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Raccolta di saggi di Bruno Corino
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Coscienza letteraria di un autore “marginale”

Queste mie riflessioni prendono spunto da un saggio che tempo fa mi capitò tra le mani, La narrativa italiana degli anni Novanta. Lo lessi con estrema attenzione al fine di comprendere cosa si muovesse nella narrativa italiana di questi ultimi decenni. In precedenza, avevo letto anche Parola di scrittore. La lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, edita dall’Accademia degli Scrausi (a cura di Valeria Della Valle). L’idea che mi sono fatta è che vi sono in atto nella letteratura di quest’ultimo periodo due tendenze: una prima che potrei definire piuttosto “letteraria”, e una seconda, invece, giocata sull’“anti-letterarietà”.

Potrei riassumerle in questo modo: c’è una linea poetico-espressiva che ha lo sguardo fisso sulle letterature precedenti – ciò che Gesualdo Bufalino definisce “i serpenti della tradizione” – al fine di generare altra letteratura. Questa linea ha i suoi punti di raccordo nella narrativa dello stesso Bufalino, di Vincenzo Consolo e, come punta estrema, Michele Mari, e trova la sua ragion d’essere in ciò che Consolo definisce un processo di verticalizzazione: «Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da “pochi felici”» (citato in Parola di scrittore, p. 101). Insomma, è una narrativa a basso-consumo, fatta quasi per pochi eletti, o di nicchia. La linea antiletteraria s’esprime, invece, attraverso una vena sociologica che non mira alla letterarietà quanto piuttosto al “parlato”, a una sintassi sconnessa, infarcita di anacoluti, con un uso ossessivo dell’iterazione, disseminata di tratti fumettistici, di una scrittura “palinsestica”.

Questa seconda linea parte da Tondelli e arriva a Sandro Veronesi, a Niccolò Ammaniti. Se dovessi coniare una formula sintetica appropriata a meglio definire queste due tendenze narrative in atto, parlerei di un tentativo di “sacralizzazione” da parte della narrativa letteraria, e di un tentativo di “sconsacrazione” da parte della narrativa antiletteraria. Nel primo campo, la narrativa diventa quasi un luogo di culto nel senso letterale dell’espressione, dove il lettore entra in punta di piedi. Nel secondo luogo, la narrativa si fa profana, quotidiana, trita e triviale per alcuni aspetti, e il lettore non ha alcun obbligo nei confronti della materia narrativa.

È chiaro che se interpretassimo le due tendenze in chiave puramente “politica”, potremmo commettere un errore di prospettiva, iscrivendo la tendenza della narrativa letteraria al partito “conservatore”, o a una sorta di volontà restauratrice, insomma a un partito dell’ordine, che ha fede nel rispetto delle regole grammaticali, che crede nel valore propositivo della letteratura, e che crede ancora che essa possa rappresentare un lavacro in grado di purificare l’anima contaminata dei lettori; infatti, pare che il suo compito sia proprio quello di “elevare” la coscienza del lettore, o di suggerirle che oltre la realtà banale e quotidiana esiste una realtà altra, un “altrove” dove l’anima non trova un appagamento immediato e totale dei propri sensi, ma una forma differita di appagamento.

Da questo punto di vista, la tendenza letteraria assolve la funzione di non voler appiattire le esistenze all’accadimento del presente, lasciando intravedere che in ogni nostro atto c’è o esiste sempre un sovrasenso, un “qualcosa” che sfugge al presente. Si comprende perché questa tendenza lambisce la sfera religiosa della vita, per quanto si tratti di una religiosità senza dei e senza divinità. Non a caso infatti il tessuto narrativo si fa diafano, poetico, grana fine, qualcosa che somiglia alla trasparenza dell’essere. Non a caso i personaggi di Consolo, Mari, Bufalino hanno le fattezze di “fantasmi” o di “spiriti” cristallini, sembrano cioè esseri che non appartengono al nostro mondo, ma provengono da un al di là assai indefinito. Sono cioè personaggi “poetici” più che personaggi da romanzi (in Mari, talvolta, il personaggio poetico diventa il poeta-personaggio di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti).

L’altra tendenza, invece, potremmo iscriverla al partito “progressista”, che lotta contro l’ordine costituito, proponendosi di svegliare la coscienza critica del lettore, di “svelare” l’arcano del mondo-merci, mimando i tic della vita compulsiva e metropolitana, i suoi banali rituali (la pubblicità, lo shopping, l’appiattimento emozionale, l’ipertrofia dell’informazione). In realtà, come ha dimostrato Francesco Dragosei nel saggio Letteratura e merci (1999), il discorso si può anche rovesciare: la tendenza antiletteraria potrebbe anche aiutare, suo malgrado e contro ogni sua esplicita intenzione, ad alimentare quel processo di omologazione nei confronti di un linguaggio e di una pagina di vita che ormai pare non trovare più alcuna resistenza. Facendo il verso alla società dei media, ai suoi tic, facendosi, in altri termini, «specchio della società», spinge, forse inconsapevolmente, ad accettare senza alcuna remora proprio quanto di più triviale e banale si muova oggi nel nostro tempo. Voglio dire, non operando più uno scarto tra una coscienza critica e la vita quotidiana, questa narrativa antiletteraria spinge le coscienze ad aderire con maggior disinvoltura a praticarne i consumi, i vizi, o i vezzi. Ne satura le coscienze sino al punto di far perdere di vista quella linea di demarcazione che divide la critica delle cose dalla loro acritica accettazione. Ottiene, insomma, l’effetto contrario di ciò che si propone. Per cui se la prima tendenza tende a disarticolare l’ordine sociale ponendo un ordine poetico-letterario, l’altra invece, finisce con il confermare un ordine sociale disarticolando l’ordine letterario-poetico.

