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Raccolta di saggi di Adolfo Sergio Omodeo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Psicologia

I mangiatori di loto

 

I MANGIATORI DI LOTO

 

 

 

Accade al fumatore di hashish di avvertire sensazioni varie e complesse, piacevoli o no: a volte una liberatoria esigenza di sputare, a volte nausea, spesso fame impellente, per lo più di dolci inzuppati, la tipica fame da sballo con cui si spera di compensare lo squilibrio fisiologico.

 

Queste reazioni hanno origine psicologica analoga: infatti l’hashish induce una sensazione fisica di benessere, calore, rilassamento che uno psicanalista considererebbe regressiva a esperienze della prima infanzia, rievocate sia piacevolmente sia angosciosamente suscitando delle difese. (Stafford sul tema nota il sottile piacere ipocondriaco attivato dai disturbi fisiologici dell’hashish). Così si possono avere anche regressioni conflittuali: chi nel relax del fumo teme la madre cattiva o chi per sensi di colpa mal tollererebbe un’esperienza piacevole, la svia evocando nausea e mal di testa. Infine lo sputare risulta il modo simbolico con cui ci si libera con sollievo di tutte le tensioni negative per meglio godere lo sballo.

 

Il Rose, neurofisiologo attento alle prospettive della droga, riferisce che i gatti e altri animali sono soggetti a fame e incertezze motorie dopo l’assunzione di hashish. Ciò lascerebbe pensare a un rapporto neurologico diretto dell’hashish sul sistema neurosimpatico, tuttavia pochi animali come i gatti sono terribili ladri di hashish e d’altronde regrediscono ad atteggiamenti da cuccioli allattati appena stimolati piacevolmente.

 

Sappiamo dalla psicanalisi kleiniana che la visione infantile della mamma è ben conflittuale: da un lato la madre buona che nel nostro caso dà spunto alla regressione delle zuppette, legata ad esperienze gratificanti dell’allattamento; d’altro lato la madre cattiva e punitiva che favorisce sensi di colpa e induce il rifiuto alimentare. L’etologia traccia ormai parallelamente correlazioni tra imprinting alimentari, scelte sessuali ed esperienze precoci. Spesso il fumo favorisce l’intesa tra amici. Nei rapporti tesi, il fumo diviene un rito coatto, come il vino imposto nel gioco della passatella, quando sembrerebbe adatto dire “Signore se è possibile allontana da me questo calice”. Il fumatore solitario dal canto suo vivrà pensieri ed emozioni piacevoli o spiacevoli a seconda della situazione. E’ peraltro stata notata la capacità dell’ hashish di ravvivare - anzi dar vita - a immagini, foto e ricordi, soprattutto erotici.

 

 

Dis/gusto

Le sensazioni dell’eroina, più ancora di quelle del fumo, suscitano complesse regressioni. Il flash è una repentina ondata di calore e di sensazioni spesso paragonate all’orgasmo, sembra attribuibile ad una facilitazione circolatoria analoga a quella suscitata da tecniche di rilassamento; segue a volte un vomito liberatorio e l’esigenza di grattarsi.

 

Si passa poi ad uno stato di contemplazione attenta che solo dall’esterno somiglia al sonno. Il benessere fisico tanto celebrato e criticato come illusorio, oltre a sensazioni di dormiveglia e di post orgasmo, favorisce sensazioni interne viscerali che spesso inducono un progressivo incurvarsi contraendo la pancia, autocompiacenza che l’amico Rizzino interpreta come analoga alle esigenze mistiche dell’orgasmo sterile, notando che la metafora “farsi di ero” evoca anche una simbologia autoriproduttiva. Lo svanire dello sballo, il dow, lascia sensazioni di malessere, brividi, dolori alla schiena e muscolari e accentua ogni disturbo prima anestetizzato, come per esempio il mal di denti, e suscita ansie e angosce di indefinite malattie e conseguenti inconsci sensi di colpa e deliri di abbandono. D’altronde chi è in astinenza è indotto a dire “Vedi come sto male” a chi nota invece l’espressione meno congestionata e più vivace.

 

In sintesi, il fumo suscita per lo più fame e accentua l’estroversione e l’interesse sessuale, l’eroina suscita spesso un vomito liberatorio, un certo disinteresse erotico e un fastidio per l’alimentazione superflua, poi ansie di malattie e sottili deliri di abbandono: regressioni conflittuali, perché rifiutano la dipendenza infantile dal cibo e dal contatto fisico. La dinamica dell’eroina sembra così per certi versi analoga a quella delle sindromi anoressiche con rifiuto del cibo e del sesso, che la psicanalisi interpreta come un rifiuto simbolico parallelo dello sviluppo fisico, sessuale e riproduttivo.

 

 

Le regressioni

 

Certe metafore sembrano esprimere i tabù sessuali impliciti nel gioco della droga: cocaina ed eroina sono dette Dama Bianca, quasi evocassero il pietrificante fascino della Regina delle Nevi di Andersen.

 

Nel ’73 comparvero scritte murali provocatorie  dei freak: my sister Morphine! Che sembra evocare un casto amore da piccola fiammiferaia. Cristiane F. dice che non erano fratello e sorella, ma si volevano bene come lo fossero stati, fratelli di ero, precisa lei, per spiegare la rinuncia sessuale.

 

Da tempo è noto un rapporto privilegiato tra il tossicomane e la madre, spesso immaginato, sperato o amplificato dal soggetto (quindi non attribuibile necessariamente alla madre). La nuova psicologia familiare sistemica considera il caso di droga come un equilibrio familiare in cui proprio il figlio, suscitando preoccupazione, tiene coinvolti due genitori altrimenti più distaccati. Così la nota frigidità sessuale e impotenza data dalla droga non è forse solo regressione ma pure sublimazione per l’ideale familiare. Dal punto di vista psicanalitico il ricorso alla droga consente di continuare - anche a costo di altri conflitti - la seduzione infantile verso il genitore, e di sviluppare un gioco simbolicamente analogo con il partner e non a caso la droga emerge più spesso in figli di coppie in crisi.

 

Secondo la recente visione sistemica, che relativizza e confronta il problema soggettivo, il figlio drogato assume generalmente la funzione di tener unita la coppia genitoriale, potenzialmente in crisi, dandole una preoccupazione unificante, strutturando quindi la famiglia con la propria regressione.

 

Un altro psicologo relazionale, il belga Elkain, notava un’altra situazione esclusivamente sociale che induceva la genitorializzazione  del figlio, negata solo mediante la droga. Quando l’immigrazione e l’ignoranza fanno dipendere culturalmente i genitori dai figli, la regressione della droga cerca tragicamente di riequilibrare il rapporto filiare. Va peraltro notato che i casi di incesto da me conosciuti sembrano favorire la droga, forse come tentativo di ridefinire il proprio ruolo filiale. Allora anche la prostituzione per droga sembra una dolorosa razionalizzazione che maschera la denuncia del torto subito.

 

 

Tanatos

 

Freud (in Al di là del principio del piacere) notava che la regressione alla madre è uno stato di beata sicurezza che peraltro evoca angosce di morte. Di qui l’esigenza di rituali di tipo ossessivo che simbolicamente ammazzino il tempo: i riti che vanno dal classico gioco del nascondino descritto da Freud, ai rituali politici descritti da Facchinelli per scongiurare la morte di una Era (La freccia ferma, Edizioni L’erba voglio) fino agli aspetti rituali del bucare e forse di decidere di smettere.

