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- Letteratura
La Calabritudine e il senso del viaggio in Franco Costabille
IL SENSO DEL VIAGGIO IN FRANCO COSTABILE Grazia Furfei L’emigrazione del popolo calabrese ha arricchito di operosità, creatività ed intelligenze il mondo produttivo dentro e fuori i confini nazionali attivate, come scrive Pasquale Tuscano in “Calabria” - un testo antologico di autori calabresi - dal “lievito della calabresità”, quella misteriosa alchimia per la quale il calabrese, una volta fuori della sua terra, si spoglia della pelle di uomo rassegnato ad un fatale immobilismo e si riscopre operoso, inventivo e combattivo. Il sempre più diffuso uso, a volte anche burlesco, del termine “calabrese della diaspora” per identificare la conterraneità, risponde al più stretto senso antropologico del termine, in quanto è evidente, nel comportamento delle comunità calabresi fuori confine, la rispondenza al concetto di diaspora dell’antropologa Barbara Tedlock riportato nel suo scritto Diasporas (Enciclopedya of Cultural Anthropology, 1996) come la “…consapevolezza, da parte di comunità e popolazioni immigrate, di possedere (e di volere preservare) un’identità distinta da quella del luogo di residenza e legata in qualche modo al luogo di origine…”. Ciò implica la coscienza da parte dell’emigrato residente in un certo territorio di appartenere anche ad un luogo di origine lontano e diverso da quello nel quale risiede. Questa consapevolezza è riconoscibile nella necessità di aggregazione che forma le varie associazioni di calabresi emigrati ma anche nel piccolo delle riunioni familiari volte a mantenere vivi gli usi e le tradizioni, per non dimenticare e ricostruire “altrove” la cultura d’appartenenza. Il viaggio è una costante nella calabritudine di molti letterati calabresi, pensiamo al senso del “viaggio” nella prosa e nella poetica di Corrado Alvaro e ancora a Gente in viaggio (1966) di Saverio Strati, per qualche verso vicino alla configurazione che Costabile presenta della Calabria, quando riferisce una terra la cui gente è succube di una condizione di vita emarginante alla quale si ribella con frasi smorzate e rabbia non svelata e che trasferisce nel viaggio, qualunque esso sia - di guerra, di confino, di lavoro - tutte le speranze che possano avverare un riscatto economico e sociale. Quello verso “l’oltre” la propria terra di molti emigrati è stato in altri tempi e forse lo è ancora per le nuove migrazioni, un viaggio dove la meta è spesso intuita, conosciuta attraverso il racconto di esperienze personali altre e dunque dove tutto è da vedere, da riscontrare: un salto nel buio, un miraggio che a volte svanisce al primo impatto con una realtà territoriale nella quale spesso non è possibile integrarsi, identificarsi. Una problematica che investe le categorie di emigrazione-immigrazione di ogni tempo e che Sayad, antropologo algerino, ha esplorato, studiato e riportato nel suo scritto La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, (2002), puntando l’indice sulle condizioni di crisi che stimolano l’emigrazione (in questo caso algerina), considerata da chi parte, quasi sempre, un ripiego provvisorio che crea un’assenza momentanea dal proprio gruppo d’appartenenza – il ritorno è sempre contemplato- e giustifica e regge il disagio di adattamento nella società d’accoglienza. Ma quando la permanenza nella nuova sede, scrive Sayad “...ha una grande possibilità di diventare definitiva o di estendersi alla vita attiva...” si verifica il paradosso emarginante del “provvisorio che dura” e intrappola l’emigrato nella doppia assenza e cioè: essere parzialmente assenti da dove si manca – la famiglia, il gruppo, la terra d’origine – e non essere del tutto presente nel luogo dove si è presenti. È quello che succede a Babe L’uomo nel labirinto (1926) di Alvaro, sperso in una città che non comprende, con la quale non riesce a comunicare, non ne capisce i comportamenti, gli odori, dove l’unica relazione umana degna di questo concetto è il saluto con una donna vicina di casa della quale non conosce nemmeno il nome. E finisce a guardare il mondo che l’ha accolto dalla finestra, in un rassegnato confronto con quello della sua origine che con esercizio quotidiano tiene sempre vivo dentro di sé: cosciente delle proprie delusioni e caparbiamente attaccato alla speranza del miracolo e della fortuna che prima o poi deve arrivare. La caparbietà di lottare, la pazienza di aspettare, il senso di abnegazione e il talento naturale del filosofare per accettare le iniquità del proprio mondo, aspettando il messianico arrivo di un altro più equo e giusto, sono le virtù che Alvaro riconosce nei figli più grandi della Calabria (l’Abate Gioacchino da Fiore, S. Francesco di Paola, Campanella) e le riporta nell’Indole del calabrese, uno scritto che fa parte di Itinerari italiani (1967), insieme alla dedizione assoluta al consorzio familiare nel quale il calabrese di Alvaro come quello di oggi vede realizzato, nonostante tutto, il suo impegno e riconosciuta la sua dignità sociale. “La storia di tante ascensioni dalla vita popolare all’attività civile in Calabria è piena di drammi inauditi, di sacrifici e sforzi eroici.”, scrive Alvaro sempre in Itinerari italiani e continua, mettendo in rilievo come l’emigrazione “aveva rivelato che il calabrese può diventare anche un uomo moderno, attivo, intraprendente, capace di correre il mondo a suo solo rischio.” La