La tendenza letteraria, marginalizzando la letteratura in un campo “estraneo” alla contaminazione triviale, tenta di preservare la coscienza relegandola in un lembo di austera ieraticità, da cui osservare con maggior disincanto la realtà sociale, senza lasciarsi completamente assorbire dai suoi modelli e dai suoi stili di vita. Tuttavia, tale tendenza finisce con l’assumere un “nobile” distacco, improntato di una pagina espressivo medio-alto, in grado di sfuggire alla condizione del presente, mettendosi però “a cavalcioni dell’epiciclo di Mercurio, che vede così avanti nel cielo da farmi venire mal di denti” (Montaigne, Essais).

A fronte abbiamo, invece, una letteratura antiletteraria, antipoetica, che tenda attraverso un processo di mimesi a far emergere la coscienza “spregevole” dell’uomo contemporaneo, la sua voracità di consumatore inesauribile e insaziabile, che ingoia e mastica tutto ciò che appare nel mondo della comunicazione, senza avere mai il tempo o la voglia di metabolizzarne la sostanza, di assaporarne il gusto, che ancora non ha finito di mandare giù l’ultima e abbondante razione di informazioni, di spettacoli, di film, di romanzi, di fumetti, di viaggi, ecc. che già si mette intorno alla tavolo apparecchiata per trangugiare altre informazioni, altri spettacoli, altri film, altri romanzi, altri fumetti, altri viaggi, ecc. Si tratta del consumatore ideale dei tempi nostri mai soddisfatto, mai saturo, di cui la tendenza antiletteraria esalta le qualità di divoratore.

 

Questo giro di ricognizione sulle tendenze attuali della narrativa m’è servito a meglio riflettere su quanto s’agita nel campo della letteratura. A me, queste analisi sulla “lingua” degli scrittori hanno aiutato a definire e a rendermi più consapevole della cifra stilistica che ho scelto per esprimere la mia “poetica”. Personalmente non m’iscrivo a nessuno dei due partiti. Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo d’essere uno che scrive nell’ombra, un “clandestino”, un irregolare o un senza permesso di soggiorno in questa benedetta repubblica di lettere, io tento di trovare comunque la mia cifra stilistica, sfuggendo alle maglie della letterarietà e dell’antiletterarietà, entro le quali, a portarle alle estreme conseguenze, si rischia di restarne intrappolati.

Retrospettivamente, m’accorgo come io tenti a eliminare nella mia materia narrativa ogni confine, limite o margine, di fondere a tal punto i piani da non poterli più distinguerli o differenziarli. Avevo in un altro contesto parlato di “voci miscelate”, ma il discorso può valere per tutti gli altri ambiti (temporali, spaziali, sequenziali, ecc.). Non a caso mi piace autodefinirmi un autore “marginalista”, dando a questo termine una valenza economica più che sociologica, usandolo cioè nello stesso senso in cui veniva usato dagli economisti marginalisti.

Concludo queste riflessioni con il dire che la cosiddetta “letteratura” è andata oltre sé stessa. Che non si tratta più di letteratura e di letterarietà o di antiletterarietà, bensì che la vera questione affonda le sue radici nelle “scritture”, e che non si può più parlare di “lingua letteraria”, ma di linguaggio, ossia di qualcosa che va al di là della metafisica narrazionale. Insomma, c’è tutto un mondo da ripensare…


Id: 849 Data: 18/02/2022 18:04:17

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- Letteratura

Dall’oralità alla scrittura a video (litweb)

Il grande studioso di storia della cultura, Walter J. Ong (1912-2003), ha saputo magistralmente analizzare cosa ha implicato il passaggio dall’oralità alla scrittura in molti generi d’arte: nella lirica, nella narrativa, nel teatro, negli scritti filosofici, nella storiografia, ecc. ecc. In particolare, ha saputo analizzare gli effetti che prima la scrittura, e poi la stampa hanno avuto sulla narrazione. Chiunque volesse approfondire questi temi rimando al suo testo fondamentale: Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (1982), dove troverà delle intuizioni ancora valide e tutte da esplorare. Analoghe implicazioni sono sottese nella scrittura litweb.

