Vorrei parlarvi di un ragazzo di nome Gianluca.
Uno strano.
Parecchio strano.
L'ho conosciuto al liceo, eravamo compagni di banco. Gli unici misti.
In tutti gli altri banchi c'erano due ragazze o due ragazzi, e io e Gianluca venivamo guardati come alieni. Non eravamo neanche alla perifrastica passiva che tutti in classe pensavano che lui fosse gay e io lesbica. O lui un morto di figa e io una suora mancata. O lui un minorato mentale e io un'aspirante infermiera.
Questo i maschi. Sempre indecisi. Le femmine avevano un'idea più chiara e più univoca. Pensavano tutte che io fossi una puttana, e che mi fossi messa di banco con un maschio per esercitare la professione. Lui, non pervenuto.
Arrivati all'aoristo secondo, anche i maschi pensavano che io fossi una puttana. Non si spiegava, altrimenti, come mai io prendessi voti così alti. Sicuramente facevo delle “interrogazioni speciali” ai professori.
Anche Gianluca andava bene, ma lui era perché studiava. A dire il vero studiavamo insieme, lui era dislessico, e io gli davo una mano leggendo ad alta voce i libri di testo e registrandogli i miei appunti. E lui non si sentiva inferiore, o minacciato, o umiliato.
Ve l'avevo detto che era strano.
All'inizio della quinta ginnasio venne fuori che studiavamo insieme. E via alla riscrittura del Kamasutra! La cosa buffa è che essendo entrambi una sorta di appestati nessuno della classe ci frequentava, eppure erano tutti una miniera di informazioni. Sapevano con precisione cosa facevamo, come lo facevamo, con che frequenza e in quali stanze della casa o anfratti della scuola. Roba che Christian e Anastasia spostatevi, che ci fate ombra.
Io e Gianluca andammo avanti così, l'uno la boa dell'altro. Io giocavo a pallavolo e lui veniva a vedere le mie partite, lui suonava in un gruppo e io andavo ad ascoltarlo in garage o alle feste. Quando usciva con le ragazze gli suggerivo io i posti dove portarle.
E mi portò lui all'ospedale, quando il mio allenatore ci dette un po' troppo dentro.
Non mi stupì più di tanto, quando mi portò nel ripostiglio della palestra e si chiuse dentro con me. In fin dei conti ero una puttana per tutti, a parte per Gianluca, quindi era normale che anche il coach mi trattasse come tale. Dopo quella prima volta non aveva neanche bisogno di picchiarmi: bastava che alzasse la mano sopra la testa e io capivo.
È che poi ci prese gusto.
Quando dissi ai miei genitori che volevo denunciarlo mi dissero di no. Avrei fatto la figura della puttana. Troppo tardi, avrei voluto dirgli.
Quando Rebecca lo denunciò nessuno le dette di puttana, però. Tutta la squadra le si strinse attorno, per i giornali fu un'eroina, i suoi genitori erano orgogliosi di lei. E lo ero anch'io.
Quando la abbracciai eravamo tutte e due in lacrime, ma lei pensò che io piangessi per empatia.
L'unico che mi stette accanto fu Gianluca. Sempre. Sembrava quasi che mi chiedesse scusa, per il mondo che mi circondava. Non capiva, forse, che il mio mondo cominciava e finiva con lui.
E non l'avevo capito nemmeno io.
Gianluca che camminava accanto a me, passando davanti a quel locale. Gianluca che chiese rispetto per me, quando quei ragazzi mi chiamarono puttana. Gianluca che continuava a urlarmi di scappare, anche quando lo riempivano di botte. Gianluca che non sentì le urla dei vigili, che passavano di là per caso. Quel caso che ha salvato la mia vita, ma non la sua.
Io adesso faccio paura. Faccio paura agli uomini e alle donne.
Perché in ogni uomo adesso cerco Gianluca, e in ogni donna cerco Rebecca.
Per questo, nessuno mi dà più di puttana.
Tanti non lo pensano.
Gli altri non ne hanno più il coraggio.
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