I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
- Letteratura
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
(Omaggio ad Amelia Rosselli) È la domanda che brucia sulle labbra della Saffo di Leopardi, ma è la domanda che brucia sulle labbra di ogni uomo, di fronte alle avversità della vita, all’ingiustizia e alla sofferenza che lo colpiscono, all’esclusione dalla felicità a cui si vede condannato, all’irrazionalità delle cose, a cui sa trovare una sola risposta: una colpa deve averlo macchiato prima ancora che nascesse, un peccato originale per il quale non può esserci redenzione o perdono. Quando un tale drammatico interrogativo passa dalla voce dell’uomo comune, a quella del poeta, si crea una condizione d’animo di estrema contemplazione del male esistenziale, che solo la poesia riesce a trasformare in accenti universali di dolore. È quello che accade nell’Ultimo canto di Saffo, ma è anche quello che accade nelle liriche di Amelia Rosselli. Lo scopre mirabilmente Giulio Ferroni, che in Passioni del Novecento, analizza la “vita perduta” della Rosselli e ne evidenzia le linee di fuga, di distanza e di estraneità dal mondo, assai vicine a quelle leopardiane. “È la sola poesia italiana –spiega il critico – che ha avuto l’audacia, il coraggio, la forza di tentare un’ inaudita risposta alla domanda terribile della Saffo di Leopardi” Cara vita che mi sei andata perduta con te avrei fatto faville se solo tu non fossi andata perduta ( da Documento) Sono versi che sembrano vagheggiare un altrove, un’altra vita perduta, una vita che si identifica soltanto con la poesia. Sulla inquietudine della Saffo leopardiana, che dinnanzi alla placida notte e al verecondo raggio della cadente luna, traccia un bilancio, a ciglio asciutto, della sua esistenza, sentendosi rifiutata dalla bellezza della natura, invisa agli dei e vittima del cieco dispensator dei casi, si è molto parlato e ragionato da parte dei più illustri critici e letterati, ma sull’impossibilità di vivere di questa nostra dolce poetessa del Novecento, chiusa nel suo mondo interiore, pur colmo, di generosa disposizione ad amare e di intenso desiderio di essere amata, poco si è approfondito il discorso. Si continua a piangere e a commiserare la sua morte, anche da parte di chi l’ha conosciuta, ma non si comprende come ci sia un’incredibile coerenza tra la sua scelta di morire e la vita cantata e rimpianta nella sua poesia, una poesia che, come dice il Ferroni, “ mette in scena un io costretto a lottare qui, ad essere nel mondo….pur essendo effettivamente altrove, pur abitando un altro linguaggio”. Ed è appunto nel singolarissimo linguaggio della Rosselli che va ricercato il suo spirito poetico, perché alla parola e alla lingua ella ha interamente affidato il tentativo di ricostruire la sua vita e di includere la sua esistenza in quel mondo da cui si sentiva esclusa. Cambiare la prosa del mondo, il suo orologio intatto, quel nostro incorniciare le giostre faticose di baci Hai inventato di nuovo la luna, è una povera isola ti chiama con contingenza disperata imbastardita dalle lunghe cene. (da Appunti sparsi e persi) Le linee della realtà, non sono intatte per la Rosselli, l’orologio del mondo non è preciso, una lacerazione profonda ha diviso e frantumato per sempre, nella mente della poetessa, l’unità dell’essere e le ha reso impossibile tessere intorno a sé una trama comprensibile e decifrabile dell’esistenza, in cui i rapporti umani possano avere ciascuno il posto giusto, aderendo perfettamente alla sfera affettiva, in un reciproco scambio di valori e di intese. Qualcosa dell’ingranaggio è saltato a monte, (torniamo alla colpa iniziale) e non ha consentito la lettura del mondo, se non attraverso il linguaggio “altro” della poesia. Destabilizzati i ritmi del vivere e non semplicemente da vicende personali e familiari drammatiche, ma da quella visione interna più esigente di luce, che nell’animo dei poeti spesso s’ instaura, la Rosselli ha dovuto ricreare questi ritmi, riappropriarsi delle chiavi di lettura e dei codici dell’universo e lo ha fatto dedicandosi con cura inesauribile, quasi maniacale, al linguaggio poetico, cercando di incardinare e coagulare, nella parola e nella metrica, il