Naturalmente, ci sarà sempre qualcuno in giro disposto a credere che non ci sia nessuna mutazione in atto, che quella struttura conserverà le medesime caratteristiche, sia quando appare stampata che quando appare sul web. Ognuno è libero di credere ciò che vuole. Anche nel periodo di transizione dal manoscritto alla stampa erano in molti disposti a credere che la trasformazione avrebbe toccato soltanto il lato “quantitativo” delle opere stampate, senza intaccare quello qualitativo (o strutturale, come qui affermo).

Purtroppo, poi non sono vissuti così a lungo per potersi ricredere! D’altro canto, preciso che tra quantità/qualità esiste sempre un reciproco rapporto dialettico, non sono due aspetti separabili del problema, come comunemente si vuole credere: la quantità modifica la qualità, e viceversa. Ma lasciamo perdere, e torniamo alla questione principale.

La scrittura a video ha rivoluzionato il modo di scrivere. Anzitutto, è saltata la “chiusura operativa” del testo. Il testo a video è un testo aperto, sottoposto a continue e infinite sollecitazioni. Walter Ong scriveva che “la stampa incoraggia un senso di chiusura”. Questo processo era già stato avviato dalla scrittura, ma si affermò con maggior forza dalla stampa. Senso di chiusura vuol dire che un pensiero o un’opera narrativa è circoscritta al testo, ossia che il “testo” a stampa è separato completamente da tutto il “contesto” che l’ha prodotto. Senza questa netta separazione, il testo non poteva essere concepito come un’unità autonoma, dotato di un intrinseco valore interpretativo. Per “comprendere” un testo, almeno a livello letterale, il lettore ha bisogno di conoscere soltanto il “codice” linguistico e culturale usato dall’autore.

Una volta che il “testo” è dato alle stampe, l’autore non ha più la possibilità di intervenire: il testo si separa dal suo stesso autore, e questo provoca quel senso di estraneazione che l’autore prova quando legge un suo testo stampato. Naturalmente, finché l’autore è in vita, può modificare il testo, facendo stampare una seconda, terza, quarta edizione, e così via, ma ogni nuova edizione s’impone come un testo compiuto. Altro particolare: di ogni variazione che il testo subisce nel corso del tempo rimane traccia, e possono essere registrate con cronologica precisione. Ad esempio, se prendiamo in esame la novella di Verga, Rosso malpelo, possiamo confrontare il testo del 1978 con quello del 1897 e osservare alcune significative variazioni apportate dall’autore. Tuttavia, anche se i due testi hanno subito delle modifiche sostanziali, entrambi si ponevano come testi “chiusi”.

Cosa accade, invece, quando analizziamo un testo litweb? Anche qui osserviamo lo stesso senso di chiusura operativa messo in opera dalla stampa? Dunque, una prima differenza da notare è la difficoltà dovuta al medium di postare un “testo” lungo: la lettura su carta non è affatto uguale a quella su video. Il libro a stampa è un oggetto che può isolarsi da tutti gli altri oggetti. Il testo a video vive in un ambiente dal quale non potrà mai isolarsi.

La lettura a video ha fatto saltare tutti i criteri interni di differenziazione. In una mezz’ora trascorsa davanti al computer abbiamo la possibilità di visionare dieci quindici testi senza soffermarci su qualcuno in particolare. La lettura a video è segnata da queste caratteristiche: velocità e molteplicità. È chiaro che leggere su video un testo molto lungo è assai improbabile. Per fare un esempio, se io “postassi” l’Ulisse di Joyce ne mio blog dubito di trovare un solo lettore disposto a leggere l’intero testo da cima a fondo!

La velocità e la molteplicità dell’offerta narrativa inducono l’autore a costruire testi narrativi piuttosto “brevi”, ma altrettanto autonomi e completi. Il tentativo è sempre quello di poter isolare un testo da tutto un contesto. Ma di fatto nel testo a video ciò non è possibile. È soltanto un’illusione.

Il testo a video non sarà mai un testo autonomo, chiuso. Vivendo in un ambiente aperto sarà continuamente soggetto a ulteriori sollecitazioni, perché da quel testo originario si diramano altri testi, sotto forma di commenti, chiarificazioni o interpretazioni. Si torna, in sostanza, a una concezione medievale del testo, quando intorno al testo originario si scrivevano glosse e commentari, che, a loro volta, diventano essi stessi testi che alimentavano altri testi. Il testo a video tende a coinvolgere il lettore, trasformandolo in coautore del testo. Il testo a video fa saltare la differenza tra autore/lettore, poiché lo induce ad essere trasportato nel testo a farsi esso stesso autore di un testo che può a sua volta alimentare altri testi.

Dal momento molti autori prestati al video provengono dal mondo della carta stampata, quando scrivono testi a video propongono gli stessi modelli e gli stessi modi di scrivere che hanno imparato leggendo libri a stampa. Non si accorgono che la scrittura a video risponde a tutte altre logiche di costruzione del testo che nulla hanno a che fare con quelle del testo a stampa. Credono in sostanza di poter scrivere un testo autonomo come se fosse destinato alla stampa. Scrivono insomma come se il testo fosse destinato ad essere stampato e non “videoato”.

