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Una seduta distratta

di Elisa Mazzieri
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Pubblicato il 01/03/2022 03:23:29

 

 

Il ragazzo tirava. Calci al pallone, pugni contro la parete, strisce di coca o secchiate di rosso sui vetri della scuola; in ordine sparso e secondo l’anno. A chiedergli ora una ricostruzione precisa degli eventi, c’era da confondersi, mischiarsi con lui.

I peli spuntavano dalle calze della psicoanalista, radi ma coerenti. Erano gambe depilate a rasoio e calze colore daino, uno strazio anni ottanta. Il ragazzo fissava le gambe, l’uomo gli diceva di non farlo per buona educazione. Da uomo, le avrebbe guardate comunque quelle gambe e, da uomo, si sarebbe sorpreso di non ricordare che aspetto avessero, le gambe. I peli, il colore delle calze, la scollatura delle scarpe scamosciate e la misura del tacco erano discronici. L’uomo sapeva che si trattava di un ricordo, il ragazzo credeva fosse un sogno riuscito peggio di altri, nessuno dei due avrebbe saputo giustificare la propria presenza in quello studio, in un pomeriggio assolato di una stagione che non richiede collant ma aria condizionata.

L’uomo sentiva in modo distinto il ticchettio di un orologio troppo vecchio per restare occulto, ogni tanto perdeva un colpo, ogni settanta o settantadue secondi, era difficile calcolare quanti ne perdesse in cinque minuti e cinque minuti era il tempo richiesto per abbandonarsi al ricordo.

Fino alla seduta precedente aveva funzionato. La voce lo aveva sempre condotto, strato sotto strato, nel limbo delle sue amnesie. Stavolta era diverso. Sapeva che se avesse perso fiducia nella capacità della voce di restare soltanto una voce e trascinarlo, avrebbe perso ogni oggetto recuperato con fatica e tempo che, in fondo, non considerava impiegato al massimo delle sue potenzialità imprenditoriali.

“Non farlo” gli sussurrava il ragazzo “continua, apriti, lascia andare”.

Era già successo. Aveva già sentito la voce del ragazzo sovrapporsi a quella della terapeuta, ma era stato all’inizio, quando aveva poco chiara la differenza fra il dormiveglia e il sogno lucido assistito. Ora conosceva il punto preciso di stacco da uno stato all’altro e sapeva che l’analisi, come la utilizzava lui, era giusto un regalo a buon mercato per la moglie e i colleghi. A lui non importava. Neanche, sentiva le urla di orgasmo del suo Ego per la riuscita dell’inganno, quindi, di fatto, era a posto e in più, mancavano poche sedute.

Quando arrivava nel luogo comodo, rassicurante, si addormentava di nuovo, a un livello più profondo, come indicava la voce e lì, sarebbe tornato, sempre come indicava la voce, quando avrebbe voluto. Non c’erano porte, parole magiche, oggetti di transizione o ganci. Era semplice: era sufficiente immaginarsi lì e tornarci. Tornare lì, era come ricordarsi di essere sulla poltrona della Dott.ssa M.

L’uomo, però, aveva scelto di restare sempre in quel luogo comodo, di passaggio. Ogni volta lo definiva in modo più nitido. I dettagli trasudavano realtà invecchiata, quasi marcita. Il prato fresco di pioggia, ora, era stagnante, la terra morbida lo risucchiava, le braccia che lo avvolgevano, di chiunque fossero, erano fili arrugginiti. Tutto puzzava di porto, né turistico né di pescatori. Tutto era un limbo rancido in dissolvenza perenne. Tutto, tranne le gambe della Dott.ssa M.

Oggi, quelle gambe erano l’unica realtà.

“Fermati!” gridava il ragazzo “se hai deciso di fare sul serio proprio ora che è la fine, va bene, ma non puoi scegliere le sue gambe come zona di comfort!”

L’uomo era stato tentato di rispondere ma non aveva ceduto. Un conto era la voce del ragazzo, faceva parte della sua costruzione ma dialogarci proprio no. Questo non faceva parte di niente e, come diceva il ragazzo, mancavano poche sedute alla fine. Che senso avrebbe avuto fare sul serio adesso? E con quale criterio avrebbe scelto un altro luogo ora che aveva impiegato mesi a distruggerne uno?

La risposta era lì, fra i peli rasati a lametta che spuntavano tra le maglie delle calze da impiegata statale anni ottanta. Mai viste calze così sulle gambe delle donne che conosceva. Mai. Neanche alle infermiere o le suore, non alle ballerine, nemmeno alle trapeziste.

Gli occhi erano chiusi, serrati già da anni. Secondo la voce, la regressione dell’uomo era costante, quasi completa, il trauma era stato lieve e già sepolto, si trattava di rendere omaggio alla memoria, mettere qualche fiore, magari di plastica, sulla tomba o spargere i resti inceneriti in un luogo adatto. Niente di eclatante, nessuna scogliera finis terrae, o rito norreno, niente tamburi né sotterfugi.

Lei era risolutiva. Lui era convinto che se la sarebbe cavata dato che lei sembrava, a tratti, persino soddisfatta.

“Non ha dimenticato chi sei e chi eri, non ti sbarazzerai di me” il ragazzo sogghignava.

Qualcosa nella scarpa dell’uomo gli impediva di tornare nel suo luogo comodo.

“Sarà la gravità? Hai dimenticato gli scarponi antigravitazionali?” il ragazzo rideva.

L’uomo si sente soffocare. Intorno lo spazio è nero e non percepisce il peso delle gambe.

“Te lo avevo detto!” il ragazzo saltellava nel buio. Era un folletto distorto, il volto mezzo ustionato, come quello del vecchio che entrava nella sua camera da bambino.

“Te lo avevo detto!” il ragazzo intonava una cantilena contorta di cui l’uomo distingueva poche parole; strofe sincopate in un’altra lingua, la lingua materna, la lingua degli zii.

Il ticchettio dell’orologio è più rapido, non perde secondi e ne mancano cinque, quattro, tre, due, uno. L’erba ricopre lo stagno, il porto svanisce, il ragazzo esce dalla cabina e si tuffa in mare. L’uomo apre gli occhi, si stropiccia e mette gli occhiali da sole; ha il collo indolenzito per la tensione e l’aria condizionata alta. L’analista è immobile ma ha le guance arrossate. L’uomo si chiede come faccia e perché, lei, che potrebbe mettere una gonna, si vesta sempre in tailleur con pantaloni, anche d’estate, anche in quella città.

“Magari sotto ha pure le calze pesanti!” il ragazzo ridacchia appollaiato sulla spalla dell’uomo.

“No!” risponde l’uomo.

“Prego? Ha problemi per la prossima settimana?”.

“No, no assolutamente!” si corregge l’uomo.

“Appena in tempo” continua il ragazzo.

“Bene. Giovedì, alle 14.00 allora”.

 

L’uomo esce scrollandosi il folletto dalla spalla. Anche la donna sente un brivido lungo il collo e pensa che un abito estivo non la renderà meno professionale, anzi, sarà meglio abbassare l’aria condizionata. Certi clienti, alla fine, sembra che abbiano la scimmia di Burroughs sulla schiena.

 

 

 

 


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