pensiero, mai sistematico, ma irregolare, anche se vigoroso, che accompagna costantemente il guizzo della sua ispirazione. Ha restituito, così, un ritmo a quella realtà perduta a cui sentiva di non appartenere, a quella vita perduta, che sentiva di non avere avuto e, in tal modo, lei che non ha saputo mai tenere il controllo sulla quotidianità del presente, ha tenuto invece il controllo costante dello scorrere del tempo nella poesia, ricreandone una scansione mentale, che si afferma e presiede sul ritmo fonosillabico. L’alba si presentò sbracciata e impudica; io la cinsi di alloro da poeta: ella si risvegliò lattante, latitante. L’amore era un gioco instabile; un gioco di fonosillabe. ( da Variazioni belliche) Il dominio della scrittura è indubbio e le consente il dominio dei propri sentimenti, almeno nel breve spazio della poesia. La poetessa può così rallentare cadute rovinose, accelerare la sua corsa, i suoi aneliti all’amore, fermarsi o ripartire verso il ritrovamento di un presente perduto, come leggiamo in alcuni versi tratti da Documento: Blu nel vetro, una persona che pensa avere tenuto duro dieci giorni contando con le mani che oramai annaspavano l’alluminio scomparendo dai tetti d’auto reperibilità del tempo perduto vaticinando quel tuo presente sempre irreperibile, uncinando il grottesco gesto della confessione. Si noti il gioco ad incastro dei termini “reperibilità” e “irreperibile” che si annullano a vicenda, dando il senso del tempo perduto, proiettato nella scrittura e restituito attraverso di essa. Pure, nella ricostruzione ritmica del tempo perduto la Rosselli prende coscienza delle sue continue perdite, delle occasioni mancate, del permanere delle angosce e persino dell’insufficienza della parola e dell’incapacità di dire. Tanto più però lavora sulla lingua fino a giungere ad alcuni prodigi, come in questa lirica che segue: La passione mi divorò giustamente la passione mi divise fortemente la passione mi ricondusse saggiamente io saggiamente mi ricondussi alla passione saggistica, principiante nell’oscuro bosco d’un noioso dovere, e la passione che bruciava nel sedere a tavola con i grandi senza passione o volendola dimenticare io che bruciavo di passione estinta la passione nel bruciare io che bruciavo di dolore, nel vedere la passione così estinta. Estinguere la passione bramosa! Distinguere la passione dal vero bramare la passione estinta estinguere tutto quel che è estinguere tutto ciò che rima con è: estinguere me, la passione ( da Documento) Qui non siamo di fronte ad un sapiente gioco linguistico, o ad un abile virtuosismo fonosillabico, ma ad una disperata tensione emotiva, che si sfoga e si scarica tramite un convulso ritorno sulle parole che, in un’ossessione ininterrotta, bombardano la mente della poetessa, costringendola a concentrarsi sul fuoco che la divora dall’interno e che via via si identifica con la sua vera natura: è ella stessa la passione. Il rincorrersi dei verbi, tutti appartenenti al medesimo campo semantico, bruciare, estinguere, distinguere, accelera l’incalzare del ritmo, creando un climax ascendente che culmina nella parola, iniziale e conclusiva, del cerchio poetico, segnando l’incipit, ma anche la fine della lirica: “passione”. Qual fallo, dunque quale nefando eccesso, macchiò la poetessa? Saffo lo sapeva e lo identificava con la sua esclusione dalla bellezza del creato e con l’impossibilità di raggiungere l’amore. Questa Saffo moderna, che è la Rosselli, conosceva la colpa originale, l’eccesso che la vita non le perdonava e ha reagito proiettandosi nella scrittura e donandosi completamente alla poesia, come stravolgimento di sé e delle cose, come unico futuro possibile e unico riscatto dall’eccesso iniziale che l’aveva tagliata fuori da quel mondo di amore che lei aveva sempre desiderato. E che l’amore sia il tema centrale della poesia di Amelia è evidente in Variazioni belliche, forse il suo capolavoro, dove il canto poetico è un perpetuo inseguimento dell’amore, un’inutile tentativo di difesa dagli agguati e dai tradimenti, un incessante anelito e un continuo stato di lotta, in un alternarsi di “variazioni”che impietosamente mettono a nudo l’io, lo pongono contro se stesso, lo