 

Secondo Freud le regressioni quindi comportano angosce e pulsioni di morte evocate proprio dalla ricerca di una calma inanimata, e piccoli riti quotidiani di cui quasi ognuno si compiace hanno la funzione di dimostrare che tutto si ripete e che quindi è possibile un ritorno di nostre sicurezze come una volta era possibile far riapparire la mamma.

 

La psicanalisi stessa si presenta come esperienza regressiva ripetitiva in cui ci si confronta con le ambiguità della propria storia e si decolpevolizzano  le proprie inibizioni. Così la regressione delle psicoterapie in cui si ricerca se stessi può non essere ne banale ne facile, ed è forse parallela e analoga a quella della droga, come dice Watts.

 

Tornando alle droghe possiamo quindi interpretare alcune componenti rituali già note, come riti che scongiurano l’ansia ritualizzandola.

 

Fumare hashish in compagnia è codificato nelle funzioni e nei ruoli: chi offre il fumo ha diritto al privilegio di accendere, il che con la brusca e forzata combustione aumenta l’effetto. Chi rolla, spesso un altro per fugare il sospetto di parsimonia, può aver concessa l’accensione. Attenzioni, corteggiamenti e sgarbi sono tuttavia possibili nel giro della canna, in piccoli errori di giro. La decisione di spegnere lo spino richiede un ruolo di autorità. Gli ultimi tiri contro il filtro di cartone, detti i tiri della morte o della strega, vengono commentati per prevenire le aspettative altrui.

 

Anche per abuso di droghe occorre riprendere il concetto di regressione. Freud, pur considerando e accettando il bambino visto come un perverso polimorfo, definisce la normalità adulta come una sessualità riproduttiva e/o sublimata. D’altronde critica e respinge come regressivi piaceri come la sessualità orale. La confluenza di psicanalisi e antropologia svela tuttavia in qualunque adulto le potenzialità del perverso polimorfo, in momenti come il carnevale, il giocare coi figli, le vittorie politiche o sportive.

 

 

Le stimmate

 

Esistono segni da cui riconoscere il drogato? Come sapere se il figlio, l’allievo, il partner o l’amico si buca? Tre sembrano le stimmate inequivocabili. Il grattarsi, la pupilla ristretta, i segni dell’ago.

 

In ottica lombrosiana il bestiale grattarsi sembra svelare una regressione scimmiesca, e analogamente la pupilla ristretta  esprime indisponibilità e sentimenti ostili inadatti al commercio umano (tant’è che sistematicamente la grafica pubblicitaria impone larghe pupille alle modelle). Altri e più essenziali segni vengono forse letti ma taciuti. In caso di morte da overdose sembra che il timore di una resurrezione messianica vieti di far sapere e capire l’esito delle autopsie: nelle notizie dei giornali e nel rimpianto degli amici restano così confusi i suicidi, gli omicidi e gli incidenti, impedendo a seguaci e amici di trovare senso di una vita gettata nel mondo.

 

Venendo al significato relazionale delle stimmate del drogato, sembra che per definizione il tossicomane non riconosciuto tale possa evitare parte dei condizionamenti indotti dal ruolo; solo se connotato come drogato può dispiegare in famiglia o con gli altri la funzione.

 

Teoricamente e praticamente sembra difficilmente gestibile a un tempo il ruolo paradossale di poliziotto e confidente. Tale stallo tende a emergere nella disintossicazione con metadone, farmaco oppiaceo offerto dai centri antidroga come succedaneo dell’eroina.

 

Per conoscere i livelli di consumo si usa la prova oggettiva dell’esame dell’urina. Ciò induce spesso l’utente che chiede il servizio a un aumento forzato di eroina prima del prelievo in visita di maggiori dosi di farmaco. Tuttavia nel breve (!?) volgere di tempo necessario alle analisi, il gioco tra abuso e astinenza rischia di portare situazione impreviste e ingestibili, dall’ overdose, ai debiti, ai ricatti conseguenti.

 

Anziché suggerire ipotesi per conoscere il drogato con l’improbabile obiettivo di essergli d’aiuto, converrebbe suggerire la riservatezza: analogamente la terapia di fenomeni regressivi come l’anuresi di una bella ragazza timida e mammona si risolve suggerendole di tenere segreti in famiglia progetti amorosi e pipì notturne.

 

 

L’ultima cena

 

Da un punto di vista psicodinamico il piacere regressivo della droga si differenzia tra hashish ed eroina per diverse regressioni alimentari che evoca: la fame infantile del fumo e le angosce anoressiche dell’eroina (mi si fa notare peraltro una propensione degli eroinomani per un’alimentazione raffinata). Anche il gergo della droga presenta una serie di metafore che rimandano a una varietà di regressioni.

 

L’hashish è detto in inglese shit (merda) e un certo marocchino è detto chocolat (cioccolato). In italiano troviamo il termine caccola per una stecchetta apprezzata e non grande, termine affettivamente carico che evoca a un tempo regressioni orali, anali e piaceri nasali. Il termine “farsi” sottintende di ero, ma evoca fantasie sessuali autogenerative. Chi vive per farsi è detto in inglese junjie (rifiuto). In Italia il “farsi una pera” rimanda all’omonimo rito anale purgativo, e sempre in Italia dopo una volontaria astinenza si dice sono pulito…

 

Dal termine “strafatto” deriva “strafattura” che sembra evocare imprevedibilmente le fatture della temuta cucina delle streghe.

 

Di tali regressioni, perverse o polimorfe, l’antropologia sembra rivelare i complementari aspetti sociali. Levi Strass nota che la struttura simbolica dei miti lega in una serie di chiasmi elementi e attributi tra loro spesso contrastanti, fissando così nessi e conflitti di una  cultura. Nota quindi il nesso tra cibi bolliti con acqua e riti di intimità, e tra cibi arrostiti e riti verso la natura e gli stranieri, fino al purissimo esempio del fumo del calumet della pace. Un canto pellerossa dice senza amichevoli infingimenti: quello che hai fatto è brutto, è brutto, è brutto; ora fumiamo insieme, il Fumo è sopra di noi.

 

All’opposto si può notare che l’eroina con la sua preparazione con acqua calda e limone rimanda alla dimensione dei riti di intimità dei cibi bolliti. Non a caso l’eroinomane può rinunciare al fumo, ma verso il joint  spicca, finchè se ne esclude, per scarsa cortesia: non rispetta il giro, chiede lui di accendere o trattiene lo spino, mostrando di concepirlo egoisticamente solo come pallido sostituto dell’ero.

 

Derivazioni simboliche di questi intrecci si riconoscono in situazioni di confronto interculturale ritualizzate quando lo straniero viene visto sia come simile sia come cacciagione, terreno spontaneo dei riti antropofagici. Sul confine della droga, Il pasto nudo di Burroughs rilegge la sua vicenda di tossico, come un circo cannibalico offerto alla società perbene. Così un oste, come un orco, interloquiva con presunti spacciatori, invitandoli infine a una rituale cena di rispetto reciproco: se li trovo li abbatto con un solo pugno… peso troppo, dovrei mangiare meno, ma me magnaria un puteo, vivo! (mangerei un bambino vivo).