Il fallimento di tale modo di intendere la scrittura si nota soprattutto nella scrittura lirica. Nei secoli, infatti, il testo che più di ogni altro ha teso verso la chiusura operativa è stato proprio quello poetico. Questo è quello che più di ogni altro doveva fondare il suo valore espressivo sulla esibizione del proprio autonomo contesto. La poesia, diciamo, era il testo che a maggior ragione doveva fondare il suo esserci su un maggior senso di estraneazione da tutto un contesto storico e reale. Questo senso di estrazione doveva essere pari alla dimostrazione di un teorema matematico: pura bellezza esibita sulla potenza della propria capacità dimostrativa o, nel caso della poesia, sulla sua pura capacità espressiva. Ma mettere un testo che richiede la massima chiusura operativa in un contesto sollecito ad aperture continue risulta un controsenso. Infatti, non a caso l’unico effetto che tali liriche riescono a suscitare in chi le legge è un involontario effetto comico. Anche la lirica più drammatica non sfugge a questa regola. Ancor più comici poi sono quei commenti che si scrivono ai suoi piedi. Addirittura, possiamo dire che più s’usa un linguaggio teso, ermetico, più l’effetto comico è assicurato.

Ottenere autonomia e completezza con un testo più breve implica una maggior “chiusura” rispetto a un testo a stampa, vale dire una maggiore “decontestualizzazione”. Un testo “lungo” permette una dose maggiore di informazioni al lettore, una cornice, potremmo dire, molto più ampia entro la quale l’autore può collocare e sistemare meglio i personaggi, la storia, lo svolgersi dell’azione, l’intreccio, può dilungarsi con maggior dovizia di particolari a descrivere luoghi, scene, personaggi, ecc.

Penso a un’opera quale I promessi sposi di Alessandro Manzoni: una sorta di pluriromanzo; storie che si intrecciano con altre storie all’interno però della storia principale. Ma la letteratura ottocentesca poteva concedersi il lusso di rallentare lo sviluppo dell’intreccio con pagine e pagine di descrizioni senza intaccare la lettura del testo. Poteva farlo perché i ritmi di lettura era rallentati dalla pagina a stampa. Ma quando cambiano i ritmi di fruizione di un testo, se diventano più rapidi e veloci, cambiano anche i ritmi di composizione.

Ciò che sto scrivendo, Edgar Allan Poe l’avevo intuito più di un secolo e mezzo fa a proposito della poesia nella sua Filosofia della composizione. Scriveva, infatti, Poe che “se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, noi dobbiamo rinunciare all’effetto, immensamente importante, che è dato dall’unità d’impressione, perché interferiscono nella lettura le faccende del mondo e, così, ogni cosa in quanto totalità è distrutta”. Poe intuiva che i ritmi della vita moderna stavano accelerando. Che i tempi di lettura si accorciavano. I poemi-fiumi erano ormai fuori corso.

Le osservazioni riguardanti la composizione dell’opera di Poe sono state completamente realizzate e superate nell’epoca della litweb: il testo eccessivamente lungo nel web non funziona. La fatica e l’attenzione richieste al lettore sono troppo onerose per essere sopportate. È improbabile trovare un lettore disposto a sopportare tali fatiche, fosse anche un grande autore, quale Dostoevskij, ad esempio, non credo che esista un lettore così paziente. La questione potrebbe essere risolta se il lettore “si stampasse” tutti i racconti che ha intenzione di leggere, ma capite bene che è una soluzione poco praticata e praticabile.

Quindi, parlando di una maggiore chiusura di un testo a video rispetto a un testo a stampa, mi riferisco ovviamente a una “chiusura testuale”, cioè un testo narrativo non può operare fuori dai suoi confini: è il testo in sé che deve offrire tutti gli elementi per essere compreso. La storia, lo sviluppo, i personaggi, ecc. devono essere tutti compresenti all’interno del testo, ma dal momento che il testo deve presentarsi piuttosto breve, il testo narrativo presenta le caratteristiche di una tranche de vie, di un frammento, o di un pezzo di esperienza estrapolato da tutto un contesto di cui s’ignora completamente l’esistenza. Un esempio di questo genere di scrittura può essere il mio L'ultima notte di cielo stellato. Scrittura breve e concentrata in una sola unità d’azione, testo fortemente evocativo (il titolo stesso rimanda alla vita del pittore), effetto dato dall’unità d’impressione, totale affidamento all’“enciclopedia” ideale del lettore. È chiaro che molti scambiano questo tipo di scrittura come prosa poetica (riportano cioè questo tipo di scrittura a qualcosa di noto), ma in realtà si tratta di litweb, cioè di scrittura a video: di una scrittura rapida, intensa e fortemente suggestiva.


Id: 848 Data: 06/02/2022 07:56:13

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- Letteratura

Oralità e scrittura nell’opera di Giacomo Leopardi

Dopo Leopardi e la scrittura a stampa propongo questa seconda riflessione sul Poeta di Recanati.