lacerano, facendone emergere tutto il dolore nascosto. o mio fiato che corri lungo le sponde dove l’infinito mare congiunge braccio di terra concava marina, guarda la triste penisola anelare: guarda il moto del cuore farsi tufo, e le pietre spuntate sfinirsi al flutto. Il lettore può avvertire in questi accenti, colmi di pathos, la forza simbolica delle immagini, nelle quali è interamente trasferito il dolore della poetessa. E ancora si leggano i versi seguenti, in cui una trama di “se” introduce periodi ipotetici della realtà, che si succedono freneticamente, in un discorso franto e scardinato sintatticamente, ma sorretto da una lucida logica interna: Se l’anima perde il suo dono allora perde terreno, se l’inferno è una cosa certa, allora l’Abissinia della mia anima rinasce. Se l’alba decide di morire, allora il fiume delle nostre lacrime si allarga, e la voce di Dio rimane contemplata. Se l’anima è la ritrosia dei sensi, allora l’amore è una scienza che cade al primo venuto. Se l’anima vende il suo bagaglio allora l’inchiostro è un paradiso. Se l’anima scende dal suo gradino, la terra muore. Nessuna scienza ha potuto sottrarre l’essere umano dal fallo che lo macchiò anzi il natale, nessuna scienza ha potuto liberare la Rosselli dal nefando eccesso di vivere per amare, per questo lei ha fatto ricorso alla scrittura e ha trovato nella poesia la liberazione. Non si capirebbe però, fino in fondo la sua opera, se non si richiamassero le fortissime implicazioni che in essa ha la musica, agendo sulla creatività poetica non soltanto come costante correttore, ma anche come inevitabile filtro di tutta la materia verbale. Lei stessa dichiarò nella premessa all’Antologia poetica pubblicata nell’87: “Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai scisso in realtà le due discipline, considerando la sillaba, non solo come nesso ortografico, ma anche come suono e il periodo non solo un costrutto grammaticale, ma anche un sistema”. Non v’è dubbio che i lunghi studi musicali, che la portarono ad essere compositrice ed esecutrice, abbiano lasciato in lei un segno indelebile, destinato a rimanere dato costitutivo della sua poesia. Non va nemmeno tralasciato il lungo esercizio di traduttrice, svolto dalla Rosselli, come lavoro, unitamente alla consulenza editoriale, che le diede una vasta possibilità di frequentazione di autori stranieri e di giocare ampiamente con la sua grande padronanza del francese e dell’inglese. Pasolini, la definì “apolide”, come carattere positivo della sua personalità, e certo il suo aver vissuto molto tempo, oltre che in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, le consentì di legarsi ad altre tradizioni culturali, quella surrealista francese e quella metafisica anglosassone, che contribuirono a fare di lei un’irregolare e un fenomeno unico nel panorama letterario italiano. Sebbene abbia preso parte al movimento dell’avanguardia sperimentale del ’63, insieme a tanti poeti della sua generazione degli anni trenta, lo sperimentalismo non è mai divenuto nella sua produzione, elemento cospicuo e prioritario, anzi, la sua scelta fu sempre indirizzata, piuttosto che al suono e alla trasgressione, alla tensione emotiva da cui il linguaggio doveva nascere. Leggendo i suoi versi, il pensiero corre ad Emily Dickinson, a quella voce così colma d’oblio della vita, così pervasa di stupore per le cose, così ardente d’amore. Ma la coordinata più vera tra la Rosselli e la Dickinson è la minuziosa scrittura poetica, lo sforzo di ricomporre e ricostruire, mediante la scrittura, una realtà incomprensibile, quasi a voler rifare un’autobiografia, un diario, restituendo valore e accettabilità alla quotidianità orrida e banale. La Rosselli visse la poesia, come sostiene il Mengaldo, “come abbandono al flusso buio e labirintico della vita psichica e dell’immaginario”in cui qualsiasi contenuto si affacciasse, si dilatava e si trasformava, abolendo i confini tra l’interiorità e l’esterno (l’altro da sé). A sorreggere la composizione poetica di Amelia c’è sempre il pensiero e a scandire il pensiero c’è sempre un tempo “psicologico musicale ed istintivo”, secondo quanto lei stessa affermò (in Antologia poetica ). La poesia avanza con