 

Altro rito di confine il funerale della piccola tossicomane (stridente solo il Pater Noster per la sua fuga da casa incalzata dal patrigno a 12 anni). Il prete rievoca la sua morte per droga come per Cristo la spugna d’aceto. Segue la comunione di vino e ostie tra viventi, e l’incenso per la piccola straniera finché parta. Parallelamente gli scandalosi doni rituali di hashish nella bara e la sua comunione di eroina con gli zombi strafatti.

 

 

Cfr. sull’argomento

 

Al di là della vasta e travagliata bibliografia sulla droga indico i testi che favoriscono un’analogia tra uso di droga e fenomeni alimentari, da quelli psicologici e a volte psichiatrizzanti, a quelli socioantropologici. Quanto all’emancipazione dalla droga essa ha per lo più carattere di svolta spontanea, tuttavia contro il noto pregiudizio che vuole si passi dallo spino all’eroina, molte redenzioni sono attribuite dai protagonisti alla socializzazione del fumo.

 

Sugli aspetti regressivi della droga vedasi in chiave psicanalitica Claude Olivenstein, Il destino del tossicoman, Borla e in chiave relazionale il seminariodi Stanten, Heroin my baby, Fondazione C. Erba, Milano (ciclostilato); testi di cui il primo è più attento a vissuti e fantasie individuali, il secondo al cosiddetto invischiamento di ruoli tra genitori e figli. Per l’interpretazione della regressione e dell’oralità sia normale che patologica elaborata da Freud, vedi Tre saggi sulla sessualità, Boringhieri; sulla tendenza a compensare l’ansia con regressioni e ritualizzazioni vedi Nevrosi sintomo e angoscia, Boringhieri, e infine  Al di là del principio del piacere, Boringhieri, su come la regressione evochi sensazioni di morte.

 

Il punto di vista relazionale decodifica i disturbi alimentari rispetto al contesto: si veda l’ormai classico M.S. Palazzoni, L’anoressia mentale, Feltrinelli.  Per l’interpretazione e la gestione relazionale del rapporto tra ansie e ritualizzazioni si veda: A.J. Ferriera, Mito familiare e omeostasi, AA. VV., Famiglia e comunicazione, Feltrinelli, nonché M.S. Palazzoni e AA.VV., Paradosso e controparadosso, Feltrinelli (cap. 9, I rituali familiari). Analogo distacco, brusco ed essenzialmente spontaneo da ruoli e simbologie è detto psicanaliticamente acting out; sulla sua funzione terapeutica nel lavoro istituzionale vedi numero monografico di “Prospettive psicanalitiche”n. 1, 1984, Il Pensiero Scientifico.

 

Dal punto di vista dell’antropologia, la simbologia dell’alimentazione viene rapportata ai tabù verso l’animale totemico, alla meditazione tra natura e cultura e tra gruppi umani diversi; vedi: C. Levi Strass, Il crudo e il cotto, Saggiatore, opera classica dello strutturalismo applicato all’antropologia; e M. Harris, Cannibali e re, Feltrinelli, tendenzialmente più materialistico.

 

Quanto alle fantasie sociali sulla regressione delle droghe vedasi per marijuana: Dario Fo, La marijuana della mamma è più bella, Bertani; e per una visione cannibalica dell’ero W. Burroughs, Il pasto nudo, Sugarco.

 

Per l’economia delle droghe, domestica o meno, e per le analogie con il proibizionismo vedi L.P. Esposito e M. Sinibaldi, Marijuana in cucina, Stampa Alternativa, e B. Inglis, Il gioco proibito, Mondatori.

 

Saggio pubblicato su "La Gola" nel gennaio del 1985.

 

                                                                                                      Adolfo Sergio Omodeo

 

 

 


Id: 621 Data: 08/03/2017 18:02:50

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- Letteratura

M’hand e m’hand, i due figli del re

 M’hand e M’hand, i fratellastri gemelli figli del re

 di Adolfo Sergio Omodeo

 

 

Era una calda estate di trent’anni fa a Padova, un giovane straniero si presentò nello studio dello psicologo... Disse in ottimo italiano che era marocchino, venuto in Italia per frequentare l’università, era portato per lo studio e aveva un buon rendimento. Tuttavia da quando era qui soffriva di un costante mal di testa; disturbo che lo accompagnava a lezione e quando studiava, e si faceva più acuto dopo ogni esame che superava, sempre con successo. I vari medici da lui interpellati non riscontravano disturbi fisici particolari e gli avevano suggerito di rivolgersi ad uno psicologo per superare quello che sembrava il frutto di tensioni interiori. Lo psicologo che gli avevano suggerito aveva viaggiato e aveva fatto pratica anche all’estero, nelle metropoli dove si incontrava gente di tutte le genti. Aveva imparato che i diversi popoli hanno differenti modi di vivere e problemi diversi, e per capirli bisogna ascoltare. E sapeva che per aiutare le persone a risolvere i loro problemi non serve rifilare buoni consigli, ma bisogna fare le domande adatte e lasciare che chi risponde trovi le soluzioni migliori .

Il giovane si chiedeva: se c’era qualcosa nell’aria in Italia che lo faceva stare male;doveva tornare in Marocco? Negli incontri con lo psicologo emerge che è figlio di una famiglia piuttosto abbiente; suo padre secondo il costume musulmano ha varie mogli e molti figli, e lui è unico figlio dell’ultima moglie e il preferito dal padre. E’ anche l’unico figlio che segue gli studi universitari. Così osserva che la sua venuta in Italia provoca forse ansia e solitudine nei genitori e sicuramente invidia nei fratelli.

 

Nel corso di alcuni incontri, il giovane comprese che il suo disturbo, attribuito al clima, aveva invece la funzione di impedirgli di studiare, per non umiliare i fratelli maggiori, ed era forse una punizione involontaria che lui stesso si dava per aver lasciato i genitori. Infatti l’emicrania è un dolore provocato da una contrazione che preme sui vasi sanguigni e sui nervi, e può essere causata da motivi psicologici involontari.. In seguito il giovane ridusse l’impegno per lo studio e così effettivamente svanirono i suoi mali di testa.

 

Dopo circa un anno tornò a casa in vacanza ma non ritornò in Italia, forse trattenuto da altre storie familiari. Allo psicologo rimase la domanda di cosa potesse essere capitato al giovane, finché un giorno trovò una favola araba che sembrava spiegare, in modo simbolico come fanno le favole, il rapporto tra fratelli di madri diverse, e come questi si sappiano aiutare nelle difficoltà della vita con un rapporto quasi telepatico.Il racconto era narrato da Youssef Nacib, (Contes Du Djurdjura,, editions andalouses. Algeri, 1991), e lopsicologo lo lesse e lo rilesse, ringraziandolo in cuor suo di aver trascritto l’antica favola popolare magrebina.

 

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C’era una volta in un villaggio un re che aveva sposato due belle mogli. Entrambemisero al mondo un bel bambino ed entrambe vollero chiamarlo M’hand, diminutivo

del nome del Profeta. I due fratelli si somigliavano tanto che le madri stesse li confondevano. Purtroppo la madre di uno dei due morì precocemente ed entrambi i ragazzi furono cresciuti dalla stessa regina. Ben presto lei desiderò di poter riservare un trattamento di favore al suo proprio figliolo. Non riuscendo a distinguerli si rivolse a un saggio tanto anziano quanto furbo. Aiutami vecchio santo, io sarò la pasta e tu il mattarello, seguirò le tue indicazioni alla lettera. Ho un figlio così uguale al suo fratellastro che non riesco a distinguerli. E per di più si chiamano con lo stesso nome. M’hand è M’hand o M’hand non è M’hand? È inestricabile... aiutami ti prego.