calabritudine di Alvaro ha fondamenta positive poste sulla convinzione che lo studio, la cultura, la conoscenza fatta anche di confronti umani e sociali “altri” sia il modo più degno per elevare e migliorare la propria condizione. Il viaggio dell’emigrante è allora l’azzardo che serve a “spingersi nella vita”, una pulsione di coraggio, verso una “sorte” ignota fatta, anche, di quelle rinunce alle quali, il calabrese, è per sua natura abituato. Gli antichi miti e le glorie della storia che hanno fatto “Magna” la Calabria e che Alvaro ancora riconosce nel carattere fiero della sua gente, nonostante se ne fossero appropriati, ai suoi tempi, i pochi notabili che contavano, Costabile li ritrova in quella “…fantasia degli dei…” e nell’operaio emigrato che permette a “…milioni di macchine…” di uscire “…targate Magna Grecia…”. La sua calabritudine Costabile l’ha incarnata nel disagio del vivere come calabrese fuori dalla Calabria e straniero nella sua Calabria: una marcatura tipica di molti intellettuali meridionali fuoriusciti, che hanno da una parte la dolente consapevolezza delle proprie radici, la malattia dell’animo che i Greci chiamavano “pathos” e dall’altra, in contrapposizione, la costante tensione verso “ l’oltre “, dove più di altri essi devono dare garanzia della propria formazione e cultura per essere riconosciuti e apprezzati al di sopra della loro provenienza. Una tensione presente in tutti i calabresi della diaspora, intellettuali e non, che prendono atto della necessità di accettare le ragioni che, al di sopra di ogni affezione, spingono all’abbandono delle propria terra; ragioni che Costabile ha interpretato nei versi della poesia Noi dobbiamo deciderci …Ecco io e te, Meridione dobbiamo parlarci una volta, ragionare davvero con calma, da soli, senza raccontarci fantasie sulle nostre contrade. Noi dobbiamo deciderci con questo cuore troppo cantastorie. Ragionare sulla possibilità d’intraprendere altre strade per risolvere le più elementari aspettative di decorosa sopravvivenza è il dettato che ad un certo punto della loro esistenza molti calabresi si sono imposti. Ragionare e decidersi a seguire la ragione in un viaggio oltre i confini del cuore verso “La grande città”; un viaggio per il quale il biglietto da pagare è una dichiarazione di ribellione e accusa verso quella Calabria-disperazione che Costabile sente generosa e nobile ma che, sottoposta all’incuria, all’egoismo degli uomini e tormentata dalla natura, spinge verso la fuga i propri figli. Nel Canto dei nuovi emigranti Costabile esprime, con i suoi versi incalzanti fatti di elenchi di paesi e nomi, l’esasperazione dell’andare via da un sistema sociale ingrato, generato in una terra amata e riconosciuta illustre per bellezza e storia, costruendo un quadro antropologico di grande efficacia. Il viaggio, la fuga, rappresentano allora la ricerca di un mondo accogliente che possa guarire i mali del disagio, dell’oppressione e della delusione del vivere e sono necessari perché l’uomo calabrese possa “…Solo/ma leale/ servizievole…” sentirsi “...un po’ civile,/uguale a ogni altro uomo..”; ma per fare questo bisogna avere il coraggio di chiamare “infame” la propria terra madre e mettere in valigia accanto alla rabbia tutto quello che serve per non dimenticare l’appartenenza quando “..sentirai risuonarti/ bassitalia…”. Andare fuori della propria “casa” è un viaggio di andata sostenuto dalla certezza del ritorno; un ritorno, se non sempre fisico, di sicuro sentimentale in quanto l’emigrante di Costabile non si stacca mai definitivamente dalla sua Calabria “lunga e silenziosa” la porta dentro come una “Terra di Mezzo” di tolkiana memoria, costruita con i ricordi sognati e immaginati e dove in La via degli ulivi Costabile sa che Per altri sentieri torneremo alla piana celeste di ulivi. Saremo dove si leva l’infanzia dei profumi; dove l’acqua non si fa nera ma vacilla di luna; dove i passi avranno memorie di solchi e le dita di melograni; dove ti piace dormire e ti piace amare. Sono questi gli orti, i confini per ricordarci. Costabile conosce i sentimenti del calabrese emigrante ed emigrato e la conflittualità che genera la decisione di partire e scrive “Il bracciante la sera/ si guarda nella bettola/il manifesto del piroscafo/e degli uccelli bianchi./Lui e il suo cuore non vanno d’accordo.”. Lo stesso disaccordo tra cuore e ragione che tormenta l’emigrato del romanzo Milano non esiste, di Dante Maffia. Il viaggio della ragione porta il protagonista a vivere in una città che non gli appartiene per un lavoro pagato ma non gratificante; una ragione, la sua, sottoposta ad un patto condizionato: costruire al paese la casa del suo riscatto economico dove tornare. Per scoprire poi che il suo paese, quello che con caparbietà ha conservato dentro il suo immaginario, ha lasciato il posto ad un mondo estraneo nel quale niente riesce a colmare affetti e sogni disattesi. Ogni viaggio, anche quello non necessariamente oltremare, era per il calabrese in tempi non molto lontani un distacco biblico non voluto ma imposto dal destino e dalla malasorte che regnava nella propria terra. Egli si portava dietro una sensazione di ripudio e, rispetto a chi restava, l’onere di dimostrare che il suo andare via era la scelta giusta per sollevarsi da ogni oppressione economica e sociale. Una aspettativa di nuova ricchezza, che per contro, era pretesa dalla famiglia come risarcimento per l’abbandono. Nella Calabria di