occhi negli occhi dal vetro appannato.
Addosso soltanto quel vecchio poncho, pelle sulla pelle, non più ruvido, non ancora morbido, ma sicuro, un abbraccio sicuro del tempo vissuto con lei dentro.
L’alba.
Solo l’alba, è gelida. La tazza bollente scalda appena le dita e lascia freddi i polsi, ma è bella l’alba, ha il colore del glicine, oggi. Pensa tremando a quante volte, nella giornata, richiamerà il fresco dell’alba sotto il sole e tra le pietre. A queste latitudini è come vivere in due mondi separati, come la scuola e le vacanze estive. Sorride.
La pelle.
La pelle è dorata bruciata battuta dal vento, la pelle che gioca in piccole grinze ai lati della bocca e incarta il sorriso che arriva imprevisto e rimane incastrato lì, tra le pieghe, anche quando gli occhi non sorridono più, strani scherzi del tempo, pensa. Il corpo costringe a rallentare, a soffermarsi sulle emozioni, a non spenderle in fretta come una buona occasione qualsiasi; le buone occasioni non sono ovunque, il corpo lo sa, lo ha capito e impone l’ascolto. Questa è la vera rivalsa del corpo sul tempo.
Gli occhi.
Non sono da meno gli occhi. Quando puntano in alto socchiusi, mettono a fuoco come cecchini. Sia mai poi a sbagliarsi e cercare di ricomporli: impossibile, come la bocca. Il corpo ha preso il sopravvento, devi rendertene conto, devi fare una tregua.
Vorresti imporre ancora una volta il tuo controllo come quando eri giovane e controllavi fame freddo e stanchezza, vorresti convincere te attraverso il tuo corpo che tutto è rimasto identico ma scopri, un giorno poi un altro, che non è vero e a volte provi a fingere di essere impazzita e vivere in un film di fantascienza di quelli che le macchine si ribellano all’uomo. Peccato che la macchina è il tuo corpo e tu sei la donna, in questo caso. La trama non regge la tua bozza di follia e torni lucida.
Il ginocchio sanguina ancora, ancora e ancora, è come se tutto il sangue che hai in corpo dovesse uscire da lì, ora e subito. Si schianta in zampilli vermigli sul tappeto appena lavato e su quello sudicio del cane senza distinzione o clemenza, si raggruma come mostarda ma basta che muova più di tre passi e la crosta si apre, ancora e ancora, in labbra screpolate e giù, fiordi di sangue che ignoravi di ospitare in un corpo così arido.
Stai ferma. Hai scoperto che se resti ferma il sangue non esce. Allora cominci a pensare che a un certo punto dovrai alzarti per andare in bagno, oppure avrai fame, freddo, sonno, insomma tutte quelle cose che prima non avevi perché non c’era un ginocchio sanguinante a ricordarti di esistere.
Cerchi nella memoria, lontano, troppo, d’accordo, ma quanto? In fondo non sei così vecchia, cerchi e non ricordi, neanche vagamente ― e questo sì che è strano per te che sai sempre quando e come sei fertile e perché ― il giorno in cui tutta questa storia del ginocchio.
Dunque: era primavera, d’accordo, e poi?
Era forse due anni fa, giusto, anzi probabile anche questo. E poi? Sì ecco: avevi bevuto parecchio, anzi no, avevi bevuto poco ma decisamente male. Chi vuoi convincere? Insomma, eri poco lucida ― irrilevante ― va bene, e poi?
Poi è arrivato quel tizio con i capelli azzurri, o che forse portava una parrucca, azzurra. Questo sì, il colore, almeno, dovrebbe essere certo, peccato tu sia daltonica!
Dopo è arrivato anche un altro, basso, con la faccia schiacciata come una focaccia e i capelli verdi o gialli. Lasci perdere il colore. Resta solo il fatto che alla fine erano in molti e poi è iniziato quel gioco.
Ti fermi un attimo per controllare il tuo viso nello specchio, niente da fare, il ghigno da joker è ancora lì, non stai sognando. Allora c’è stato davvero quel gioco e tu hai perso. Davvero.
La lama scivola via dai capelli. Il sole si alza e scende il gelo dell’alba, misuri la nebbia nella baia e sai che sarà una giornata bollente. La lama cattura i raggi come un diamante, non è più fredda e lasci che ti accarezzi il collo, la gola, la rotondità della spalla, la fossetta della clavicola, la turgidità bruna dei capezzoli, il destro, il sinistro, l’ombelico e più in basso.
Quella notte è così lontana e tu sei imprigionata in un sorriso che non sa più essere amaro, non sa più essere umano.