 

Va bene figlia mia, devi sgozzare un gallo, riempirne di sangue l’intestino e metterlo attorno al collo, sotto il vestito. Poi metterai sotto il vestito anche dolcetti e buone cose da mangiare. Quando i due saranno con te tu fingerai una caduta, urlando di dolore e facendo venir fuori il sangue, e rovesciando i dolcetti.Vedrai che tuo figlio vorrà aiutarti e l’altro penserà a ingozzarsi. La regina così fece, e così accadde che fecero i ragazzi. Lei forò subito l’orecchio destro del figlio che la voleva assistere con un orecchino, per distinguerlo. Da allora riservava a suo figlio il couscous più raffinato e il riso più appetitoso mentre l’altro M’hand doveva contentarsi di minestre di ghiande e orzo malcotto.

 

Passavano i giorni e i due ragazzi si volevano molto bene e giocavano insieme, finché un giorno giocando a fare la lotta, M’hand senza mamma fu battuto dall’altro, così prese coscienza del suo più pesante destino. Allora disse al fratello: fratello io lascio il paese, ma prima pianterò una pianticella di fico nel nostro giardino e tu la curerai: se vedrai foglie verdi e il tronco che si ingrossa saprai che me la passo bene, ma se vedrai le foglie che si ingialliscono saprai che la mia vita è in pericolo.Il M’hand con la mamma cercò di trattenerlo e di dissuaderlo, promise che avrebbe chiesto alla mamma uguale trattamento per entrambi ma M’hand orfano fu irremovibile, prese il suo fucile, montò sul suo cavallo, chiamò i suoi due levrieri e partì.

 

Fece molta strada, finché al di là di una collina trovò un brav’uomo che allevava galline, disperato perché ogni giorno la poiana gli rubava un pulcino. M’hand si appostò col suo fucile e uccise la poiana. Il brav’uomo riconoscente volle regalargli un pulcino, lui disse che era in viaggio e gli chiese di custodirlo in vece sua. E ripartì. Ore e ore dopo trovò un guardiano di pecore disperato; Cosa ti è successo? chiese, e quello disse che ogni santo giorno che Dio manda in terra, lo sciacallo gli rubava una pecora; cosa poteva mai dire al proprietario che glieleaveva affidate?

M’hand si appostò col fucile e quando a sera arrivò lo sciacallo lo uccise.

 

Il pastore fu felice e gli regalò una pecora, che M’hand affidò a lui, vai in pace disse l’uomo. Trovò poi un guardiano di capre disperato perché la volpe gli rubava un capretto ogni giorno, M’hand si appostò nell’ombra, e a notte centrò con un pallettone l’incorreggibile ladrona; il guardiano sollevato gli regalò un capretto, che M’hand gli affidò.

 

Trovò poi un giovane che badava le vacche, e piangeva calde lagrime: la pace sia con te, ma cos’è che ti amareggia tanto? - La pace sia con te, nobile viaggiatore, malgrado tutte le mie attenzioni, la iena viene ogni giorno e mi sottrae un vitello... M’hand si imboscò tra le frasche e infine con le prime stelle vide il profilo della belva, tirò e la uccise. Il vaccaro volle sdebitarsi regalandogli una vacca e il viaggiatore gli chiese di badarla per lui. Cavalcò oltre le colline fino a un grande spiazzo deserto dove un uomo guardava dei cammelli, ma aveva la stessa espressione sconsolata delle sue bestie; l’uomo rivelò che l’orco continuava a sottrargli i dromedari.

 

Non si sa bene come fece, ma M’hand liberò l’uomo e i suoi cammelli dall’orco... così ebbe in dono una graziosa cammella che però lasciò in cura al guardiano.Poi aggirando un monte trovò un guardiano di cavalli, disperato perché un leone continua va a divorare le sue bestie, M’hand si appostò adeguatamente e attese finché all’imbrunire arrivò la belva e la uccise.Ebbe in dono una giumenta che lasciò alle cure dell’uomo addetto ai cavalli.

 

M’hand cavalcò ancora finché arrivò a una grande fontana di proprietà di Lanquirà, che era un’idra con sette teste. Il villaggio una volta all’anno doveva offrire a questo mostro un grande piatto di couscous, un agnello arrosto e una ragazza giovane. Questo come tributo per la fornitura dell’acqua alla gente del villaggio.

 

Proprio quel giorno toccava alla figlia del re di essere divorata, M’hand la trovò in lacrime seduta tra la pietanza e il contorno. Perché piangi tanto bella ragazza, le chiese lui; – Sono stata sacrificata per essere divorata dall’idra Lanquirà che appena si sveglia mi divorerà, sennò lascerà morire di sete il villaggio. Va bene disse lui, lasciami l’arrosto e il couscous per farmi una merendina e tu torna subito a casa -non posso disse lei, mio padre mi ucciderebbe se mi vedesse tornare al palazzo; lui è il re e quest’anno tocca a lui sacrificare sua figlia.Penserebbe che me la sono squagliata per paura dell’idra. Se è così disse lui, servimi il pranzo che poi voglio fare la siesta. Tu bada di tenere d’occhio il mostro finché continua a russare e grugnire e poi chiamami.

 

Dopo poco l’idra produsse un lugubre grugnito e la principessa seduta sulla pietra della fonte cominciò a piangere tanto che una lagrima cadde sul viso del ragazzo, che in un batter d’occhio fu in piedi e disse: disgraziata, poteva divorarci entrambi, te e anche me, e con un colpo di spada tagliò la testa del mostro... non è la mia ultima testa disse l’idra, e non è il mio ultimo colpo disse lui, troncando la seconda testa del mostro, non è la mia ultima testa gridò l’idra, non è il mioultimo colpo urlò lui.

E così di seguito gridando e urlando sempre più forte, fino al settimo colpo. –E' la mia ultima testa, si lamentò l’idra, è il mio ultimo colpo rispose lui trionfante.

 

Così il mostro era morto e le acque della fonte erano a disposizione, con gioia di tutti. Poiché sei figlia del re le disse M’hand, va da tuo padre e digli di riunire gli uomini per portar via il corpo del mostro e di purificare la fontana dal sangue. Lei disse: mio padre mi ucciderà se non mi dai una prova dell’accaduto, così lui le dette la propria scarpa e lei la portò al palazzo. Il padre urlava e lei tremava, finché riuscì a dire che uno straniero di passaggio aveva ucciso l’idra dalle sette teste, e ne mostrò la scarpa.

 

Il sovrano incredulo e turbato fece convocare tutti gli uomini del villaggio per provare la scarpa, arrivarono tutti sperando di farsi passare per l’eroe, ma a chi la scarpa stava stretta, a chi larga, a chi non entrava per niente.Il re promise perfino che avrebbe dato la principessina in sposa e avrebbe lasciato il regno all’eroe benefattore, ma nulla. Poi qualcuno riferì di un mendicante che si aggirava ai margini del villaggio e sembrava anche zoppicare un po’. Fu fatto venire, la scarpa gli calzava perfettamente e per di più la principessa lo riconobbe.