 

La Poesis non ha certo dovuto aspettare la nascita della scrittura per venire al mondo: essa le preesisteva. Tuttavia, dopo la sua apparizione e affermazione per interi secoli non fu possibile credere che potesse esser esistita poesia dianzi alla nascita della scrittura. L’idea non era facile da accettare neanche da menti eccelse. La scrittura ormai era divenuta una pratica così connaturata al pensiero umano, una realtà tanto incontrovertibile che alcun letterato dell’Ottocento, formatosi su libri o su manoscritti, poteva farne a meno.

Tale configurazione, risultato di un processo storico, era talmente radicata nella cultura umana da far credere che prima della scrittura non fosse possibile “poetare”. Bisogna attendere la comparsa di Milman Parry (1902-35), di Albert B. Lord, di Eric A. Havelock, di Walter J. Ong e altri, per dimostrare in modo inconfutabile che la Poesia preesistesse anche prima dell’avvento della scrittura.

Verso la fine del luglio 1828, Giacomo Leopardi conobbe le teorie omeriche dei cosiddetti “analisti, inaugurate nel 1795 dai Prolegomema di Friedrich August Wolf (1759-1824), «in base alle quali l’Iliade e l’Odissea erano raccolte di poesie o frammenti di testi precedenti» (Ong, 42).

All’inizio neanche il grande poeta e scrittore riusciva ad accettare l’idea che potesse esistere «una fiorente letteratura non scritta». Annotando nello Zibaldone una recensione di Müller, un allievo di Wolf, Leopardi scrive: «Ma se Müller vuol persuadermi che i poemi d’Omero non fossero scritti [...] mi trovi qualche mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d’inspirazioni e d’improvvisazioni… Allora, considerata la superiorità della memoria avanti l’uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall’esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d’Omero o de’ Bardi» (Zibaldone, 4323-24).

Fu proprio durante quell’estate che Leopardi approfondisce i Prolegomena ad Homer (1795) del filologo Wolf, e si persuade, sulla scorta di «bellissime e acutissime osservazioni del Wolf», che «v’ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica» (Zibaldone, 4344). Per Leopardi è una scoperta folgorante, tale da sconvolgere o rimettere in discussione l’intero sistema letterario (produzione, distribuzione e ricezione dell’opera): «Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le istituzioni moderne o più note, ed applicarle a’ suoi poemi!» (Zibaldone, 4359).

La scoperta da parte di Leopardi di una cultura orale preesistente a quella chirografica apre alla sua mente poetica un nuovo orizzonte di idee. Tuttavia, che la sua opera poetica avesse, sin dalle prime prove, intrattenuto un rapporto particolare con la “voce viva” è un dato dimostrabile dalla scelta che il poeta compiva per i titoli delle sue opere.

Nella primavera del 1818, scrive il Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, e, nello stesso anno, compone due “canzoni”, All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Chiama i suoi componimenti poetici Canzoni. Nel luglio 1822 compone l’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano. La maggior parte delle Operette morali hanno forma dialogica. La Storia del genere umano fu concepita come favola mitologica. Poi abbiamo i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, il Cantico del Gallo Silvestre. Infine, la raccolta poetica porta il titolo di Canti.

Dunque, dialoghi, detti, discorsi, canti, favole, canzoni, ecc., modalità che attestano la superiorità della “voce viva” su una “voce” mediata dall’intervento della cultura chirografica. Infatti, la maggior parte di questi titoli rimanda più che a una cultura basata sulla scrittura, a una cultura orale. La qual cosa però potrebbe risultare piuttosto generica, poiché, fino alla lettura dello studio di Wolf, Leopardi non credeva all’esistenza di una poesia precedente all’uso della scrittura. In altri termini, parlare di una forte reminiscenza della funzione orale nella costruzione poetica, non equivale ad affermare che Leopardi si richiamasse tout court alla cultura orale.

In questa lontana reminiscenza, credo che abbia avuto un ruolo fondamentale la lezione platonica del Fedro e della Lettera VII, lezione che spinge Leopardi a porsi problemi simili, sia pur in una prospettiva completamente diversa rispetto al filosofo ateniese, cioè non in relazione alla deviazione dalla verità per demerito della scrittura, bensì in relazione alla vitalità della letteratura, in generale, e della poesia in particolare.

Di fatto, tale riflessione leopardiana s’inserisce in una fase in cui il poeta aveva rinunciato alla poesia in favore della prosa, cioè dopo l’esperienza delle Operette morali. Ma il salto nella cultura orale ha contributo a far recuperare all’attività poetica di Leopardi il valore della “rimembranza”, vale a dire il valore della memoria: una attività poetica in una cultura preletteraria, quindi senza il supporto della scrittura, diventa possibile soltanto se il pubblico e il poeta hanno una memoria robusta. Ma la memoria non può essere soltanto voce ed espressione della propria individualità, essa deve essere memoria archetipica, ossia memoria che appartiene all’intero genere umano. Se i ricordi appartengono alla propria sfera individuale, insomma fanno parte soltanto del proprio vissuto interiore, e quindi sono particolari e circoscritti alla propria vita, la rimembranza, invece, intesa come facoltà che presiede al richiamo dei ricordi, è comune e condivisa dal genere umano.