Costabile l’uomo non si rassegna alla sua condizione di dipendenza, prima da un potere baronale, poi, da una vana promessa di rinnovamento distribuita a grandi mani dalla classe politica del dopoguerra: la promessa di quella Calabria-California che non arriva e dove ancora “Ce n’è /di di lettere di parroci/ per Roma/ di passaporti/ sogni americani.” La sfiducia in un rinnovamento annunciato, che possa in qualche modo salvare la dignità del calabrese subalterno in patria, è forte in Costabile. Resta pertanto, per molti, la via di fuga verso altre terre dove non sempre il sogno si realizza e molto spesso bisogna fare i conti ancora una volta con un padrone da servire, pietosi marciapiedi e vetrine non accessibili da guardare e dove ancora molti emigrati emarginati restano, spesso, impastoiati e sottomessi per la loro sopravvivenza alla stessa legge “onorata” che partendo pensavano di evadere. Fortunato Seminara, nel suo racconto Emigranti (1957), ne riporta le conseguenze di disperazione e lutto attraverso la figura di Clementina, vedova di un emigrato in America, e prende spunto per denunciare ogni tipo d’emigrazione che ha, come controparte ad un benessere economico, la dissoluzione degli affetti, lo sfruttamento e anche la morte. Ma se si è fortunati, scrive Costabile “Di pelle scura non crescerà tuo figlio/giocherà forse a baseball,/sarà padrone di una drogheria…”, consapevoli che “… siamo/le braccia/le unghie d’Europa/il sudore Diesel./Siamo il disonore/la vergogna dei governi…” ma non da meno le braccia necessarie a far muovere le economie industriali di molti paesi. La calabritudine di Costabile è fatta dunque di viaggio: quello del padre, insofferente alla vita paesana, in Tunisia, risolto con la cesura delle radici familiari; l’altro viaggio, il suo non risolto, alla ricerca di una dimensione di sollievo dalle proprie angosce, non trova la meta e resta sospeso tra la nostalgia di una culla perduta e la frantumazione di sogni e aspettative promesse da un altra “sistemazione”. La dissoluzione degli affetti paterni, cercati e negati, e il fallimento dei rapporti affettivi familiari, lasciano nel poeta un segno di impotenza che lo tiene intrappolato in un mondo lacerato dalle contraddizioni, costretto a trascorrere la vita spossessato da ogni radice e ricoperto - come scrive Sayad - “... da un tappeto immobile fatto di tristezza, di angoscia e di sofferenza.”. Egli soffre il male dello “stranìato”, com’è chiamato in Calabria, colui che vaga senza meta, uno che è sempre “fuori luogo”. Il senso dell’abbandono della propria terra e della perdita degli affetti è profondo e struggente in Costabile e li ha condensati in una poesia del ciclo Lamenti Negli anonimi spazi della città non ho più nulla degli anni perduti: Ed a quest’ora nella vecchia casa un topo di soffitta si nutre del cartone d’un cavallo a dondolo. Egli sente il disagio che proviene dalla perdita irrimediabile di un mondo giovanile; simile a quello che prova l’emigrato per il paese, ormai lontano, nel tempo e nella distanza, del quale egli vecchio ma con “...l’orologio d’oro,” nescorderà “...i vicoli bevendo birra a Daisy Street.” L’integrazione dell’immigrato nel territorio d’accoglienza comporta un allontanamento psicologico, non del tutto risolto, dal suo luogo di provenienza. La perdita di contatti esclude dai mutamenti che avvengono nel territorio originario e si viene a creare, a volte, quella figura di emigrato – tanto comune nei tempi passati - la cui percezione della parentela e dei paesani lasciati era sempre quella di esseri bisognosi e reietti, per la cui sopravvivenza era doveroso contribuire con l’invio di soldi o altri doni non sempre adeguati. La rincorsa di una stabilità economica e produttiva capace di risolvere i problemi di sopravvivenza in Calabria non ha mai raggiunto il suo obiettivo e resta fino ad oggi uno dei punti di sofferenza per i suoi residenti. Questa precarietà non intacca però il senso di dignità e orgoglio d’appartenenza che contraddistingue il calabrese e che Costabile in Ultima uva trasferisce nel rimprovero di quella Calabria-madre sfruttata che “…ha veduto i suoi figli …,/ partire da emigranti,/ ...” e chiede loro ”…così lontani/ma del suo stesso sangue/della sua stessa razza accanita…” di non essere mortificata “…con quel dollaro spaccone/in una busta/con quel pacco di vestiti usati…” e soprattutto che la smettano di tormentarla con le nostalgie. Costabile la sua nostalgia la raccoglie e la sistema nella poesia La rosa nel bicchiere offrendo un affresco reale della Calabria dei suoi tempi con i colori, le dolcezze del paesaggio e i traumi sociali che l’affliggono; traumi ai quali sembra aprire uno spiraglio di sollievo e speranza con “…Un arancio/il tuo cuore,/succo d’aurora…”, annullato poi antiteticamente in quella “rosa nel bicchiere”, un fiore reciso che per natura subisce una violenza ed è destinato a morire e, nonostante appena colto abbia ancora apparenza di fragranza e freschezza, l’acqua del bicchiere non sarà sufficiente a fermare il suo processo di putrefazione e morte. Si può azzardare che quella rosa nel bicchiere sia lo stesso Costabile intrappolato in quel “provvisorio che dura” della vita fino a quando errante “...con passo/da soldato sconfitto” e stranìato sa che è giunto il momento di dire “Addio, terra./Salutiamoci, è ora.” Facendo suo l’Epitaffio di quell’emigrante che Aveva Una vigna In collina Ma È morto A Milwaukee Non qui.