 

Così si sposarono e vivevano insieme nel palazzo.Per M’hand cominciò una vita felice piena di soddisfazioni e di svaghi, tra cui prediligeva la caccia... Il suocero l’aveva avvertito: figlio mio tu puoi andare per ogniddove fatta eccezione per la foresta là in fondo che è riservata all’orchessa. M’hand non voleva certo trasgredire, ma un giorno andando a caccia, colpì una pernice che cadde proprio nei confini dell’incredibile ma vera orchessa.Malgrado il pericolo decise di recuperare la preda e varcò i confini, ma la feroce proprietaria del luogo sorse tutt’a un tratto e inghiottì il cavaliere, il cavallo e i suoi due levrieri.

 

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Proprio quel giorno al suo paese natale il suo semi-fratello andò a innaffiare il fico e lo trovò che stava perdendo tutte le foglie. Immaginando le peggiori sciagure che potevano essere capitate all’altro semi-fratello, chiese a sua madre di preparargli di che affrontare un lungo viaggio. – Devo partire subito perché è capitato qualche cosa di terribile a M’hand – non puoi farci niente disse la madre – lo riporterò vivo o morto disse lui. E partì. Presto trovò un uomo che gli disse: sei tornato M’hand a prendere il tuo pollame, la tua gallinella ha fatto molti pulcini... così capì che era sulla buona strada, trovò poi un pastore che disse: sei tornato a prendere il tuo gregge! La tua pecorella ha avuto molti agnellini, cosa aspetti a condurli con te?! ... e lui si disse, sono sulla strada di mio fratello. Strada facendo trovò poi il capraio, il cammelliere e gli altri allevatori che ricorderete, tutti lo confondevano con l’altro M’hand, gli animali si erano riprodotti e glieli avevano curati, lui ringraziava, li pregava di curarli ancora e proseguiva ..

 

Arrivò così al palazzo del re, questi disse - dove sei stato tutto questo tempo, ti credevamo morto, non tornare mai più nel bosco dell’orchessa! – Certamente Sire, anche se non sono i luoghi che uccidono ma è il destino, aggiunse; e appenail re si voltò partì alla volta della temuta foresta. Caricò prima di tutto il cavallo con sacchi ripieni di vipere e scorpioni, prese il fucile e i suoi due levrieri. Avvertì il cavallo che appena avesse avuto l’orchessa a tiro doveva tirarle una zoccolata tale da lasciarla secca a terra, mirando alla fronte proprio tra gli occhi, poi raccomandò ai levrieri di aprirle il ventre con delicatezza per non danneggiare chi fosse all’interno. Varcarono la porta della casa e l’orchessa li accolse amabilmente: buongiorno caro nipotino, lascia che leghi io i tuo i animali, e lui: non scomodarti, faccio io... In realtà fece finta di agganciarli lasciando loro modo di essere liberi. Quando vide che l’orchessa non si tratteneva più le disse, mangia prima il cavallo, è bello cicciotto e le sue cosce sono piene di grasso. Ma appena quella si avvicinò, il cavallo la buttò a terra con una zoccolata fulminante, in un lampo i levrieri le aprirono lo stomaco e M’hand estrasse il fratello, il cavallo e i levrieri, li dispose inerti a terra e si mise a piangere.

 

Mentre sospirava dal rimpianto, arrivarono due lucertole che combattevano selvaggiamente tra loro proprio davanti a lui. Lasciatemi in pace, gridò, e che Dio vi faccia provare il dolore che provo io. Intanto una lucertola uccise l’altra, e disse a M’hand. Povero te, uomo, è vero che ho ucciso mio fratello ma io posso resuscitarlo; e detto-fatto la lucertola andò a cogliere una piantina, la schiacciò e versò il succo sul corpo del suo fratello morto, che guizzò via vivacemente e se ne andarono insieme come niente fosse. M’hand si affrettò a cercare la stessa pianta, la schiacciò tra due sassi e ne versò il succo sul viso del fratello che subito si sollevò. Così tornarono insieme al palazzo, il re restò un bel po’ sconcertato, e dovettero spiegargli tutta l’avventura dei due fratelli. Il sovrano li invitò ad abitare entrambi da lui, ma loro rifiutarono. Assieme alla principessa tornarono alla loro casa dove la madre di M’hand nonché, malvagia matrigna dell’altro M’hand, cercò di imprigionarlo assieme alla sua sposa. Loro però le sfuggirono e la punirono.... e festeggiarono sette giorni e sette notti.

 

 

Come dicevo all’inizio, da questa favola lo psicologo capì che il giovane marocchino che aveva chiesto il suo sostegno contro il mal di testa e che era tornato a casa, aveva seguito un qualche richiamo dei suoi fratelli, e capì anche che la vita del ragazzo non era banalmente sistemata con quel ritorno, ma continuava a essere complicata, ricca di avventure e di sorprese come annuncia la favola. La favola lo fece riflettere che anche da noi ci sono tantissimi fratelli, nati da matrimoni diversi dei loro genitori; e anche da noi sembra che nessuno voglia che si frequentino, ma questi fratelli spesso separati e lontani si cercano e comunicano tra loro in modo imprevisto, come fanno tramite l’albero del fico i due M’hand.

 

Nelle favole si trova traccia anche dell’incontro tra culture diverse che, come si dice, si sono succedute ma anche si sono combattute. Nel Magreb i Berberi si confrontarono e si scontrarono prima con i Romani, e poi con gli Arabi musulmani ... Sai la storia di Aicha Condicha? mi chiese un amico marocchino: è una strega che assilla i giovani timidi, è molto bella, è un’idra evanescente come ilvapore d’acqua, ma mentre loro se ne innamorano scoprono con ribrezzo che Aicha Condicha ha zampe pelose e piedi di capra. Però, aggiunse, che Aicha era stata una martire dell’indipendenza marocchina, che lottava contro i traditori e gli invasori colonialisti e questi l’hanno demonizzata per fare paura al popolo, attribuendole le stesse caratteristiche viscide dell’idra. Mostro con cui combattè l’antico eroe greco Ercole, caro anche ai Romani, ma questa sarebbe un’altra storia.

 

 

 

L’autore Adolfo Sergio Omodeo, è psicologo e operatore sociale, vive a Padova.

Ha insegnato materie psicologiche ad assistenti sociali e operatori socio sanitari, e ha

collaborato ai corsi di Antropologia Culturale del prof. Paolo Palmeri presso l’Università di Padova. Svolge esperienze di animazione e di segretariato sociale partecipato con l’Associazio ne Progetti Interfaccia.

Nella sua poesia ha coltivato la scrittura inconscia dei surrealisti, la rilettura di colloqui e di relazioni cliniche, e infine la creatività che si genera nei rapporti interculturali. Ha pubblicato poesie in alcune raccolte ed è stato premiato in concorsi letterari.