Pertanto, affinché un ricordo particolare possa tradursi in rimembranza, le sue immagini devono essere esperite come se fossero prodotte dalla mente di chi ascolta il verso poetico, ossia quelle immagini devono avere la stessa forza e potenza delle immagini create dal proprio vissuto. Come l’intensità della verità riusciva a trasportare l’uomo nel mondo platonico delle idee, allo stesso modo la vivezza e potenza delle immagini riesce a trasportarci nel mondo fantastico del poeta risvegliando nell’animo di chi ascolta, mediante il suono di quei versi, antiche reminiscenze ancestrali.

Insomma, c’è una sola strada per realizzare tale traduzione: la poesia non deve porsi come descrizione di un’esperienza, la poesia non deve limitarsi a contemplare il mondo, ma deve farsi essa stessa esperienza del mondo. E così i Grandi idilli non sono descrizioni di un proprio vissuto, bensì si costituiscono come delle vere e proprie esperienze poetiche: qualcosa che muta interiormente il vissuto di chi li ascolta. L’ascoltatore (o il lettore) fissa nella personale memoria le immagini del poeta rivivendole nel medesimo modo in cui egli le ha create. Cosicché, l’attesa, la speranza, “i cari inganni”, cantati dal Poeta, ora fanno parte della mia personale esperienza, perché essi rimandano a degli archetipi viventi. Solo così si può andare oltre la metafisica del linguaggio poetico.


Id: 846 Data: 31/01/2022 07:47:32

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- Letteratura

Giacomo Leopardi e la scrittura a stampa

Non si fa molto caso al fatto che Giacomo Leopardi sia stato il primo scrittore italiano che abbia tentato di vivere con il frutto della sua opera letteraria, o grazie al suo ingegno letterario. A partire dal 1825 egli ricevette per alcuni anni uno stipendio mensile dall’editore milanese Antonio Fortunato Stella; originariamente per dirigere un’edizione critica di Cicerone, ma «in seguito il programma fu modificato, e le opere appositamente redatte per lo Stella furono l’interpretazione del Petrarca e le due Crestomazia, della prosa e della poesia. Inoltre, il Leopardi pubblicò presso di lui le Operette morali e progettò una collana di moralisti greci, in vista della quale venne esercitando un’intensa attività di traduttore» (Franco Brioschi).

Ma questo rapporto di dipendenza economica con l’editore fu vissuto da Leopardi in modo traumatico. Per poter vivere della propria opera letteraria il poeta doveva imparare a scrivere e a lavorare su commissione, cioè doveva saper rinunciare alla propria libera ispirazione ed essere capace di andare incontro al gusto di un pubblico di lettori. Un pubblico che, in un mercato editoriale incipiente, mirava soprattutto alle cose “utili”, cioè a tutti quei prodotti librari che possono accrescere le sue conoscenze, le sue cognizioni, o che non avessero in sé il proprio fine, come accadeva alla vera arte, ma erano pur sempre veicoli di un messaggio ideologico o politico. Insomma, come suol dirsi, che fossero immediatamente spendibili sul mercato delle idee e delle battaglie politiche del momento.

Leopardi paragonava la sorte dei libri a quella degli insetti, chiamati efimeri (da qui il termine effimero, cioè dalla vita breve): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Più avanti, riflettendo sullo stesso argomento, annota: «Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della loro produzione» (Zibaldone, 4271).

Quantunque non appartenga al lessico leopardiano, potrei scrivere, usando le categorie di Hannah Arendt, che già ai suoi tempi Leopardi avvertisse come il libro da “bene durevole” si stesse trasformando in un “bene di consumo”. L’opera letteraria, che per secoli ha fatto parte dell’homo faber, con l’intensificazione della stampa, e quindi dell’industria editoriale, è stata assorbita nel ciclo dell’homo laborans, ossia nel ciclo delle cose che devono essere immediatamente divorate pena il deterioramento dell’“oggetto”. Gli oggetti d’arte, e quindi le “opere poetiche”, fatti per essere i più durevoli e stabili tra tutti gli oggetti creati dagli uomini, vengono sempre più assimilati agli oggetti prodotti per il consumo immediato.

Leopardi riflette su questo passaggio cruciale nel momento in cui assiste all’esplosione della cultura a stampa. Potrei dunque affermare che la questione s’impone nel momento in cui si assiste a un ulteriore eccesso di scrittura dovuto all’effetto diffusivo della stampa: «Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non scrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a sé, ec. (Pisa. 5 Feb. 1828» (Zibaldone, 4301). Appena qualche settimana più tardi, Leopardi scriverà all’amico Antonio Papadopoli: «Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi si affatica a pensare e a scrivere. Scrivere poi senza affaticarsi punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto, ma per me non fa, e non ci riesco» (Pisa 25 febbraio 1828).