Id: 445 Data: 21/10/2014 18:02:31
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- Letteratura
Il senso del cibo nella poesia di Serena Maffia
IL SENSO DEL CIBO DI SERENA MAFFIA IN “ SRADICHEREI L’ALBERO INTERO” Bernard Shaw diceva che l’amore più sincero è quello per il cibo, forse perché si ama il cibo già conosciuto, sperimentato e selezionato che non lascia spazio ad inganni e tradimenti in quanto già organicamente definito. Quando il cibo si fa poesia il rapporto cambia, non è più oggetto di affezione alimentare ma metafora per sentimenti: è cibo sublimato che nutre evocando memorie. Le citazioni attinenti agli alimenti sono presenti nella poetica di tutti i tempi. Con la loro natura, odore e sapore, essi assumono, in ogni autore, valenze culturali e personali diverse che vanno dai ricordi di rituali familiari a metafore di situazioni emozionali tratte dal tempo e dallo spazio del loro vissuto, come ben ci comunica Moretti nella poesia Angolo d’hortulus tratta da Poesie scritte col lapis:[ E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba dell’orto mio potrebbe ricordare, ché molto sa […] O ancora Saba in la Cucina o Gozzano che nella Signorina Felicita riporta gli odori che danno vita alla cucina o ancora a tutta l’ambientazione scoppiettante di oggetti e visi familiari in La Canzone del girarrosto di Pascoli; per finire agli ortaggi e ai frutti di Neruda in Ode al vino, e altri odi elementari dove l’osservazione estasiata di alimenti semplici, comuni al nutrimento quotidiano, diventa verso poetico che racconta l’avvenuta pacificazione, “l’accordo”, come lo stesso Neruda definisce la naturale interdipendenza tra uomo e natura. Gli esempi in merito al rapporto poeta- cibo, sono tanti e autorevoli. Quello che vogliamo fare qui è osservarecome, attraverso questo suo ultimo lavoro Sradicherei l’albero intero, una poetessa giovane, anzi giovanissima per età ma già matura per mestiere poetico, come Serena, usi gli alimenti per farne metafora nella sua poesia. Considerare il senso del cibo nella poesia vuol dire entrare in un labirinto, del quale si sa che esiste una via d’uscita ma che, inevitabilmente, i percorsi ti deviano, ti portano a cercare, frugare e menzionare in un infinito incastro di nomi e parole, o meglio versi, da farti perdere, come si dice popolarmente, la via del ritorno. Si corre il rischio di rovesciare, su chi ascolta o legge, menzioni enciclopediche di poeti e del loro senso del cibo. Argomento usato ed abusato già, perfino dai poeti classici per descrivere, educare o deridere un comportamento alimentare; individuando, nel rapporto degli uomini con il cibo, l’interrelazione tra nutrimento e stile di vita: sia esso parsimonioso o generoso, popolare o elegante, gaudente o saggio. Così Orazio nelle Satire si sente in dovere di suggerire le pietanze sane e gustose, che egli riteneva più idonee, da servire a tavola come: “porri et ciceri… laganique catinum…” ma anche di deridere alcune abitudini alimentari dettate dalla moda, come quella di mangiare rombi e cicogne che vivevano, secondo Orazio, sicuri e tranquilli fino a quando un ex pretore non lanciò la moda di cucinarli. Leggendo le poesie che Serena ha composto e raccolto in Sradicherei l’albero intero, ho potuto notare, dal mio punto di vista, che Serena usa gli alimenti come un gomitolo il cui filo svolge il percorso evolutivo della sua crescita emotiva, sentimentale e psicologica. Serena comincia il percorso del suo poemetto partendo dall’albero primigenio della conoscenza, posto nel luogo biblico della felicità eterna: il giardino dell’Eden dove risiedono l’uomo Adamo e la donna Eva prima coppia progenitrice. Da quest’albero viene raccolto il frutto - identificato in età medioevale nella mela - che la donna trasgressiva porge e consuma con il compagno, e che Serena sradicherebbe e inghiottirebbe tutto intero, albero e mela, per saziare la sua fame di ribellione e comprensione. Come tutti i ribelli posti al di fuori dell’ordine precostituito, la cacciata della coppia adamitica dal Paradiso - simbolo dell’ordine cosmico – è metafora riferita all’iniziazione dell’uomo alla vita, da vivere al di fuori del contesto mitologico; trasferita in una realtà terrena dove egli dovrà imparare a procurarsi, contrastando una natura ostile, il cibo per nutrire il corpo ma anche l’anima. Serena è consapevole delle difficoltà da affrontare per nutrire la sua anima. Così esplora il percorso per riuscire almeno a provarci in questo intento, e lo fa partendo dal caos iniziale dove l’uomo è parte delle radici “dell’albero che sa” e del frutto che non sazia; per poi “spalmare di minestra di fave” le spalle dell’amato in Sulla strada perpetua, in una intuizione poetica che esprime una prima timida introspezione dei propri sentimenti, in un percorso binario con il cibo. In Radunati in seconda, l’uovo primordiale è aperto e conosciuto: è tuorlo - sole che si può usare e manipolare friggendolo in un tegamino e soprattutto consumare con il pane; alimento risultato dalla prima sperimentazione umana sul prodotto cibo e segno di nuova civiltà alimentare che associato all’uovo - alimento primigenio e generante per sua natura - parafrasa in Serena una prima sistemazione di quei tumulti interiori che agitano e disorientano i suoi primi affetti. Il pane, alimento arcaico e sempre nuovo, nella poesia di Serena è spezzettato, mai intero, e non può esserlo in quanto non ha alimentato ancora in modo totale e soddisfacente la sua maturazione di donna in crescita. È “molliche di Vita” in “Che male c’è se dopotutto mi viene da ridere” e “briciole di Pollicino” in La mia forza, che ancora la tengono ancorata al nutrimento materno impastato di favole e raccomandazioni: dalle quali sa di dover scappare ma non sa ancora come. È pane bagnato di latte nella colazione del mattino che torna con ripetizione, nella sua poesia, come momento d’inizio e di riavvio di quel quotidiano che ancora necessita del profumo di casa e delle fondamenta familiari. È una fetta di pane tostata e impaziente, bagnata di latte particolarmente buono, quella che partecipa alla magia dell’attesa per la nascita di Alice, la nipotina, in “Ho il cuore popolato di balene”. Il latte, alimento spontaneo di origine animale, nella poesia di Serena esplica riferimenti nutrizionali primarie: è il latte materno, nutrimento rassicurante che associato ad un altrettanto spontaneo alimento di origine animale, il miele, è da sempre metafora delle dolcezze della vita, donate e non elaborate, alle quali ricorrere e pensare. La poesia di Serena è inondata di latte, vi cade dentro in quello più bianco in Una città che dorme, diventa una goccia che “…cola dal mento…” ed “…ha paura d’infrangersi in volo…” in Fischiano i nespoli, veste di miele e latte i sogni delle