E’ presente sul blog Robota Nervoso. Testo selezionato e pubblicato per ilo concorso "Gina Labriola" 2013 patrocinato dal comune di Chiaromonte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 565 Data: 15/06/2016 18:25:26

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- Letteratura

La scrittura dell’handicap

 

Saggio filosofico, finalista nel concorso “premio nazionale di filosofia” ANPF 2016

 

LETTURE  DELLA DISABILITA’

Sviluppo di una moderna mitologia,

tra comprensione  e forse altri tabù

 

 

Scrivere una prefazione a un libro di memorie di un caso di handicap motorio (Romanzo di una vita diversa,di Francesco Scarin), mi ha fatto osservare una grave antinomia tra mente e corpo nei casi di handicap: il protagonista è a sua insaputa affetto da una malattia degenerativa che riduce via via la sua mobilità. Gran parte della vicenda verte su come possa riuscire a compensare l’avanzare dei danni nella sua vita quotidiana. Quando si arrende all’uso della carrozzina suo padre gli dona il suo anello, quasi come amuleto. Il libro prosegue con l’aggravarsi dei disturbi, con una continua ricerca di risalire la china, con farmaci, corsi di yoga e forse la rottura del matrimonio quando la moglie chiede di avere lei la gestione della sua firma bancaria.

 

 

 

L’handicappato, o disabile, procede quasi a caso- per prove ed errori, come direbbero gli psicologi- ignorando spesso la dinamica di eventuali miglioramenti o di peggioramenti, e con il rischio di errori di interpretazione o di ripetere come utili atti inutili, per cui la psicologia propone il termine di comportamenti superstiziosi.

 

L’handicap, con le sue attese di cura, le sue ansie di peggioramento, ripropone quindi il vecchio problema mente-corpo, ma in modo nuovo, direi più articolato ed operativo. Come si possono sviluppare le cosiddette funzioni vicarianti, strategie con lui i disabili ottimizzano le loro risorse?

 

 

 

Il concetto di “schema corporeo” proposto da P.Bonnier sembra indicare una via di comprensione, potrebbe essere definito infatti come l’immagine mentale che uno ha di se stesso e delle sue capacità operative, immagine in gran parte inconscia e come tale soggetta a incomprensioni proprie e fin’anco altrui.. L’uso dello specchio nella ginnastica riabilitativa sembra essere una buona indicazione. Sappiamo però dalla nuova psicoanalisi che lo specchio ci rimanda inevitabilmente non solo l’immagine di noi ma pure della nostra desiderabilità sociale, conscia e inconscia.

 

 

 

Così più che in scienze quali la neurologia o l’ortopedia, potremmo trovare un fertile terreno di studio e di comprensione in vari campi dell’estetica, di cui forse quello letterario è il più proficuo. E come vedremo l’estetica applicata alla letteratura sull’handicap sembra comportare impreviste e forse ingiustificate conclusioni di tipo etico.

 

 

 

«Odio che mi si disturbi il sabato pomeriggio, ma naturalmente sono uscito dalla stanza e ho sceso le scale. E tu sai com’è, che scena patetica sia, prima la gamba buona, poi quella matta, poi il bastone, gamba buona, gamba matta, bastone, comunque sono arrivato in fondo, vecchio ben oltre i miei anni, e la pelle di un grigio così cachettico che persino tu avrai notato il dolore che provavo, un dolore cronico…» Così il protagonista de Il morbo di Haggard di McGrath esprime le complesse difficoltà, da quelle fisiche a quelle emotive che si possono sommare proprio nei momenti sociali più impegnativi per chi utilizza ausili Il protagonista che cosi bene esprime il disagio per il suo handicap e le sue conseguenze sulle sue aspirazioni  di socializzazione risulterà un perverso depravato, con tendenze incestuose, omosessuali e fors’anco necrofile.   Un riferimento letterario che sembra un buon primo passo per entrare in tema. Infatti come nota Freud i poeti hanno la capacità di esprimere problemi umani che la psicologia deve ancora trovare modo di analizzare – e l’osservazione è fatta ne l’interpretazione dei sogni del 1900,  proprio in riferimento al mito di Edipo, il quale come suggerisce il nome, zoppicava alquanto, e forse per questo seppur giovane  risultò  già tanto esperto di vita e maturo da poter risolvere l’enigma della Sfinge .

 


Ricordate “la caduta” del Parini ? è il primo testo letterario che viene in mente sul tema delle difficoltà comportate dalla disabilità: Dice il poeta; “ e per avverso sasso \ mal tra gli altri sporgente \ o per lubrico passo \ lungo il cammino stramazzar sovente … “  e prosegue descrivendo il dileggio dei bambini che si muta in turbamento e l’aiuto e la banale comprensione del passante che lo soccorre. Sul motivo della caduta, sulla sua dinamica specifica, il Parini glissa, e si nota una certa eccessiva brevità e superficialità, una difesa psicologica che esprime il disagio ad analizzare i propri cedimenti, comprenderli e possibilmente evitare che si ripetano. Umano sei, non giusto, la frase con cui il poeta zoppicante prende le distanze dal suo soccorritore, esprime certo rifiuto al servilismo che questi  gli suggerisce, ma – oserei dire - apre un altro interrogativo: Cosa si potrebbe dire in una situazione del genere per essere a un tempo umani e giusti? La struttura stessa della Caduta, col suo inizio apocalittico e il suo finale umanissimo sembra una protesta contro il destino. De Sanctis nota che Parini è il primo letterato non servile dopo secoli, e dice anche che zoppicava fin da giovane. Circa due secoli dopo Alda Merini sembra schierarsi con il tanto biasimato soccorritore del Parini  – “Quelle come me “ … tendono la mano \ e aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio \ di cadere a loro volta…

 

 

 

Il romanticismo poi, si è a volte  compiaciuto di proporci i temi della disabilità e farci immedesimare in essi: Victor Hugo ci propone il travaglio de l’uomo che ride e del gobbo di Notre Dame, le loro passioni anche erotiche, oltre l’emarginazione e il pregiudizio di cui sono vittime. Forse più poetico ma notevolmente distaccato, Baudelaire che nel suo celebrato sonetto sui ciechi ha invece il coraggio di prendere le distanza da tale infermità: “ Anima mia contempla, guarda che orrende pose!  \ …\... I loro occhi sempre levati  al cielo \ ..\  Io dico: Cosa chiedono al Cielo tutti questi ciechi?”

 

 

 

Ancora nell’Ottocento ricorderei Andersen: Nella sua favola, il soldatino di piombo, zoppo per un difetto di fusione, si innamora della piccola ballerina di carta suscitando l’odio di piccoli demoni della casa;  e i Grimm che ne Il Pifferaio Magico, riferiscono che gli unici bambini che si salvarono dalla sua flautata deportazione furono un piccolo storpio e una bambina cieca; il che ha fatto supporre che la favola sia riferita a un arruolamento coatto di bambini per la guerra, oppure si riferisca a epidemie di bambini che lasciarono solo pochi sopravvissuti handicappati. Nel Novecento  Calvino, scrittore e esperto di fiabe,  torna sul tema handicap con Il Visconte Dimezzato. Il visconte rimasto diviso in due in battaglia, sopravvive scisso in una metà buona e una malvagia … ma   più che l’aspetto fisico, quello che turba l’amata Pamela sono i  disturbi di personalità, delle sue due distinte metà.