Anch’io, in un altro luogo scrissi, tempo fa, che oramai, grazie alla diffusione della scrittura a video, il numero di autori ha surclassato, e di gran lunga, quello dei lettori. L’eccesso di scrittura anche nel nostro caso ha devitalizzato l’opera letteraria. Infatti, è sufficiente essere appena appena alfabetizzato che ognuno si sente in diritto di inondare la blogsfera con le sue composizioni. E, inoltre, come sostenevo ancora in quella riflessione, quest’invasione barbarica ha come effetto quello di velare la distinzione qualitativa tra un’opera e l’altra. Insomma, tutte le scritture finiscono con il somigliarsi. Per cui, come scriveva Leopardi, oggi come ieri, si finisce con lo scrivere per la propria cerchia di conoscenti: «Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti» (Zibaldone, 4354).

Se si scorrono alcune pagine dello Zibaldone vediamo che anche Leopardi, ben quasi due secoli ora sono, avanzava pressappoco le medesime lamentele. Vediamo cosa scriveva nello Zibaldone nell’aprile del 1827: «Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto […], di meno spesa; tanto più cresce l’eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni […] Troppo è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti» (Zibaldone, 4267-4269).

La scarsa qualità letteraria viene compensata, secondo questa osservazione, con la veste esteriore del libro. Si fanno edizioni di pregio per mascherare la scarsa qualità dell’opera. Nei Pensieri, Leopardi lamenta il fatto che i libri sono stampati più per ostentazione che non in ragione del fatto che qualcuno abbia davvero qualcosa di veramente nuovo da dire: «La sapienza economica di questo secolo si può misurare dal corso che hanno le edizioni che chiamano compatte, dove è poco il consumo della carta, e infinito quello della vista. Sebbene in difesa del risparmio della carta nei libri, si può allegare che l’usanza del secolo è che si stampi molto e che nulla si legga» [III]. I libri che si stampano, secondo Leopardi, sono “belli a vedere”, ma dannosi alla vista nella lettura.

In altri termini, la “popolarizzazione” della scrittura, tramite l’istruzione e la diffusione della stampa, ha di fatto “depopolarizzato” la letteratura. In un altro passo, Leopardi esplicita con chiarezza la dialettica tra la diffusione della scrittura e lo “svilimento della poesia”: «La poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, è il più difficile ad essere tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova» (Zibaldone, 4347). Un auspicio a cui nessuno che intende produrre opera poetica dovrebbe sottrarsi, a mio avviso.


Id: 845 Data: 29/01/2022 07:36:44

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- Filosofia

Heidegger, Kierkegaard: una questione di “fede”

Cosa unisce Martin Heidegger a Søren Aabye Kierkegaard? L’esistenzialismo, saremmo portati a pensare. Ma Heidegger, nella famosa Lettera sull’“umanismo” (1947), prende decisamente le distanze dal pensiero esistenzialista, che era divenuto, dopo la pubblicazione del breve saggio del 1946 L’esistenzialismo è un umanismo (1946) di Jean Paul Sartre, molto popolare in Francia. Allora potremmo pensare che a unire i due filosofi sia il tema dell’angoscia. A questo tema Kierkegaard aveva dedicato nel 1844 un’opera: Il concetto di angoscia. Per lo “scrittore” danese l’angoscia si presenta alla coscienza come il “puro sentimento della possibilità”. Per Heidegger l’angoscia è una “specifica tonalità emotiva” dell’esserci. Davanti al “nulla”, non quale “possibilità”, bensì quale condizione “angosciante” esiste una sola ancora di salvezza: la fede.

La fede di Abramo, in Timore e tremore (1943), non è la fede di Heidegger dei Quaderni neri (1931-1969). Sullo sfondo incombe il Numinoso di Rudolf Otto, così come viene analizzato nel saggio Il sacro (1917), una categoria «ineffabile in quanto assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale». Il Numinoso genera un sentimento di totale dipendenza: «È il sentimento di essere una creatura, il sentimento della creatura che naufraga nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che la sovrasta» (Otto, Il sacro, 24). Il “Numinoso”, dunque, ossia una totalità ineffabile, inaccessibile che comanda al “singolo” di rinunciare a sé stesso, alla propria esistenza, ai propri affetti più cari, che ordina di sacrificare sull’altare della totalità tutto ciò che ci è di più sacro, fosse anche la vita innocente del proprio figliolo, o quella di tanti innocenti uccisi in modo atroce. Alla totalità, se si ha davvero fede in essa, bisogna obbedire ciecamente, silenziosamente, in solitudine.

Chi ha fede nella totalità crede che tutto ciò che ha sacrificato sul suo altare un giorno miracolosamente gli sarà restituito. Così Abramo, questo eroe e cavaliere della fede, rispondendo alla chiamata del Numinoso, è pronto a uccidere, pur amandolo al di sopra di ogni altro bene terreno, suo figlio Isacco. È la più angosciosa delle prove che il Numinoso chiede al suo “fedele”: sacrificare quell’unico figlio ottenuto quasi per grazia al culmine degli anni. È un comando “assurdo”, che infrange ogni principio etico, ogni comandamento, ogni regola di convivenza umana: è un comando che va al di là del bene e del male.