ninfe dei boschi in L’uomo invisibile, e “Miele e latte sul mio volto” è il titolo che dà alla poesia nella quale esprime l’emozione che scioglie in “…lacrime di latte e miele…” un momento d’amore. Liquido pesante, il latte, non trasparente, quando si versa copre; alimento primario all’alba della vita umana ha condizione precaria, facilmente deperibile ma portatore, nella sua natura, di enzimi lievitanti, capaci di trasformarlo in altri alimenti: i formaggi, più durevoli ed altrettanto nutrienti e necessari. In questo suo comportamento è possibile associarlo alla precarietà dell’infanzia che copre brevi anni durante i quali, però, si predispongono i “fermenti” necessari alla crescita e trasformazione dell’uomo da bambino in adulto. Serena è cosciente di questa natura del latte e nella poesia “Il latte” lo rappresenta sì come la colazione sicura da ritrovare ad ogni risveglio mattutino ma, quando si spande “tiepido e grasso” sul foglio, diventa sostanza capace di irrobustirlo e prepararlo ad assorbire i versi della sua poesia, che dettano sentimenti nutriti dalle sue emozioni in divenire di giovane donna. Sentimenti da addolcire con quel miele, tanto cantato da tutti i poeti, quando, a volte, si presentano aspri e doloranti. Garcia Lorca definisce la poesia il miele dell’uomo in Canto del miele: “…Così il miele dell’uomo è la poesia che emana dal suo petto addolorato, da un favo con la cera del ricordo creato dall'ape nell'intimità.” Il miele ed il latte si mescolano nell’iconografia alimentare poetica e mitologica e diventano il “lattemiele” alimento eletto, il più dolce per definizione, l’unico in grado di rivestire l’amore di dolcezza e l’unico che può metaforicamente nutrire l’anima del poeta; pertanto non potevano non essere presenti nella poesia di Serena, a sostenere, nella sua introspezione, la speranza di assaporare sogni di latte e miele. Pur non disdegnando di godere, in L’uomo invisibile, “…carezze di zucchero caldo…”, appartenenti ad un mondo di bambina nel quale, ancora oggi, non riesce ad individuare un suo luogo d’appartenenza. Lo zucchero, polvere dolcificante risultata da un laborioso processo di lavorazione di elementi primari quali la barbabietola o la canna da zucchero, viene introdotto nella poesia di Serena quasi sempre in uno stato elaborato, mai nella sua condizione primaria comunemente usata: è “caldo” e “ bruciato” quando riflette sentimenti, risolti, a volte, in “fantasma di zucchero” quando lo riferisce a momenti dolci perduti. Nella poesia Zucchero bruciato, infatti, c’è nell’aria “… odore di zucchero bruciato / e la raffineria è ormai ferma…” a circondare l’attesa di una donna dell’amato per il quale “… il fantasma di zucchero disegna una mappa del cuore, / ma non lo condurrà da lei.”. Lo zucchero poi, nella sua fattispecie di confetti, caramelle, canditi e pupazzetti, appartiene ai dolci per bambini. E nella poesia di Serena, lo zucchero, ha anche questa valenza quella di evocare dolcezze e magie di bambina alle quali tornare con il cuore e con le quali rivestire, oggi, i sogni di adulta; tanto da poter “…spiare dalla zuccheriera..” la persona amata - solo se riuscisse a volare - o costruire per la sua nipotina “…nel suo paese delle meraviglie /una statua di frutta candita…” dalla quale, da grande, Alice possa prenderne una mano e mangiarla, prendendo così conoscenza dei sentimenti e della dolcezza d’affetti che Serena ha serbato per lei. I frutti nella poesia di Serena sono nocciolati, si sgranano, come per il pane non si presentano interi ma osservati nella loro unità di parte: sono nocciole “…come lancette di ghisa…” quelle che in Una città che dorme “…scandiscono il tempo nel vuoto...”, spazio mentale dove il caos esistenziale di Serena è “un pendolo” che dondola in cerca della via da indicare. Ed intanto si fa frutta lei stessa in “Non lasciatemi sola”, così: “ Il mio seno è un cesto di frutta/ e il mio sorriso il sole che la matura..” e non vuole essere ingannata da chi, con parole, cerca di farle intendere che “…le ciliegie non sono il sangue dell’albero che sa…”. Serena sa dell’albero-vita: è l’ulivo - terra originante di quella Calabria “… fiumara di melograni…” della quale si sente propaggine ed alla quale spesso torna con il “…treno dei sogni / che affolla di stanchi eremiti, di ulissi cantanti…” sicura di trovarvi sempre ad accoglierla “…una minestra d’alloro…”. Il melograno, torna in Abbracciami mamma, con i suoi “grani”, ai quali è attenta la madre nel porgere il frutto, primizia, alla “ prima nipotina”, ignorando la muta richiesta di un abbraccio, poi reso, a confortare ed assicurare Serena che sempre il suo rientro in famiglia sarà un’affettuosa attesa. Non può non passare inosservato, in questa composizione, il riferimento al ruolo mitologico della melagrana, nella sua accezione di frutto connesso con la fertilità. Quella fertilità dalla quale Serena ha paura di essere esclusa ponendosi il dubbio di non poter mai diventare melagrana “ se pesca, resto sempre un fiore / e chi dice che farò noccioli?” E che trova invece compiuta nella sorella Lara con la nascita di Alice, la nipotina, nella quale insieme alla madre e alle sorelle, si riflette in una prospettiva generazionale tutta al femminile. L’essere donna, è in Serena una condizione risultante e cumulativa dell’essenza femminile di tutte le donne della sua famiglia che ovvia le gerarchie di generazione, e si risolve in La nonna e la gelsomina con la compresenza della nonna, della madre e di Serena “...la mattina nella cucina di mia madre…”. Luogo – fucina, la cucina, fondamentalmente femminile e deputato alla produzione del cibo per il sostentamento familiare, che Serena riveste di alone magico nel risveglio mattutino di figlia che assapora: “Seduta al tavolo biscottato.../ che odore del pane imburrato./ Il basilico balla di fuori al balcone, ...” e “La gelsomina” che “ non smette mai di parlare… / Racconta cos’ha visto questa notte dal balcone /e ne sa più di mia nonna..”. Una nonna “stranita” dall’età, ma che insieme alla “gelsomina” “ A volte, la sera, se non fa freddo / s’affacciano entrambe… /…spiano le strade, le stanze delle case adiacenti:<<studiano>> mi corregge la nonna <<la vita>>…”: quella vita, alla finestra della quale – come recita la sapienza popolare - Serena si sta appena affacciando, consapevole di dover, prima o poi, uscire in strada e camminare. E decide: “È tardi, l’ora di profumare di latte è passata / bisogna che mi vesta / la giornata è cominciata.”. , una “giornata”, da affrontare con coraggio “Da brava leonessa mi affilerò le unghie sulla Poesia / e attenderò che il Caso conduca all’arciere…”, ma anche con la consapevolezza che possa avere “… il profumo del miele…” e dove ancora “… le api sorridono / nel piatto d’insalata di limoni….”.
