I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
C’è un voluminoso stacco branchiale nell’uomo, nell’articolazione labiale, nei movimenti ritmici della mano, che a volte soffoca e altre inonda, in un circolo vizioso che inibisce la memoria a lungo tempo e la profilassi sociale, rendendo tutto rapido e ripido e al contempo volgare, eccessivo, quasi spudorato. In breve potremmo dire: se da una parte è una questione inerente alla concausa disperata di molti venditori ambulanti di successo spicciolo e populista, dall’altra è una sempre maggiore ricerca d’attenzione in un mondo virtuale carico di promesse e amore perpetuo, istantaneo, nell’ibrido fluire d’informazioni senza un momento, uno spazio consensuale, di riflessione. E’ facile gettare miscugli di parole pretenziose, tarlate di protesta e commiserazione, pietà sgarbata, su di un tavolo liquido sul quale tutto scorre nel veloce sguardo di un occhio concentrato a non perdere l’equilibrio – mettendola sul piano fisico e metaforico - tra la realtà (la strada davanti a sé) e il mondo ulteriore (il mondo virtuale, la dimensione parallela, le tecnologie consone a questa entità costante). Nell’ampia ricerca di un colpevole al quale infondere il nostro odio fonetico, sul quale puntare il nostro dito indagatore, come se fosse necessario avere sempre un nemico da combattere, in tale evidente discontinuità morale e di brusca coesistenza, sul preconcetto ormai inoculato e fintamente blasonato, spada di Damocle sui nostri cuori affamati, difficile, sempre più difficile, diventa la ricerca della convivenza e del bene comune. Se la paura si tramuta in un essere identico a noi, ma culturalmente diverso, complicato sarà condividere il loro dolore e la loro difficoltà a spartire - e comprendere - la loro cultura con la nostra. E, con la ripetitività d’immagini violente e, a volte, non corrette, fastidiose, fasulle; con il nostro travasare qualsiasi timore su persone che le immagini e le parole hanno giustificato e accettato definendole le personificazioni del Male Supremo, conglomerando l’uno nel tutti: sarà normale non provare emozioni potenti verso un barcone che affonda, dei muri che crescono agl’orizzonti irraggiungibili, verso donne e bambini sfiniti dalla fame in qualche tendopoli umanitaria o città siriana o nel ventre sbiadito di un’Europa in preda all’attentato ad ogni “angolo strategico” – anche se l’etimologia della parola strategia, che deriva dal greco, significa “arte del generale” e cioè la capacità di arrivare ad una visione d’insieme, prendendo le decisioni più corrette e sane per il bene di tutti. Le strategie dopo ogni grande eventonegativo si riducono sempre alle decisioni di pochi concorrenti che diminuiscono la possibilità di soluzioni migliori e apprezzate da tutti, mentre inaspriscono lo scontro tra fazioni e radicalizzano la portata delle scelte soprattutto per la rapidità con la quale vengono attuate: tutte opzioni dettate dall’emozione istantanea derivata dal grande evento negativo. La decisione unanime presa dalle Potenze Mondiali, dopo gli attentati di Parigi del novembre scorso, di accentuare ed ampliare i bombardamenti sulla Siria e i vari territori occupati brutalmente da Daesh, oltre che colpire postazioni nemiche, aumenta in modo non controllato le vittime civili e i luoghi storici e sacri di coloro che con questa fazione estremista non hanno nulla da condividere. Ed è qui che sta la contrapposizione. Se la maggioranza del popolo arabo è contrario al puro fanatismo di Daesh, facile da contenere con il totale embargo di armi e petrolio e finanziamenti monetari e pubblicitari, la minoranza (quindi i vari Capi dei vari Governi) raffigurante, in modo arbitrario, l’opinione generale (quindi gli interessi personali e statali) decide le sorti di questo conflitto perché, come si è già detto, esprime il cosa si vuole combattere: il non allineamento con la politica e la cultura predominante: quella Occidentale. L’importazione furiosa, obbligata e punitiva, della politica Occidentale che negl’ultimi quindici anni, con la scusa del terrorismo, ha ridotto a dimensioni orrende e metafisiche i confini e la realtà quotidiana di milioni di