 

 

 

Louis Stevenson, medico e romanziere autore de il dootr Jekyll, ne l’Isola del Tesoro evoca il sofferto e malvagio pirata privo di una gamba, che fa il cuoco di bordo legandosi al banco della cucina per non cadere ai movimenti della nave, e che infine usa la stampella come arma micidiale per difendere il tesoro ritrovato.  La stampella come arma! Il giorno dello Sciacallo di Frederick Forsyth, uscito nel 1971, è la fantapolitica storia di un fallito attentato a De Grulle. Il sicario si camuffa da invalido di guerra, con una gamba tenuta ripiegata da una cinghia per simulare il moncherino ( e ci viene detto che dovrà ben massaggiarla per lenire il dolore quando la libera)  nascondendo la carabina nella stampella.

 

 

 

Solo nei primi decenni del Novecento le tematiche della disabilità sembrano trovare libera espressione, superando silenzi e forse tabù precedenti. Credo per effetto dello sviluppo della medicina che consentiva la sopravvivenza dopo gravi lesioni fisiche, e alle guerre che avevano lasciato un gran numero di invalidi. La penicillina viene scoperta nel 28 e perfezionata durante la guerra, e da allora l’handicap è sempre più presente in letteratura. Gadda, ne La Cognizione del Dolore, pubblicato a puntate tra il ’38 e il ’41 e poi dopo la guerra., apre il romanzo narrando del dopoguerra di due paesi immaginari. Una situazione popolata da invalidi e falsi invalidi, impegnati e favoriti in quanto tali, a collaborare a un servizio di vigilanza e sicurezza, non per ultimo dedita a minacce e ricatti. Stuazione in cui si riconosce la satira della nascita del Fascismo italiano. Si usciva così da una retorica dei libri per la scuola,che andava dalla Rupe Tarpea  e dall’apologo di Menenio Agrippa a Muzio Scevola; dalla gamba amputata di Maroncelli, fino all’eroica morte in battaglia di Enrico Toti, invalido del lavoro, che scaglia la stampella contro il nemico.

 

 

 

Poco prima della II guerra usciva L’ardito del Conte Verde di Olga Vicentini, scrittrice per l’infanzia, autrice di varie opere educative – civili. Qui troviamo un’intensa pagina in cui il nobile  montato a cavallo esprime la sua disperazione per il proprio handicap motorio che lo blocca e lo espone allo scherno pubblico, e così coinvolge il piccolo protagonista eroe del libro. Il Conte Verde è Amedeo VI, un condottiero Savoia del tardo medioevo, pare con un braccio leso,  e così il romanzo sul piccolo ardito insegnava rispetto per la disabilità… Intanto gli Americani  avevano un presidente Roosvelt in carrozzina, per questo motivo volgarmente  sbeffeggiato da Mussolini che pur aveva un figlio colpito dalla polio. La prima edizione del libro è del 1941 e la seconda del 54, sempre della SEI, casa editrice cattolica, quindi il messaggio civile del libro viene riproposto oltre il declino Savoia.

 

 
Altri testi hanno affrontato le tematiche della disabilità. Il Compagno, di Cesare Pavese è un breve ma complicato romanzo socio–politico. Amelio, il giovane e invidiato rubacuori motociclista resta paralizzato in un incidente. La storia prosegue tra vari amori e coinvolgimento politico di altri. Ma è proprio lui, Amelio, che dalla sua condizione svantaggiata risulta tirare le fila di movimenti antifascisti. L’interrogativo che Aurelio si pone all’inizio, quando toglie l’ingessatura - carrozzina o stampelle - resta senza risposta, sapremo solo che è stato portato in carcere in barella. Fu Pavese che mostrò a Fernanda Pivano l’antologia di Spoon River di Lee Masters, un complesso intreccio di storie umane in forma di epitaffio, di cui molte riferite a diversi tipi di handicap. La Pivano restò affascinata dall’umanità dell’opera, la tradusse e la pubblicò e fu per questo imprigionata dal Fascismo.

 

 

 

Cito brani dell’”antologia” significativi dell’antieroismo che indignava il Fascismo. La cieca  Lois Spears dice di sé “ madre di bambini dagli occhi limpidi e corpi sani \ (io nacqui  cieca) \..\ Fui la più felice delle donne. “ Da notare il chiasma tra gli occhi dei figli e la propria cecità posta tra parentesi; generalmente il chiasma enfatizza l’enunciato finale, in questo caso invece dato per ovvio dalla parentesi. Il malato Paul McNeely cui l’infermiera gli diceva con un sorriso “ non siete poi così malato - starete presto bene “ concludendo  “ Cara Jane, l’intera fortuna dei McNeely \ non avrebbe potuto comprare la tua cura di me \\ Mio padre provvide per te alla sua morte?\ Jane, cara Jane “ anche qui sviluppando un ricco intreccio stilistico tra salute e malattia,  valore affettivo e rimborsi economici dell’assistenza ricevuta.

 

 

 

Aggiungerei infine il malato di cuore, nella versione di De Andrè: “ …e mai poter bere alla coppa d’un fiato \ ma a piccoli sorsi interrotti…\ eppure un sorriso io l’ho regalato \... \ e il mio cuore le restò sulle labbra “ Così l’handicap viene perfino cantato! Ricorderei allora Pirangelo Bertoli, cantautore in carrozzina, che nei testi delle sue canzoni ha fatto quasi costantemente riferimento alla disabilità come ispirazione di vita da tutti condivisibile . Vedi A Muso Duro, e Voglia di Libertà dove dice, quasi alludendo alla continuità tra le cosiddette barrire architettoniche e quelle mentali; “ Se libertà vuol dire rinunciare a tutto ciò che offre la realtà \ Per te io vincerei questa paura di uscire nudo e stanco dalle mura \ di questo mondo piccolo e banale \ dove regna chi bara e chi non vale “

 

Italo Calvino ne La Giornata di uno Scrutatore, pensata dal ‘53 e uscita nell ’63,  traccia un quadro quasi antropologico dei disabili che votano al Cottolengo, una città nella città cinta da mura e soggetta ad altre regole. E descrive il faticoso impegno dei ricoverati per dare il loro voto, forse suggerito ma – nota - che esprime la riconoscenza per chi si occupa di loro; D’altro canto, Calvino registra nei colleghi di seggio una strana modifica della voce, quando riconoscono che - anche loro hanno diritto… (L’argomento sembra ancora attuale se si vedono i reclami di tanti disabili impediti al voto, dopo ogni elezione). Lo scritto mi portò a una considerazione socio-economica che piacque anche a Basaglia che pur non era marxista, cioè che il circuito dell’assistenza all’handicap tende alla mercificazione dell’handicap stesso, riducendolo a oggetto di commercio, come altri prodotti deteriorabili e in scadenza.