Id: 381 Data: 27/01/2014 16:34:40
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- Letteratura
Il senso del cibo in Leopardi
IL SENSO DEL CIBO IN LEOPARDI Quello che vogliamo, con questa piccola trattazione, è avvicinarci al Giacomo Leopardi poeta, filosofo, filologo e quant’altro troviamo in una figura geniale, ormai mitica della nostra letteratura, nel suo rapporto con la quotidianità e la materialità del cibo e, come e quanto, questo è presente nei suoi scritti. Il suo primo approccio poetico con il cibo è notoriamente conclamato in A morte la minestra (M.Corti 1972) “…Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l'oggetto, e dirti abominevole mi porta gran diletto. O cibo, invan gradito dal gener nostro umano! Cibo negletto e vile, degno d'umil villano! Si dice, che resusciti, quando sei buona, i morti; Or dunque esser bisogna morti per goder poi di questi benefici, che sol si dicon tuoi?...” Una poesia infantile - Leopardi la scrisse all’età di undici anni - nella quale il poeta espresse con giocosa ironia tutta la sua aberrazione per la quotidiana minestrina con la quale in famiglia, forse, era costretto a fare i conti in nome di una pietanza ritenuta salutare e indispensabile alla sana alimentazione di un bambino in crescita. La stessa “ abominevole” minestra sulla quale ironizza ancora nel distico “Chi potrà dire vile un cibo delicato, che spesso è il sol ristoro di un povero malato?...” Un ristoro che il Poeta si ritrova a fronteggiare quando in fin di vita, a Napoli, se lo vede proporre da Paolina Ranieri come ultimo alimento appropriato alla sua condizione di moribondo e, in un ultimo slancio di coerenza al suo sentimento avverso e antico per la minestra, la rifiuta imperiosamente e la scambia con la richiesta di un’abbondante porzione di “ limonea gelata che qui chiamano granita…”, come ci riporta l’amico Antonio Ranieri nella sua biografia Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi. Paolina gliene fece recare una doppia porzione , probabilmente dalla “Bottega del Caffè” di Vito Pinto, e, dopo averla gustata “ con la consueta avidità…” spirò “il mercoledí, quattordici di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodì.”. Sempre secondo Ranieri, Giacomo si rapportava al cibo - contravvenendo alle raccomandazioni “…dei più gravi ed esperimentati medici della città, fra i quali l’aureo Mannella e il Postiglione…” , con la presunzione di essere egli stesso più deputato a conoscere il modo di curare le sue malattie rispetto ai consigli medici che, purtroppo, spesso mancavano l’obiettivo di sanare e rendergli sollievo dai mali, e decideva da solo l’ alimentazione appropriata alle sue condizioni fisiologiche. Si potrebbe pensare che il Leopardi avesse con il cibo un rapporto di sola opportunità di sopravvivenza, invece, dalle lettere ai familiari, dalle opere e dalle informazioni, sempre di Ranieri, scopriamo un Leopardi che sapeva gustare il cibo, lo esaminava, lo consigliava e lo usava come metafora di denuncia sociale e politica dei suoi tempi. Il Poeta non esita, infatti, a puntare il dito o meglio gli strali dei suoi versi in Palinodia al marchese Gino Capponi su un certo tipo d’intellettuali fiorentini impegnati nell’elogio delle “sorti “e “progressi” “dell’umana gente” , delle quali il poeta dubita la realizzazione visto che tutto si discute, si svolge e si esaurisce filosofando sulla lettura delle gazzette nei caffé alla moda, - tra un pasticcino e l’altro - “…Alfin per entro il fumo De’ sigari onorato, al romorio De’ crepitanti pasticcini, al grido Militar, di gelati e di bevande Ordinator, fra le percosse tazze E i branditi cucchiai, viva rifulse Agli occhi miei la giornaliera luce Delle gazzette.Riconobbi e vidi La pubblica letizia, e le dolcezze Del destino mortal…”. Ironicamente ora, dall’agire e dagli scritti, di quegli intellettuali, gli appare chiaro quali siano le vere dolcezze della vita e della “…pubblica letizia…” che aveva perduto di vista per il suo vivere sempre lontano dai ritrovi dell’intellettualità mondana e dal suo prendere la vita come un carico pesante di avversità. Canzonatorio sull’entusiastica prospettiva futuristica di questi intellettuali, il Poeta, profetizza ne I Canti, che, tra le tante immaginate innovazioni“…nove forme di paiuoli, e nove pentole ammirerà l’arsa cucina”. I versi che scrive ne I nuovi credenti, rivolti ai sostenitori napoletani dello spiritualismo cattolico, considerati dal Poeta degni rappresentanti di “ quel secol superbo e sciocco”, dal quale si sente estraneo, sono ancora una volta dileggianti e accusatori, nonchè inseriti in un contesto godereccio dove il cibo è immagine riassuntiva degli smodati piaceri materiali di “…quei che passan l’anno In sul Caffè d’Italia, e in breve accesa D’un concorde voler tutta in mio danno S’arma Napoli a gara alla difesa De’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni Anteposto il morir, troppo le pesa.” E comprender non sa, quando son buoni,…” Il cibo armerà ancora l’ironia del poeta sul falso senso della “… pubblica letizia e le dolcezze del destin mortale.” nel sesto canto dei Paralipomeni alla Batracomiomachia - il poema eroicomico- dove Leopardi mette alla berlina liberali, reazionari e democratici del suo tempo, rappresentati nei topi congiuranti. Egli scrive Data alla plebe fu cacio con polta, e vin vecchi gittar molte fontane, Gridando ella per tutto allegra e folta Viva la carta e viva Rodipane… Consigliere esiliato di Rodipane, per il suo spirito riformista e progressista, è il conte Leccafondi (forse lo stesso Leopardi?) che vagando fra i costumi dei più diversi paesi, cerca d’apprendere il più possibile “D'augumentar come si dice i lumi