La lama scende e all’interno della tua coscia sboccia una gemma, lì, dove la pelle è più chiara, appena dorata, lì, nella cornice dei denti che ti hanno morsa stanotte, spunta una goccia, una sola, di sangue. Pensi a quei racconti di vampiri. Se lei fosse qui, ora, e ti mordesse, lì, e tu fossi una creatura delle tenebre, lei berrebbe quel sangue e sareste uguali e fuggireste via, nel mondo dei non vivi, dei non morti e sareste al sicuro, invece non si può.
È caldo.
Ti sfili il poncho e per un attimo hai un brivido. Alle tue cicatrici non riesci ancora a farci l’abitudine, quando le vedi nel sole al mattino, hai sempre un brivido. Almeno però ― ti dici ― non devi più sopportare gli sguardi degli uomini. Gli occhi si abbassano, le risate scivolano in sordina a ogni tuo passaggio lento e zoppo per il porto perché tutti sanno che è stato uno di loro, molti di loro e nessuno vuole vedere, nessuno ha voglia di guardare. Gli occhi si abbassano, le mani sono sempre indaffarate, qualche bocca ogni tanto mastica un saluto, i più luccicano di paura perché riconoscono la mano del proprio fratello nello strazio del tuo corpo.
Lei no! Di te non ti importa
Purché non la tocchino! Ora che hai lottato come un “uomo”, sai che non la toccheranno.
Non andranno più a pascolare nel suo corpo in branco, non andranno più a svuotare dentro lei le loro sacche di violenza e frustrazione, le loro giustificazioni meschine, la loro immondizia.
È giovane, sì: era giovane. Era stata anche forte, ma non farai l’errore di dirle che passerà, sai che non passerà mai. Sai che ogni orgasmo sarà una punizione e che potrebbe anche piacerle, sai che vedrà sempre in ogni uomo un nemico e che quando smetterà di guardarsi le spalle sarà perché c’è stato di peggio, sai che nel suo corpo passeranno litri e litri di alcol, polvere e veleno e mai più una briciola di cibo e di amore, sai che subirà e cercherà e implorerà mille notti ancora e altre mille violenze elemosinando quello che si nega, nutrendosi di dolore e sottomissione, che avrà ancora e sempre un padrone e poi un altro e un altro ancora e che sarà sempre più misero e che la sua dignità sfuggirà da lei come una veste logora. Lo sai bene, però, tutto questo le piacerà, la farà eccitare, la renderà schiava e quando non ne vorrà più, quando non ne vorrà più davvero, sarà meno del fantasma della donna che avrebbe potuto essere. Tu lo sai.
Lo vedi nei suoi occhi al mattino, ipnosi degli occhi negli occhi, lo vedi nelle sue cosce incastonate di morsi, lo vedi nei nodi dei suoi capelli. Lo vedi e non puoi, non vuoi tollerarlo.
L’hai amata, hai amato la donna che era e che sarebbe, ancora, ma questa no. Questa maceria tu non la ami, tu non la vuoi!
La guardi dormire, si sveglia sempre tardi al mattino, la senti respirare, guardi il lenzuolo che la copre appena, si alza e si abbassa, si alza e si abbassa, respira, tu la ami, tu l’hai amata e ancora l’amerai, ma questa maceria, no, questa maceria sotto il lenzuolo, si alza e si abbassa, si alza, la mano, si abbassa, sia alza si abbassa, la mano, la lama e il lenzuolo fiorisce di sangue.
Ipnosi degli occhi nello specchio appannato, stupore degli occhi negli occhi. Ti sei amata. Hai amato la donna che eri e avresti amato la donna che verrà, ma questa maceria sottomessa e inerte, questo corpo sfregiato e implorante, questo vuoto tra lo sterno e il ginocchio, buco nero a precipizio di torrente privato di germogli, questo resto di dolore e pus non lo ami. Non ti ami! Il tuo respiro ti toglie l’aria. Il sussulto debole del lenzuolo: si alza si abbassa, si alza, lentamente, si abbassa, si spegne.
La mano scivola giù dal letto portandosi dietro anche il braccio. Le dita si sciolgono e lasci la presa, il coltello cade sul pavimento con un tonfo e vibra per un attimo impercettibile. Ti giri su un fianco, il sangue sgorga dalla bocca, dolce, caldo, denso, ora ricordi tutto, ora sai.
Ti raggomitoli come quando eri bambina e porti le gambe al mento, la bocca sul ginocchio, il sangue si mescola lento nel sangue. Il sole è alto ma oggi non hai bisogno di richiamare l’alba per non sentire il caldo, oggi è fresco, che bello. Come a casa, come quando da bambina giocavi nella neve, laggiù, a casa, nella neve, a dormire nella neve, che bello, ora sì che sei felice, ora quello sfregio intorno alla tua bocca si piega in un sorriso.
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