persone, senza chiedere il permesso ai diretti interessati, ha generato quel tale fanatismo che oggi spaventa l’intero pianeta. Giustificare il male, aberrando la libertà decisionale di ogni cittadino e governo non allineato, ampliandolo ed esportandolo (come è stato per i Taliban e, ora, Daesh), ha procurato una grossa frattura tra culture, forse non più risanabile. Ciò che si prefiggeva negl’anni novanta - unire eticamente tutti i popoli, eliminare le barriere di genere e di razza, risanare giuridicamente i torti commessi - si è andato a scontrare con una nuova missione colonialista ambientale ed economica. Alimentando il terrore per la perdita della propria identità e della propria autonomia (religiosa, culturale e civile), si è voluto giustificare la chiusura politica e sociale verso un’integrazione che avrebbe – visto il flusso continuo di persone – apportato un consolidamento strutturale ed equilibrato della società multietnica che si è andata a costruire (un evento naturale, essendo le città il nucleo centrale dell’economia e del lavoro). Ghettizzare e delimitare lo straniero, rendendolo inferiore, come una condizione giusta da sopportare essendo non-figlio del paese d’arrivo o figlio di un paese non-amico, come se le persone fossero sempre in transito o assassini imbottiti di tritolo, in un continuo girovagare prima della morte, ha reso instabile quel processo di mediazione che tra due persone regna solo con pari diritti. Ghettizzare e delimitare, trattandoli come bestie inferiori, scatena reazioni e turbolenze, spesso non consone e violente che, se da un lato sono imprevedibili e non giustificabili sul piano del diritto pubblico, possono avere sensatezza – per il prigioniero - nel contesto indecente e di ribellione dal quale l’insoddisfatto cerca di fuggire. La colpa non sta nell’accusato, ma nel giudice che tenta di privarlo dei suoi diritti civili e umani. L’accoglienza non è merce rara da vendere: l’accoglienza è l’unico modo per non alimentare situazioni inospitali né per il residente né per lo straniero che arriva, già, da un contesto di guerra, soprusi, prigioni e fame. Oltre l’accoglienza, va di pari passo l’integrazione: far sì che tutti quanti abbiano le stesse opportunità di vivere degnamente con gli stessi diritti e gli stessi doveri davanti agl’altri e alla legge. Nessuno deve essere superiore o costringere qualcuno ad essere in difetto. Tutto questo, però, rientra nella sfera dell’utopia, in quel qualcosa che non si realizza perché non ha alcun risvolto politico (di voto) e di guadagno (ci sono solo spese). Inoltre non è facile per il cittadino accettare che, da un momento all’altro, qualcuno inferiore a lui, in termini di possibilità, possieda i suoi identici poteri – o, nel breve periodo, superarli (il contributo per la sopravvivenza minima; casa, vestiti, telefono, cibo). La disparità che si frappone tra i due contendenti, il residente e lo straniero, nasce da una disinformazione scaturita da anni di cattiva politica, mirata alla restrizione del possesso e del desiderio, da un deperimento culturale (meno fondi alla scuola e alla ricerca) e dal populismo becero, che colpisce lo stomaco dell’interessato, portato a essere vittima perenne in quella restrizione di possesso e desiderio non appagato per vari fattori inopportuni. Inoltre, puntare il dito contro coloro che non possono difendersi (loro che cercano esattamente la tutela e la salvaguardia che lo Stato di appartenenza non ha saputo offrirgli) è un surrogato malsano generato dall’incapacità di andare contro il sistema e la politica che non li aggrada (cosa che, invece, non avviene allo straniero: lui lotta per conquistare i suoi diritti), facendo sì che l’inferiorità si autoalimenti ad ogni nuova fase di tentata politica solidale. Il populismo becero, facile da riscontrare nei giornali più nazionalisti e nel marasma d’internet, tra comici improvvisati intellettuali e intellettuali dispersi nel proprio disinteresse sociale, contribuisce ed aumenta la divisione tra le controparti, portando la sfera dell’attenzione solo verso la fazione dominante (autoctona) ed enfatizzando oltre misura eventi ridicoli o superficiali. Un