intermittenze, frammentazioni, arresti improvvisi e riprese, con frequenti lapsus, con quella “continuità a singhiozzo”, che l’autrice si riconosceva, nel tentativo inesauribile di costituirsi uno spazio d’esistenza e in una disperata volontà di colloquio. Tale volontà di colloquio, o meglio volontà di tradurre il monologo interiore in colloquio, dà luogo a volte a raggruppamenti di strofe quasi aforistiche, assertive di una visione della realtà, in un contrappunto di immagini, che scandiscono la percezione delle cose esterne, sottraendole al loro spazio effettivo e ricollocandole in uno spazio ideale e fantastico. I fiori vengono in dono e poi si dilatano una sorveglianza acuta li silenzia non stancarsi mai dei doni …………………………… La speranza è un danno forse definitivo le monete risuonano crude nel marmo della mano. …………………………… Mi truccai a prete della poesia ma ero morta alla vita le viscere che si perdono in un tafferuglio ne muori spazzato via dalla scienza Il mondo è sottile e piano: pochi elefanti vi girano ottusi. (Documento) Si noti l’uso particolarissimo del verbo silenzia, si noti quel marmo della mano, termine che conferisce immediato rilievo all’immagine e la isola in forma scultorea, si noti quel riferimento grottesco alla sua custodia della poesia, mi truccai da prete, espressione altamente ironica e forte, ma che rende la dimensione religiosa avvertita dalla poetessa, si noti l’apparizione della morte, ero morta alla vita, infine la sproporzione tra la sottigliezza del mondo e l’ironia degli elefanti ottusi. Alla poesia è affidato il ritmo quotidiano della vita, essa celebra un rito che si compie comunque, perennemente insidiato dalla morte, di cui la Rosselli avverte di continuo l’insidia, ma anche il richiamo, (si pensi al Dialogo con i morti, contenuto in Documento, in cui ella come figlia invoca i suoi morti, perché l’accolgano). Ma è tempo di concludere questo breve omaggio ad Amelia Rosselli, consegnandone la poesia alla memoria storica, con l’auspicio che uno studio critico completo ed esauriente venga finalmente realizzato su quest’opera non ancora sufficientemente esplorata. Noi vogliamo ricordarla così, nella sua veste quasi oracolare, mentre protesa in una suprema richiesta d’amore, scrive questi bellissimi versi: Perdonatemi perdonatemi perdonatemi vi amo, vi avrei amato, vi amo ho per voi l’amore più sorpreso più sorpreso che si possa immaginare.
Id: 284 Data: 03/05/2012 19:03:50
*
- Letteratura
Lo scoiattolo e lermellino di Giulia Perroni
LO SCOIATTOLO E L’ERMELLINO Di Giulia Perroni
Quando la poesia si fa luce, quando dovunque si posi lo sguardo del poeta riesce a cogliere la realtà poeticamente, quando tutta la vita entra in un cerchio poetico e diviene parola cantabile, siamo alla presenza di un dono che qualcuno possiede, avendolo ricevuto dalla natura e che a sua volta sa trasmettere agli altri. E’ il caso di Giulia Perroni, che tutto ciò che guarda, tocca o sente, trasforma in parole e include in un universo poetico che per lei è l’unico universo possibile, entro il quale soltanto sa orientarsi e muoversi. Il che è testimoniato molto bene dalla sua ultima silloge che appare con questo titolo intrigante Lo scoiattolo e l’ermellino, sottolineato ancor più in copertina dai particolari di due quadri famosi (di A. Mignon e di Leonardo da Vinci), tali da offrire lo spunto all’ottimo critico Di Stasi, di fare in postfazione, un’arguta congettura. Il libro è percorso sin dall’incipit da un innegabile dinamismo, da un movimento interno che inizia con la sezione dal titolo Ho camminato in pace e termina con Viaggio negli stretti e di un autentico viaggio si tratta, compiuto dall’autrice entro di sé, attraverso una memoria dei luoghi ove ha vissuto, delle persone incontrate, della natura e delle cose scoperte attraversando l’esistenza, momento per momento. Lungo questo interminabile percorso si compongono e si vengono raffigurando alcuni temi fondamentali, che condensano la riflessione del poeta e la irraggiano in molteplici direzioni. Innanzi tutto vi è il giardino, figura centrale, immagine di una natura partecipe del miracolo della vita , di fronte alla quale il poeta si stupisce di continuo e scruta anche dal punto di vista