Vivere, non sopravvivere;
filosofia della morte in Michelstaedter
di Gaia Ortino Moreschini
Consapevole della tragicità della finitezza dell'essere e divenire umano, del dolore lacerante che il nulla del quotidiano sopravvivere genera attraverso miscugli di illusioni e conforto, d'aria fumosa ch'alienando da sé, abbaglia con la dimensione tragica dell'esistere, illudendo l'uomo di poter condurre un rassicurante sopravvivere, Carlo Michelstaedter, giovane ebreo, scrittore, filosofo e poeta degli inizi del XX secolo, contribuisce con veemenza a dare vita al profondo sentire dei grandi pensatori del Novecento. Il preferire dell'uomo il sopravvivere al vivere, per non dover scegliere, per non scoprirsi divenire solitudine, per non dover soffrire, generano nel giovane pensatore la consapevolezza, profondamente radicata nel suo essere figlio del romantico sehnsucht ma anche di nuove brezze d'illuminazione, d'essere nel deserto della vita tra l'oggi e il domani a struggersi invano; tale pensiero, lo conduce sulla via della rivelazione e pure, del non ritorno.
Quale uomo difatti, può sorreggere il peso di una verità che sfugge, senza ad esso soccombere? Il peso di sapersi unico e solo peregrino sulla via della persuasione, che, nella propria finitezza, non potrà mai pienamente vivere ed esprimere? Egli arriva a scorgere, toccare una fiamma che non può che bruciarlo. La persuasione è verità che brucia perché troppo alta e pura è la sua fiamma, libera da illusioni, bisogni, attaccamenti, desideri quotidiani, non promette nulla, non teme nulla. Colui che raggiunge la persuasione abbandonando la rettorica, cioè il sopravvivere, il non essere, l'illudersi, raggiunge verità e libertà assolute, raggiunge l'essere, la vita. Michelstaedter richiama l'attenzione sull'uomo che sceglie d'essere sveglio, di riprendere possesso di se stesso, del proprio dolore, dell'intima solitudine, sì da vivere di se stesso e dunque, non temere più la morte, cioè la sopravvivenza, perché la morte non può toccare chi non ha nulla, e nulla essa gli può togliere. Si parla dell'uomo che si realizza nell'uomo stesso attraverso un intimo peregrinare nel proprio dolore per assurgere a quella consapevolezza che lo rende libero nell'Assoluto. L'uomo può essere salvato solo da se stesso. ".. lasciami andare .. a crearmi luce da me stesso.."scrive in una poesia intitolata alla sorella Paula. Non la vecchia né la nuova religiosità lo aiutano. Neppure lo scetticismo. Ed ecco, che si trova innanzi ad un muro invalicabile. Il problema irrisolvibile, è che all'uomo manca il coraggio di sopportare il peso di tale dolore, di sopportare l' illuminazione, la solitudine. Il silenzio pare allora l'unica possibile espressione di questa dimensione di coraggio, il silenzio e dunque, la morte. Morte come negazione del finito, ma anche quale realizzazione dell'Assoluto; guardare con coraggio in faccia la morte è fare di se stesso fiamma, quell'alta fiamma che è verità e libertà assolute, è recupero dell'essenza esistenziale. " Amore e morte, l'universo e 'l nulla", solitudine, incomprensione, grido all'ascolto, cantano le sue poesie; canto d'un'anima smarrita che
"....
palpita e soffre orribilmente sola
sola e cerca l'oblio."
In solitudine, disto dal quotidiano sopravvivere, ad appena 23 anni, Michelstaedter sceglie di togliersi la vita, sceglie l'alba della sua vita, un porto ove alta e libera si faccia la fiamma, lasciando ai posteri una filosofia e poetica della morte che sveli il senso, il peso, la rivelatoria via, la fiamma del vivere.
Ma ciò mi lacera. Perché dinanzi al muro egli non ha compreso che non era il silenzio, bensì l'amore l'unica forza in grado di sgretolare i mattoni, l'unica forza che gli avrebbe permesso di andare oltre.