esempio è ciò che è avvenuto a Vignola, un piccolo paese del modenese, dopo che quattro persone magrebine di religione musulmana hanno fermato dei ragazzini di sedici anni chiedendogli se credessero in Allah o se fossero cristiani. Quest’ultimi hanno risposto che non credevano in nessun Dio e, subito dopo questa affermazione, i magrebini li hanno lasciati andare – forse ridendo, forse compiendo gesti riconducibili ad una decapitazione e, forse, sparando in aria colpi con la scacciacani. I ragazzi spaventati, la sera stessa, hanno denunciato l’accaduto e dopo che alcuni giornali locali hanno evidenziato l’accaduto, subito dopo, i quattro accusati dell’aggressione si sono recati spontaneamente alla centrale di polizia, chiedendo scusa e dicendo che <<era solo uno scherzo, avevamo alzato un po’ il gomito a tavola>>. Bene. Non è successo niente effettivamente. Non c’è stata violenza, nessun contatto fisico o verbale (chiedere a quale religione si appartiene non è un reato né una violazione punibile; sarebbe insensato). Forse è stato ingiusto il simulare una decapitazione, soprattutto in un contesto storico come il nostro, carico di violenza simile in diverse parti del mondo. Però, non è successo niente effettivamente. Bene: questa vicenda, invece, ha fatto scaturire diverse reazioni rabbiose controproducenti. Ecco il titolo di un giornale locale: “Vignola, ragazzi minacciati con domande su fede in Allah e spari: ‘Uno scherzo’”. Oltre l’uso sgrammaticato dell’italiano, da queste poche parole si evince che i ragazzi sono stati minacciati – cosa che non è avvenuta – e che ci siano stati degli spari – una pistola? sono stati uccisi? per uno scherzo? Le prime reazione sono state tutte razziste e minatorie. Politici che chiedevano l’allontanamento di tutta la comunità araba dal paese, fiaccolata in sostegno dei ragazzini minacciati (come se fossero morti), mai più moschee, ext. ext. La lega ha addirittura definito l’accaduto come “una finta esecuzione terroristica”. Questa stupidità gratuita ha un potere. Le parole hanno delle conseguenze. Rendere un fatto così irrisorio, in un contesto, ripeto, dove non è successo nulla e dove nel mondo succede ovunque, un evento che – ogni volta che accade – stigmatizza tutti gli altri, li racchiude e li ingrandisce, non vuole fare altro che minare la convivenza comune per una questione individuale (frustrazione) o partitica. Questa stupidità gratuita può portare l’accusato a fuggire dalle sue responsabilità, a nascondersi, perché, anche se si costituisce e giustifica il danno, comunque verrà punito o denigrato. Questa stupidità è di facili costumi, entra direttamente nell’uomo perché raccoglie le sue debolezze, i suoi problemi basilari (la casa, i vestiti, il telefono, il cibo), le sue paure recenti (la radicalizzazione islamica, l’attentato) e quelle radicalizzate nel tempo (il ladro che ruba in casa, la perdita del lavoro, la diffidenza politica). Non ci rendiamo conto che le mafie, la violenza sulle donne e sui bambini, “l’amore” e la povertà, uccidono, singolarmente, in un anno, più persone di un attentato religioso – e sono molto più comuni, giornaliere. Ciò che si fa è scaricare le dinamiche negative su situazioni irrisolvibili come l’imprevedibilità di una situazione sporadica – come il terrore verso un attentato – o comune - il diverbio tra due persone con opinioni diverse. Queste cose potremmo definirle dei giochi di potere che non fanno altro che generare odio e sospetti ovunque, anche quando non succede nulla di rilevante. Una delle cose necessarie sarebbe non estendere la colpa di un singolo individuo – o di un gruppo di persone – a tutta la popolazione o etnia di cui fa parte. Come non succede per l’italiano che ammazza o minaccia un altro italiano, ad esempio, ciò non deve valere per l’arabo o l’indiano o il cinese. Quando parliamo di uomini, principalmente di uomini fuggiti da una guerra, non possiamo e non dovremmo dar loro un valore economico (quanto ci costa, quanto ne guadagniamo). Qui parliamo di sofferenza, di bambini travolti da un dolore che non riescono a comprendere, da donne e uomini che cercano rispetto e dignità (le condizioni basilari per vivere