Colui che obbedisce ciecamente e fedelmente al Numinoso è colui che sa anteporre l’obbedienza alla Totalità a qualsiasi monito, a qualsiasi altro richiamo. Colui che è pronto a ciò dev’essere in grado di far tacere la propria coscienza. Timore e tremore è una «lirica dialettica», una musica che si deve ascoltare su un doppio registro: religioso e personale. Anche Kierkegaard è pronto a sacrificare il suo amore per Regine Olsen sull’altare della Totalità, perché, come Abramo, crede che un in un tempo mutato, al di sopra del tempo ordinario, per un miracolo incomprensibile, Iddio gliela renderà. Nella sua intervista postuma, rilasciata al settimanale tedesco Der Spiegel, nel 1966, e pubblicata nell’anno della sua morte con il titolo Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, Heidegger minimizza o glissa sui suoi rapporti compromettenti con il regime nazionalsocialista. In Francia, Emmanuel Faye nel suo saggio Heidegger: l’introduzione del nazismo in filosofia (2012), ha dimostrato che non è possibile considerare l’adesione di Heidegger al nazismo come un semplice incidente di percorso, separando l’uomo dall’opera e sostenendo che in fondo il suo impegno politico nel nazismo non metteva in discussione la sua “filosofia”.

Da parte mia ho preso sul serio l’affermazione di Heidegger sul fatto che solo una Totalità ci può salvare, sì, perché, il “popolo tedesco” è quel Numinoso al quale Heidegger avrebbe obbedito ciecamente e verso il quale nutre una fede ineffabile e inaccessibile: il “popolo tedesco” è l’autentico “pastore dell’Essere”. Heidegger considera il poeta Hölderlin non «come un qualunque poeta, la cui opera gli storici della letteratura prendono in considerazione accanto a quella di molti altri. Per me Hölderlin è` il poeta che indica verso il futuro, che [aspetta] il Dio e che quindi non può restare soltanto un oggetto della Hölderlin-Forschung nel quadro di una considerazione di tipo storico-letterario».

Hölderlin e Nietzsche, secondo Heidegger, hanno posto un punto interrogativo di fronte al compito dei Tedeschi di trovare storicamente la propria essenza. Heidegger, come afferma nella citata intervista, è convinto che «solo a partire dallo stesso luogo del mondo nel quale è sorto il moderno mondo tecnico, possa prepararsi anche un rovesciamento (Umkehr), e che esso non può avere luogo tramite l’assunzione del buddhismo zen o di altre esperienze orientali del mondo. Per cambiare modo di pensare è necessario l’aiuto della tradizione europea e di una sua riappropriazione. Il pensiero viene modificato solo da quel pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione». Ai tedeschi, insomma, secondo Heidegger, è affidata una missione. E a chi obietta che questa sia una visione “provinciale”, Heidegger risponde: «Lei definirebbe il pensiero greco in contrapposizione al modo di rappresentazione caratteristico dell’impero universale romano come “provinciale”?».

La migliore definizione di che cosa sia il nazionalsocialismo credo che l’abbia data lo stesso Hitler: «La capacità del singolo di sacrificarsi per la totalità, per i suoi simili» (A. Hitler, Mein Kamp, p. 347). Ha un bel dire Donatella Di Cesare nel suo saggio Heidegger & Sons 2015 quando riflette sull’eredità e sul futuro di un filosofo che occorre pensare con Heidegger contro Heidegger. No, io credo che bisogna pensare Heidegger alla luce della Totalità, di una Totalità numinosa che si nasconde dietro il cosiddetto “Spirito tedesco”. Anche il mistico Heidegger aveva fede nel fatto che un giorno al popolo tedesco sarebbe stata “miracolosamente” restituita la sua missione, quella di guidare i popoli a oltrepassare il mondo della tecnica. Se i sovietici e gli americani hanno vinto il Terzo Reich è perché il popolo tedesco non ha obbedito ciecamente al suo Destino, alla sua Totalità. Ecco la fede assurda nella quale occorre credere, ed ecco quale Dio ormai può salvarci. I filosofi si lasciano facilmente abbagliare dal fascino delle parole. È vero: la filosofia senza il linguaggio non potrebbe esistere, ma neanche il mondo potrebbe porsi senza il linguaggio. E Heidegger rappresenta il filosofo che meglio di tutti più di tutti ha saputo “civettare” con il linguaggio. Heidegger rappresenta per l’Occidente moderno ciò che Platone fu per l’Occidente cristianizzato. Oltrepassare Platone è stato il compito della filosofia nicciana. A quale filosofia dell’avvenire spetterà il compito di oltrepassare Heidegger e ogni fede mistica nella Totalità?


Id: 838 Data: 16/01/2022 10:17:03