Alle sue genti, e se gli fosse dato
Trovar soccorso al lor dolente stato.” , arriva stremato davanti ad un palazzo dove Dedalo lo soccorre e “..siccome Enea nelle libiche sale..” “...di noci e fichi secchi
Un pasto gli arrecò di regal sorte,
Formaggio parmegian, ma di quei vecchi,
Fette di lardo e confetture e torte,..”. Un pasto fatto di cose gradite al palato non solo topesco ma anche a quello del Poeta che, in fatto di formaggi, così si relaziona con il padre in una lettera scritta durante il suo soggiorno bolognese l’8 febbraio 1826 “…Carissimo signor padre…il dono che ella mi manda mi sarà carissimo, e mi servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che l’olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che qui si stimano più del parmigiano, il quale non ardisce comparire in una tavola signorile:bensì vi comparisce una forma di formaggio della Marca, quando se ne può avere, che è cosa rara…” La soddisfazione di Giacomo per l’apprezzamento che godono i prodotti della sua terra - addirittura i formaggi superano in qualità il parmigiano ritenuto a quel tempo poco signorile - in un ambiente cittadino così lontano dalla vita paesana e socialmente ristretta di Recanati, compensa probabilmente il sentimento di rimorso che il Poeta avverte, per la lontananza voluta dalla sua terra e dai familiari ai quali nonostante tutto è costretto a chiedere sostegno. La memoria di odori e sapori che rimandano ad abitudini familiari e alle tradizioni paesane delle “Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati”[1] sono ricordate dal Poeta nello Zibaldone nel “Decembre 1818”. Fàcciate alla finestra, Luciola, Decco che passa lo ragazzo tua, E porta un canestrello pieno d’ova Mantato colle pampane dell’uva. I contadì fatica e mai non lenta E ‘l miglior pasto sua è la polenta. È già venuta l’ora di partire In santa pace vi voglio lasciare. Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai: Se non me la vôi dà padrona sei. Nelle lettere ai familiari egli esprime spesso la nostalgia di non poter condividere con la famiglia le pietanze rituali delle feste e scrive, nella lettera inviata da Bologna nel “Decembre 1825” al fratello Pier Francesco, chiamato familiarmente Pietruccio, “…Vi saluto e vi lascio colle lagrime agli occhi, perché penso che quest’anno non proverò le cialde che qui non si conoscono affatto; come non si conoscono tante altre belle cose dei nostri paesi. Mangiate voi la vostra parte e la mia, e vi serva per ricordarvi di me a colazione e a pranzo…” Ed in quella, sempre del 17 marzo 1826, da Bologna, in occasione della Pasqua, così raccomanda la sorella Paolina “…da’ loro a mio nome la buona Pasqua che io passerò senza uovi tosti, senza crescia, senza un segno di solennità…” ed ancora per la stessa festività, in un’altra lettera da Pisa del 31 marzo 1828, sempre al fratello Pietruccio“ Io non mangerò né uova toste, né altro; chè non posso mangiar nulla, benché stia bene, e passo le 48 ore con un zuppa: me ne dispiace fino all’anima, ma pazienza.” Il rammarico per i sapori lontani della sua cultura alimentare è mitigato dal confronto con la diversa tradizione culinaria della terra che lo ospita, che il Poeta apprezza e della quale vuole rendere partecipi i familiari così “ Se provaste le schiacciate che si usano qui per pasqua, son certo che vi piacerebbero più che la crescia: io ne manderei una per la posta a Paolina,…” con un tentativo d’informazione sulla struttura di questo dolce “… (perché è roba che ci entra lo zucchero),…” e un suggerimento per come meglio gustarlo “…ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per la posta anche il forno.”. Il desiderio di Leopardi di partecipare ai familiari le sue nuove scoperte in fatto di cibi non si limita ad una descrizione sensoriale di questi ma va oltre e, per ragioni logistiche, dove non può materialmente, inviare la pietanza per farla assaggiare, si preoccupa in qualche modo di dare informazioni utili alla sua preparazione. Racconta sicuramente, al padre, il conte Monaldo, nei suoi rientri a Recanati, il gustoso sapore del “famoso latte-e-mèle” - una probabile crema gelata assaggiata a Bologna – e promette d’inviare la ricetta perché possano riprodurla e gustarla in casa come scrive il 14 maggio 1827 “Con uno dei prossimi ordinari le manderò la ricetta del famoso latte-e-mèle, che debbo avere fra poco.” Mantenendo la promessa nella lettera datata “Bologna 1 giugno 1827” “La ricetta del latte-e-mèle è molto semplice, perché consiste in fior di latte o panna, gelatina non salata, e zucchero a piacere. Ma il principale consiste nella manipolazione, della quale mi hanno fatto una descrizione assai lunga, e tale che io non so se la saprei riferir bene. Quando poi mi riuscisse di darla ad intendere, nondimeno non credo che la esecuzione corrisponderebbe; perché vedo insomma che tutto l’affare consiste nella pratica e nell’abilità manuale del cuoco…” Sarà proprio un cuoco speciale, Pasquale Ignarra“…Questo bravu’uomo era, innanzi tutto, un patriotta… Era, per giunta, un finissimo cuoco; e ci assistette Leopardi insino airora suprema..”