del mondo animale, ciò che accade intorno, celebrando l’ascolto di ciò che la natura stessa sussurra, in una forma quasi di panismo cristiano. Si legga in merito proprio la lirica che dà il titolo al libro: Lo scoiattolo e l’ermellino /danzano i fuochi del loro cammino). Nel giardino tutto si rinnova e ciò che muore rinasce, in un ciclo di vita inesauribile in cui ogni essere è coinvolto e il tempo, grande unità di misura di questa poesia, si dispiega con stagioni che alternandosi, pure ne segnano la continuità. Un'altra figura essenziale è quella del padre, attorno al quale si concentra il tema dell’infanzia, della tradizione familiare e della terra di Sicilia , ove il passato, il presente e il futuro si incontrano per sempre. Inoltre si affacciano i grandi temi sociali, relativi alla donna, nella sua perenne ricerca di parità di diritti , specie in oriente, o al lavoro, con le tragedie delle morti bianche, agli emigrati e alla loro mancanza di integrazione, il tutto governato e condotto da una pietas che non ha età e che si diffonde dai versi, senza mai dar luogo ad abbandoni patetici. Nelle varie sezioni si assiste a tratti quasi ad un andamento biblico, come se l’autrice volesse rifondare un libro della Genesi ( e l’inizio fu donna/ fu maestrale/….la teologia era maschio…) e ricostituire una logicità dei processi esistenziali, ritrovando quella fede e quella religiosità di cui avverte una sete profonda. Non a caso Gesù è una delle figure portanti di questo testo, spiato nella sua sofferenza, seguito nel suo itinerario di morte e di resurrezione, cercato per la sua parola consolatrice. E ancora, i miti sono l’altro referente, primo tra i quali, quello di Medea; la cultura classica, del resto, fa parte della formazione dell’autrice e ne costituisce anzi, la base ineludibile da cui partire, una sorta di lente per vedere il mondo e nobilitarlo ritrovando gli archetipi di ogni evento e di ogni atteggiamento umano, nella quotidianità ordinaria. Si snoda dunque un lungo discorso narrativo, frantumato in frequenti e brevi flashes e governato dalla vigile attenzione della Perroni che nell’introdurre ogni elemento nel suo orizzonte poetico, stempera colori, armonizza suoni, sfuma immagini, realizzando un’armonia compositiva singolare, in cui la luce si fonde perfettamente con il ritmo fluente del verso. Anafore, assonanze, enjambements si succedono spontaneamente producendo dall’interno una musicalità inconfondibile e accentuando la cantabilità delle parole. Persino nei titoli di alcune sezioni si vagheggia la musica, come in “Menestrelli intangibili”, o in “Minuetti d’ombra”. Si leggano questi versi:
Gelide folate dei venti menestrelli intangibili l’occhio seduce il contemplante andare delle notti bellissime richiamano le luci un orchestrare di candele e di stelle e l’uomo ancora che non sa baciare si inginocchia ed ascolta E ancora:
Da sotto la porta squillava la luna con la bretella di fuoco dei sospiri canti sommessi d’acqua pali e fiori sollevati dai mondi.
Oppure:
Quando viene la musica Gli animali girano il capo Un pifferaio malefico conduce Flotte di nubi in seno alla campagna Dove tutto è dolcezza.
C’è un ritmo spirituale in questa poesia che ricorda i Gitanjali di Tagore, per la sacralità che la pervade, per l’atmosfera rarefatta e assorta che intorno ai momenti della natura, l’autrice riesce a creare. Ma proseguendo il tragitto in questo libro, che è una sorta di diario di vita, in cui ogni istante è rivissuto poeticamente e quindi immesso in un equilibrio esistenziale che è sostanzialmente ordine, ci accorgiamo che ogni incontro con gli altri viene riscoperto secondo un’ottica di riconoscimento dei doni ricevuti e viene quindi rievocato come speciale evento. I poeti personalmente conosciuti come Bertolucci e Pasolini, presenti nella sezione Fiume di cobalto, o gli amici a cui sono dedicate nella sezione Quando Narciso si specchia, alcune liriche, rientrano nella elargizione di doni che il poeta sente di aver avuto e una dichiarazione ( della sezione di Narciso) in particolare fa da spia:
C’è un momento in cui andiamo verso il cielo sciolti da ogni legame ma per tenere fermo l’ancoraggio ai forti doni che ne costituiscono il destino.