tranquillamente e in serenità col prossimo). Senza pari opportunità ogni uomo si sente legato e sottomesso. Nessuno può comprendere il dolore altrui, ma non per questo lo si può ignorare. La stupidità gratuita che si evince dall’informazione online (il credere al ritrovamento di una sirena o l’infondere incertezza e confusione o la paura con titoli e articoli che hanno solo l’intenzione di attirare il pubblico verso i propri interessi e, di conseguenza, verso le pubblicità che governano i loro e i nostri interessi); la stupidità gratuita che si esibisce su palcoscenici politici e talkshow televisivi; la stupidità gratuita che infonde guerre e sbavature sentimentali, che ci obbliga a scegliere tra il male maggiore o il male minore, ha presa sulle masse perché le masse non si identificano col singolo, troppo prese con l’accelerazione temporale dei nostri pensieri imbottiti di parole e immagini, senza riflessione o opportunità di scambio reali. Ed è qui che nasce l’Uomo Accelerato. Quest’Uomo Accelerato non studia gli angoli in ombra, ma sta al centro della stanza a danzare nell’indistinto svolgere degli eventi. L’Uomo Accelerato deve stare al centro della stanza, dietro a ogni cosa, perché sfugge con lo scivolare di un pollice. Col tempo, l’Uomo Accelerato è stato costretto a non fermarsi e a domandarsi cosa vuol dire amare, soffrire, decidere, comprare, desiderare, volare, sognare, plasmare, costruire, ridere, scherzare, toccare, mangiare, annusare. L’Uomo Accelerato non può avere gli occhi grandi come il mondo, ma tenta di farlo, raccoglie vanità ed egocentrismo e invidia, prova ad essere come tutti ed è qui che perde la sua autenticità, il proprio sé, la struttura che lo rendo interessante davanti agl’altri. C’è stata una perdita di emozioni - comprendere il dramma o la farsa, farsi carico di un pathos universale, rendersi utili nell’incombenza e lottare contro le malefatte e l’ignoranza. Continui attacchi alle voci contrarie (come è successo a Milano: un imprenditore siciliano che non vuole pagare il pizzo, che ha denunciato, che ha trasferito lì la sua famiglia per proteggerla, che la scuola dove vanno i suoi figli non li vuole perché hanno paura che possa succedere qualcosa, che gli chiedono di farli uscire da una porta secondaria o di mandarli da qualche altra parte: un’offesa alla legalità e al buon senso generale). Una de-funzionalità della Democrazia e della Costituzione (tra governi nati senza voto, ricatti politici, leggi violate per godurie personali). Tutte queste cose - e altre - possono e hanno determinato un abbassamento delle funzioni sociali e civili di ogni persona. Lasciamo andare, siamo annoiati e stanchi dell’immutabilità del tempo, ritardiamo le impellenze più urgenti, le offriamo in pasto ai Potenti per rivenderceli a caro prezzo, non protestiamo per i danni subiti, ma corriamo a dimostrare la nostra bellezza e identità davanti all’intero genere umano. L’Uomo Accelerato non ha confini, si diverte nella suo articolarsi ristretto ma, al contempo, infinito. L’Uomo Accelerato può permettersi di burlarsi dei cittadini di Madaya senza cibo da settimane, sottoattacco dal Regime di Assad, mettendo online immagini di banchetti e tavole cariche di cibo. L’Uomo Accelerato può fare video di denuncia e non fare nulla per evitare che avvengano. L’Uomo Accelerato può inquinare e uccidere il pianeta. L’Uomo Accelerato non determina più le sorti della sua vita, aspetta che tutto gli venga dato e tolto, anche se il primo è minore del secondo. Ed è per questo che lasciamo annegare chi cerca solo un’alternativa. Qualcuno prega che tutto resti come è stato. Qualcun altro vorrebbe maggiore protezione. C’è addirittura qualcuno che sterminerebbe tutti. Queste dicerie non sono più robe dette agli amici in un bar. Oggi tutti ci mettono il loro volto e ne vanno fieri. L’odio è al pari del bene. Qui la Democrazia ha vinto. Ma, in questo momento storico, l’odio può battere il bene. L’uomo accelerato può anche decidere di concludere la sua missione: chiudere definitivamente le sue frontiere e amarsi completamente tra le nuvole. Ognuno in casa propria o con la testa chinata per le vie malate del mondo.