[2], Monsù in casa Ranieri a Napoli, dove il Poeta ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, a soddisfare il suo ritrovato gusto del mangiare e dell’intrattenimento a tavola “...la quale importa che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo, ,..”, come ben precisa nello Zibaldone. Il cibo diventa quindi, nel soggiorno napoletano del Poeta, un riscatto dalle negate “dolcezze del destin mortal…”, trasferite ora e accumulate nella spasmodica ricerca del piacere attraverso i sapori ed i prodotti della cucina dei napoletani, come scrive nelle Operette Morali “…Come per virtù lor non sien felici Borghi, terre, provincie e nazioni. Che dirò delle triglie e delle alici? Qual puoi bramar felicità più vera Che far d'ostriche scempio infra gli amici?...” Nello sbeffeggiare “I nuovi credenti” Leopardi mette a punto, una sequenza di luoghi e pietanze ben coordinata, da far pensare che non può essere solo immaginata, ma che sia invece frutto di una conoscenza diretta e suggerita da una frequentazione se non personale quanto meno osservata dei ritrovi gastronomici e dei convivi napoletani “…Sallo Santa Lucia, quando la sera Poste le mense, al lume delle stelle, Vede accorrer le genti a schiera a schiera, E di frutta di mare empier la pelle…”. Probabilmente tra “le genti a schiera a schiera”, che frequentavano i ristoranti di santa Lucia a “empier la pelle” di frutti di mare, ci saranno stati, qualche volta, anche Giacomo e l’amico Ranieri. Treich nel suo “Almanach des Lettres”, racconta che Leopardi amava ordinare, nelle sorbetterie che frequentava, tre gelati alla volta, sovrapporli l’uno sull’altro e mangiarli con ingordigia; Ranieri conferma questa sua abitudine annotando che spesso “...l’eccesso era stato tale che ne trovai raccolto dall’un de’ lati un capannello beffardo…” Tanti erano “Gli estremi stessi, … ai quali trasandava nel suo vivere pratico e cotidiano,…”, che spesso, sempre secondo Ranieri, pretendeva di mangiare gelato nel cuore della notte e solo quello della “ …grand’arte onde barone è Vito.” ; faceva grandi scorpacciate di tarallucci zuccherati, confetti, pani dolci, caffè e cioccolatte fin dal mattino. A dar ragione ai racconti di Ranieri sulle attenzioni riservate al cibo dal Poeta esiste una lista autografa, conservata tra le sue Carte nella Biblioteca Nazionale di Napoli, dove sono elencati 49 tipi di vivande. La lista, scritta con calligrafia minuta apre con tortellini di magro, continua con maccheroni o tagliolini, capellini al burro, brodo di capellini e, passando tra un elenco di frittelle di riso, di mele e pere, di borragine e di semolino, tonno, frappe, fegatini ecc., chiude con un piatto di farinata di riso. Si tratta, probabilmente, di un appunto sui cibi preferiti da Leopardi e suggerite al Monsù Ignarra per la preparazione dei suoi pasti o per qualche intrattenimento gastronomico in casa Ranieri. Il risultato, alla fine di queste considerazioni, è quello di un Leopardi intento all’esasperata ricerca di soddisfazioni sensoriali di livello gustativo che, nella logica del pensiero comune dei suoi critici, avrebbe dovuto compensare i pochi e sofferti piaceri avuti nel suo vivere. Un piacere che lo stesso Leopardi definisce nello Zibaldone “Dalla mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec.” Una ventura praticata solo alla fine della sua vita perché “…variano i gusti de' luoghi, de' tempi, degl'individui,…”, quando si rende consapevole di avere un corpo ormai consunto dalle malattie e di essere, inevitabilmente, proiettato verso una morte immatura per cui in quella “…dimenticanza de' mali…” cerca di ritrovare nella natura dei sapori “…l'armonia o disarmonia che hanno tra loro, in ciascuna composizione.”[3]. Gadda dal suo saggio “I grandi uomini” asserisce che “Nella vita dei grandi, a volte, è un che di scombinato, di doloroso, di fatalmente eccessivo, di erroneo, di particolarmente peccaminoso, che sembra costituire, appunto, il contrappeso biografico, il compenso (negativo) della loro purità operante, della loro vittoriosa iper-cognizione.”. Leopardi questo scombinato, doloroso, eccessivo contrappeso, che la sorte ha riservato alla sua genialità, ha voluto gastronomicamente risolverlo chiudendo la sua vita, come ancora annota Ranieri nelle sue memorie, con “… due cartocci di confetti cannellini, di Sulmona…che venivano belli e fatti dalla patria di Ovidio…qualche cucchiaiata di quel denso brodo…” ed una “… abbondante (sic) limonea gelata che qui chiamano granita.” .
Id: 379 Data: 15/01/2014 19:50:33
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