In questo cammino guidato dall’ansia di approdare alla serenità della coscienza, alla certezza dell’assoluto e ad una comunicazione universale con la natura e con gli altri, ogni elemento acquista senso attraverso la poesia, come se il dito del poeta toccando le cose, le restituisse al loro valore primigenio e le autenticasse nel loro flusso vitale eterno.
Il poeta abita una casa che il teologo non intende la casa del poeta ha tante aperture e tutte contrastanti perché il vento risusciti dall’androne le colonne delle finestre
La casa del poeta è la sua mente che non ha orizzonti imposti, ma liberi, ove l’universo può entrare, divenire poesia ed abitare per sempre. La Perroni riempie questa casa di natura e di persone, dissemina fiori d’ogni tipo ( che entrano nei versi col loro profumo), vi fa rientrare gli eventi tragici della cronaca e li emenda con la sua pietas , compie un viaggio ininterrotto nel passato e le sue stanze si popolano di memorie che il passato congiungono col presente e infine ritrova intatto il desiderio di abitare la terra come un giardino, l’unico giardino possibile, dove le nostre anime possano crescere e salvarsi.
Quel giardino è rimasto nel cuore come l’unica possibilità di salvezza prima che Adamo fuggisse con la sua compagna triste prima che la storia degli uomini offuscasse l’altissimo silenzio che abita tra le montagne e il mare.
Anna Maria Vanalesti
Id: 74 Data: 04/05/2010 10:50:07
*
- Letteratura
La Fabula di Silvia Martufi
FABULA di SILVIA MARTUFI
Fabula è un titolo che annuncia una mappa da seguire, un viaggio leggendario, antico, iniziato da lontano e che prosegue e si ripete da sempre, ogni volta che la parola gli dà voce, una parola poetica che per sua stessa natura è un “fare” interminabile e continuo. Per un poeta come Silvia Martufi, tra l’altro analista junghiana, il passato ancestrale dell’essere umano e l’inconscio collettivo, ritornano nella poesia, perché la poesia non ha tempo, i poeti sono diversi, ma la voce è la medesima, che parla o canta, al di là di ogni barriera e rinnova il prodigio della favola eterna dell’uomo, fatta di amori, di partenze, di ritorni, di addii, di ritrovamenti, di viaggi verso se stessi e verso l’altro da sé. Il sé, punto centrale della personalità, è il punto da cui inizia il viaggio, ma anche il fine e lo scopo di esso. L’io si adatta gradualmente alle richieste esterne e ai bisogni dell’inconscio e delira, tra immaginazione e pensiero, in un racconto poetico che ha la pretesa di riannodare i fili col passato e mantenerli ben tesi col futuro. Il passato sono gli dei e gli eroi, il presente sono gli uomini che vorrebbero essere eroi e guardano agli dei per assomigliare loro. La Martufi coglie il momento dello stretto rapporto tra mito e storia e incanala la sua poesia in quella che Ungaretti definiva “l’intermittenza del cuore”, collocandosi come la voce che raccoglie l’eredità mitologica e, sfrondandola del vero e del falso, la trasforma in leggenda moderna, da fare propria e da autenticare nella vita vissuta. Innanzitutto c’è la riscoperta degli dei, che è in fondo l’aspirazione al divino, ad un divino che significa “potenza” e “onnipotenza” e che tuttavia cerca di farsi umano. Si spiega il richiamo frequente ad Omero, ma anche alla Bibbia e ad un’opera di biblica attualità e di nuova mitologia, come i Dialoghi con Leucò pavesiani. C’è poi la visione degli eroi e quella degli uomini: i primi altro non sono che esseri mortali legati ad avvenimenti divenuti leggendari e che quindi mostrano di avere elementi di divinità, per ciò che hanno fatto e compiuto; i secondi, gli uomini, non fanno che imitare i modelli degli eroi, modelli per ciò stesso divini. Dei, eroi e uomini sono la stessa cosa e sin dalle origini dell’esistenza, ripetono la medesima ricerca. Il viaggio della Martufi, è viaggio della coscienza, che muove da una luna turca , vista quasi di sghembo e si dispiega man mano tra luminescenze