Roma – Quartiere Esquilino, Via Napoleone III. Ore 02:00
Me ne sto seduto per terra, le spalle appoggiate al portone grigio. Sono troppo sbronzo per alzarmi. Certo che questo quartiere è una merda. Negri e cinesi, cinesi e negri.
Aveva ragione mia madre: che bisogno ha, uno che abita a Firenze, di andare a Roma per studiare filosofia? Già, è per questo che sono qui. Quindi, ecco che arriva una profonda filosofica agnizione. L’unica cosa buona dei cinesi è che hanno fregato agli ebrei una marea di negozi. Non sono, però, sicuro di quello che mi sto dicendo. Forse, erano meglio i rabbini: almeno, quelli erano italiani. Mentre scuoto la testa che mi scoppia, arriva Mario.
“Lorenzo: che stai a fà a sede sur marciapiede? Noi semo annati a Ostia. Dai, arzate, che a piazzale Gasparri ho trovato er Pesciarolo: quello c'ha la robba bona. Ma nun se potemo fa pe’ strada. Annamo a Colle Oppio che, a 'st’ora, pure la madama è ita a dormì. A proposito: lo sapevi che pula in rumeno vor dì cazzo? Guido, er milanese, quello che c'ha er cantiere, l’altro giorno se preso ‘n coccolone: dajè che sentiva li muratori che diceveno “Pula! Pula!”. S’è penzato che era arrivata la finanza o li caramba… Su ‘na cosa, armeno, semo d’accordo co’ ‘sti zozzi: si arriva la pula so’ cazzi!”
Mi alzo, barcollo e il Nero (così lo chiamiamo perché, anche se non è un’intellettuale, ha abbastanza palle da girare armato) mi acchiappa, mentre mi prende bellamente per il culo dicendo che sono un frocetto che non regge l’alcool.
Roma – Colle Oppio, Parco di Traiano. Ore 03:30
Andiamo ai giardini e ci mettiamo a cercare una panchina un po’ nascosta.
Sobbalzo. Qualcuno, che ancora non ha cambiato il calendario, ha lanciato una serie di rauti. Che nome fantastico per i botti! Il Nero pare che non abbia le orecchie, perché neanche s’è voltato. Ha puntato un posto niente male per rilassarci, immersi nella nostra nuvola “der mejo fumo de Ostia Beach”.
Mario, all’improvviso, si immobilizza. Sembra un enorme mastino che ha fiutato il pericolo: mi solleva di peso e mi sbatte dietro un grosso albero.
“Aspetta, qui.” ordina perentorio.
Non è più allegro e, all’improvviso, si è messo a parlare in perfetto italiano. Mi mette una paura fottuta quando fa così: freddo, ogni muscolo teso, lucido di testa e pericoloso come un serpente pronto a scattare. Lo sento muoversi veloce e, poi, urlare: “Zingara. Brutta ladra di merda. Hai rubato pure in casa mia, schifosa? Che c’hai dentro a quel sacco? Hai perso la lingua? Ma io te le taglio quelle mani; ti taglio le mani e, poi, ti do fuoco, vecchia strega, così il malocchio lo vai a fare all’inferno”.
Si sente un colpo sordo e, poi, più niente.
Mi metto a correre verso l’ombra che, nella nebbia, sembra quella di un gigante. Il Nero sta in piedi, le gambe lievemente divaricate, accanto a quello che sembra un mucchio di stracci. Continua a biascicare: “Così imparate a restarvene a casa vostra: zingari e negri. Bestie, selvaggi!”.
Lo sposto con una spallata e, mentre lui ridacchia, mi chino sul corpo a terra, reprimendo il vomito che mi sale in gola.
“Mario, Cristo, questa non era una zingara!”
“Zingara o barbona, che cambia. Una lurida zecca in meno. Nessuno sentirà la sua mancanza. Vedrai che mi ringrazierai: da domani può smettere di grattarti!”.
Mentre i capelli biondi di una bambola, che fa capolino dall’orlo del sacco di juta, s’intridono di sangue, mi giro verso il Nero che, intanto, seduto in terra, s’è acceso un cannone.
“Cazzo, Mario: hai ammazzato la Befana!”.
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