di ricordi di viaggi, realmente avvenuti, tra sogno e realtà, tra leggenda e verità. Il racconto fantastico accompagna la nave che viaggia, su cui s’ intravede la figura degli sposi, degli amanti che si cercano, mentre si centralizza sempre di più il tema dell’amore, come solo alveo riconoscibile della coscienza. Con incredibile lucidità l’autrice sposta continuamente la sua energia psichica, da un processo primitivo e istintivo che investe Ulisse e l’universo omerico, ad un processo attuale, spirituale e culturale, che investe il suo io, ma di conseguenza il nostro io di lettori. L’attenzione del poeta va ai respiri, ai sussulti, ai segni, in un procedimento analitico ( certo di stampo junghiano), in cui lo sguardo cattura tutto ciò che sta intorno e lo inserisce in una Koinè sintattica, in cui le immagini si fondono direttamente con i suoni, non solo attraverso l’invenzione di singolari sinestesie, ma in un precipitarsi torrentizio di azioni verbali concatenate. A volte gli uomini sono naufraghi che vogliono somigliare agli eroi e avvertono il peso della loro debolezza, o il senso spropositato del loro limite. Gli uomini sono l’urlo e il silenzio/ di notte, e poi sono gli amanti che danno ancora/ a mani spiegate del mare/ al mare. Ed è appunto il mare la grande presenza in questo poemetto, sia perché eterna metafora della vita, sia perché elemento vitale per il viaggio da compiere. Il controcanto tra eroi, dei e uomini, continua e nel viaggio affiorano ricordi della giovinezza, si evidenziano un “nord” e un “sud” nelle intenzioni del poeta, un sud che prevarica il nord, e che è una riduzione, un azzeramento della volontà, ma anche un riconoscere l’autenticità dei propri desideri, soprattutto del desiderio di pace e del desiderio di amare. La fabula prende corpo via via e nel farsi consapevole della vaghezza dell’essere e dell’amore mai pago, restituisce la sua matrice antica e leggendaria al poeta, che sa custodirla (triste vaghezza dell’essere/che prelude all’amore mai pago) Compaiono figure mitiche, come Dioniso, il dio dell’ebrezza, contadino e capro, e Glauco, il pescatore mutato in dio marino: due esempi di uomini- dei e viceversa. L’uomo cerca Dio, chiama l’amore col nome di Dio, l’ignoto è per lui Dio, secondo il motivo junghiano che diviene motivo poetico, in un furente accavallarsi di parole e verbi come in questi versi, colmi di inquietudine: il ritorno e il raccoglimento/la pace e la sete di domande infinite/le infinite risposte che potrei dare/che non voglio dareche non so dare/amore. E nella fabula prende corpo l’antica figura della donna amante e madre, Elettra, che nella lirica XII diventa protagonista del viaggio, in una sequenza lunghissima di momenti ed eventi dolorosi e faticosi, che sfiora la tecnica dell’accumulo, senza mai perdere di vista la vigile attesa perché si avveri una pace amorosa. L’amore è lotta ed è fatica, ma tende al raggiungimento di un rifugio, che solo il ritorno, concepito come memoria, può offrire. La Martufi riesce a cogliere la tensione verso la ricerca del riparo e del rifugio tramite il ricordo e il simbolo memoriale si incarna nell’oggetto rappresentato, attraverso la poetica invenzione di espressioni come trafittura di lago, navigata sensazione, fiotto d’amore. Si avvertono al fondo di questa poesia colta, citazioni classiche che trasalgono spontanee, da Omero e Dante, poeti dei quali l’autrice coniuga e fa sue, la potente immaginazione e l’alta fantasia, cercando sempre di risalire agli archetipi della fabula che sta trascrivendo, ai valori ancestrali di essa, come nella lirica intitolata “Dal sale”, in cui questo elemento viene visto “purificante”. Si crea un’atmosfera onirica, notturna, lunare, intorno alla donna-poeta, che vaga maldestra incubatrice di sogni, nel tentativo di riappropriarsi dell’esistenza e di capirne il senso. Così anche nelle due liriche dal titolo “Terra” e “Ombra”, nelle quali è inseguita la vicenda dell’anima, dietro una certa rimembranza buddista, collegata al simbolo della vita umana, che è l’albero. Il mare è onnipresente, la navigazione è inarrestabile sulla rotta dell’amore: questi in definitiva i grandi temi della poesia della Martufi, intorno ai quali si avvitano segni, dialoghi, ponti, mentre il viaggio del poeta diventa sempre di più il viaggio di Ulisse e l’attesa è quella di Penelope, di una ricongiunzione, che è riconciliazione tra l’umano e il divino. Dalla lirica XXI in poi è tutto un gioco d’amore: l’amata si sente chiamare, ma fugge e si susseguono albe, tramonti e notti, tra ripensamenti e conflitti, nella vana e disperata ansia di rendere eterni il possesso e la vita, l’amore e l’amato. E’ inevitabile che si affacci l’ombra della morte, minaccia perenne, contaminazione di precarietà, rispetto alla quale gli interrogativi si affollano, rimanendo senza risposta e lasciando l’amarezza di non poter mai riuscire a spiegare la perdita, né l’assenza della persona cara. Si muore senza sapere perché e le cose tutte finiscono senza che se ne comprenda la ragione. Così nella lirica “Sopravvenire” si effonde la malinconia intorno agli arcani che restano irrisolti, ma non meno malinconici sono gli accenti delle liriche in cui si affronta il tema del dolore, inevitabilmente congiunto a quello dell’amore, o comunque degli affetti vitali ( si legga ad esempio la lirica XXIV ove è accennata, ma intensamente, la perdita del padre). I rimandi all’ Odissea e all’Iliade fanno da controcanto al dramma amoroso di Ulisse e Penelope e di Ettore e Andromaca. Si rinnova il rispecchiamento tra la forza della donna e la forza delle eroine mitiche, in una contemplazione senza fine del ciclo della vita la vita che è sole e luna, la vita che è vita di sole e luna e fiore, come dice il poeta. A questo punto del poemetto si disegna l’Olimpo come utopia preferita degli uomini, nel loro sforzo di avvicinarsi agli Dei. Molte cose li accomunano, come la gelosia che può divenire odio e rivoltarsi contro l’essere amato, ne sono testimoni le figure di Medea e Giasone, inalterabili icone della furia e della vendetta amorosa. Ormai tutti i tratti dell’amore sono stati attraversati nel libro e alla fine la poesia si popola di figure fiabesche, elfi e fate; in realtà è la stessa parola poetica che è giunta al termine della sua avventura e della sua fabula. Fa testo la lirica XXXVII ove il poeta appare marinaio senza onda, la cui barca naviga sopra sospiri e l’amore è sempre la rotta e la meta, sebbene rimanga ignoto anche al termine del viaggio. L’ansia di pace e di riposo e l’incertezza dell’approdo si esprimono sull’eco di memorie millenarie, di amplessi mai esauriti, di ricongiunzioni mai appagate. L’insidia della gelosia è ancora in agguato, ed è mistero ogni spostamento dell’essere amato, per cui l’anima assetata diviene esausta nell’attesa. Ma proprio in questo è la sua essenza, come avverte Jung che “se non realizziamo l’essenza che incarniamo, la vita è sprecata”. Il libro, e quindi il viaggio, si chiude con un desiderio acutissimo di nascondersi al tutto, di essere protetti da un invisibile velo di oblio, come Enea fu protetto dal peplo bianco di Afrodite. Stupenda metafora di questo peplo di protezione è la neve che nell’ultima lirica, copre ogni cosa in un disincanto senza fine, la neve vista come “morbida impossibilità” che accarezza la vita. La fabula si è conclusa, la parola ha terminato il suo iter a spirale, partendo dal remoto tempo del mito e attraversando la storia degli uomini, che è anche storia di eroi e di dei, nell’inappagata ma persistente ricerca di trovare se stessi, l’amore e nell’amore il proprio Dio. Straordinaria avventura poetica di Silvia Martufi, approdata da lontani e iniziali abbrivi di poesia argomentata sul tempo e sulle stagioni della vita, ad una fabula ampia e complessa del viaggio dell’uomo.
ANNA MARIA VANALESTI
Id: 68 Data: 22/01/2010 14:42:56
|