 

 

 

La Salamandra, romanzo politico ambientato nell’Italia dei possibili colpi di stato, opera dell’autore australiano West Morris, ci presenta a sorpresa un appassionato squarcio su un istituto per handicappati, tema che forse colpisce l’autore per la sua diffusione nella realtà italiana; il che mi ricorda le pagine di  Ernst Bernhard, psicoanalista junghiano, ebreo fuggito in Italia durante il Nazismo, che restò colpito da certe specificità della vita italiana da lui giudicate archetipe, tra cui una attenzione affettiva e iperprotettiva verso l’handicap e una rassegnazione consolatoria diffusa ( Cfr. La grande Madre Mediterranea, in Mitobiografia  )

 

 

 

Molta letteratura del Novecento ha fatto riferimento all’handicap, senza quasi esplicitarlo. G.G. Marquez in occhi di cane azzurro (1974) ci propone la vita interiore di disparate disabilità, a partire dal tipo paralizzato che da quando fu detto alla madre che sarebbe vissuto come morto, viene mantenuto in una bara adatta dove vive di luci, odori e sogni. Fiori per Algernon, romanzo di Keyes del ’59, narra un fantascientifico e travagliato esperimento di riabilitazione neurologica in cui il protagonista, un povero debole mentale divenuto geniale, studia Algernon, topo usato come campione di controllo; dal cui declino prevede il proprio successivo fatale tragico crollo mentale. E  ricorderei anche “ la metamorfosi” di kafka, in cui il protagonista, da bravo e inserito impiegato quale era, si sveglia una mattina come grosso e schifoso scarafaggio… una vicenda che sembra una metafora di certe malattie degenerative. Forse anche Il Processo è un riferimento simbolico ai difficili iter fiscali di casi di inabilità, di cui poteva essersi occupato Kafka, letterato e assicuratore … E perché allora non citare come magistrali esempi della letteratura dell’assurdo le sempre attuali comunicazioni istituzionali, tipo: - la SV. è invitata a presentarsi alla visita di controllo… pena (sic!) non presentandosi, la cancellazione dall’elenco degli aventi diritto…

 

                                                     
Carmelo Samonà scrisse Fratelli, romanzo ispirato alla sua convivenza con un caso di autismo, in cui viene narrato il suo coinvolgimento e la sua partecipazione, ma pure un’esasperazione involontaria e quasi non riconosciuta. Si veda l’elaborazione costante di una tabella mentale delle risorse e delle incapacità dell’altro, quasi con la speranza di potersi così meglio rapportare a lui. Fino allo smarrimento del ragazzo autistico in mezzo al mercato, a un banco di mele… In una mia recensione notavo che la mela era pure presente ne Il Diario di una Schizofrenica, con la funzione di oggetto simbolico che mediava tra l’esperienza infantile dell’allattamento e il mondo esterno. Samonà mi disse poi che conosceva il Diario ma che scrivendo non ci aveva affatto pensato consciamente. A me il libro Fratelli fece ripensare a una storiella zen più volte citata da Hrair Terzian, neurologo impegnato con Basaglia in Psichiatria Democratica: In un paese ferocemente dittatoriale si trovano in un carcere tre uomini: un politico, uno sciocco debole mentale e un tipo qualunque. Il politico si impegna subito al massimo per cercare di evadere, finché dice disperato al tipo qualunque: aiutami, cosa stai facendo!? E lui gli risponde, ti sto aiutando, non vedi, sto cercando di capirmi con questo sciocco, se riusciamo a evadere non vorrai mica lasciarlo qui!

 

 

 

A proposito di handicap mentale, Pirandello ci porta spesso sul tema in modo così “normale” che quasi non si nota. Così è, Se vi Pare, rappresenta la follia nella sua ambiguità di ruoli e di messaggi reciproci; e non a caso un personaggio si chiama Morena. Pirandello aveva conosciuto di persona Moreno, l’ideatore della tecnica terapeutica dello psicodramma, metodo in cui si rievocano e si recitano reiterate volte situazioni di disagio psicologico; e così ruotando via via le parti con altri, si sdrammatizzano e si comprendono tali situazioni, e le dinamiche sempre reciproche, che le provocano. L’attenzione di Pirandello era comunque precedente; come non ricordare La Giara ? L’artigiano gobbo costretto a riparare il coccio dall’interno, dove resta incastrato. Ho usato tale situazione per brevi psicodrammi formativi per operatori sociali, in particolare quando il gobbo incastrato viene aiutato a cercare di uscire, strattonato e colpevolizzato per la sua gobba ... Esperienza tragicomica non buonista, che puù rivelare sgradevoli retroscena delle cosiddette relazioni di aiuto, ma proprio per questo formativa.

 

 

 

Di brocca in brocca… Nel ‘48 esce L’Innominabile di Beckett,. Un grandioso e pacato soliloquio che diventa romanzo, di qualcuno del tutto invalidato, forse dalla guerra, senza braccia e senza gambe, tenuto in una giara all’ingresso di un’osteria, come insegna per i clienti. Lagrima molto nel suo parlare o nel suo soliloquio, ma non può tergersi le lagrime. Sembra che abbia molta esperienza di vita, e ricorda quando utilizzava le stampelle e cadeva; riferisce pure malinconici scherzi che fa alla buona donna che di tanto in tanto lo accudisce, abbassandosi nella giara e fingendo di essere scomparso. Il finale sintetizza il paradosso esistenziale dell’innominabile inamovibile: “ non  posso andare avanti, andrò avanti “ forse morendo. Un intero romanzo che rischia di risultare sgradevole o conturbante, ma non per questo risulta meno interessante e coinvolgente.  

 

 

 

Proprio alla fine della prima guerra mondiale, Freud scrisse Il Perturbante, un saggio di analisi letteraria. Il concetto di perturbante (già proposto da Ernst Jentsch a proposito de L’Uomo della Sabbia di Hoffmann) viene interpretato psicanaliticamente. Cavare gli occhi ai bambini insonni è un’evocazione dell’angoscia di castrazione, ma i temi del conturbante secondo Freud sono ampi: il sepolto vivo e il morto vivente, le ripetizioni ossessive e l’animazione dell’inanimato, e tutti evocano fantasie e annunciazione di morte, il presentimento del lutto di noi stessi. E’  per questa ragione che la letteratura sull’handicap, che dovrebbe farci immedesimare nel problema, non può non indispettire. Come ci dice la psicologia: gli affetti sono estensioni di noi stessi, e allora diremmo che l’handicap è invece una limitazione di sé stessi, una perdita, un lutto; lutto che come tale richiede di essere elaborato tra fasi di rabbia e di idealizzazione, fino a una sua normale accettazione e a un po’ di idealizzazione. Ma l’handicap altrui può risultare – appunto – conturbante.

 

 

 

Anais Nin, nei suoi diari, descrive artisti e letterati da lei conosciuti, forse con eccessiva pretesa di intuizione psicologica, ma nel 3° volume riferito ai tempi di guerra, nota anche,  con preoccupazione razzismi e pregiudizi che esplodono, come quando il gelataio cinese appone ombrellini di carta  made in japan. Turbata riferisce anche che in una loro serata animata vedono comparire, fermandosi a mezzo busto sulla scala antincendio, il vicino invalido che protesta per il rumore; e poi scompare come se affondasse retrocedendo senza voltarsi per mantenere la presa alla ringhiera; registrando stavolta non pregiudizio ma stupore e turbamento, su cui riflettere.

 

 

 

Dacia Maraini , nel suo romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa ambientato nella Sicilia del 700, narra di una nobile ragazza sordomuta che viene finalmente presa in sposa da un vecchio parente, proprio colui che ha provocato il suo disturbo violentandola da bambina. Già nella metà dell’800 La Cieca di Sorrento, romanzo di Francesco Mastriani, ex studente di medicina passato al giornalismo, narrava di una ragazza divenuta cieca dopo aver assistito a un omicidio, cui l’amore e la competenza medica del suo amato ridonano la vista. La letteratura evidenzia così la componente psicosomatica dell’ handicap, che può aggravarlo o perfino provocarlo e a volte alleviarlo, storie umane  ben reali e sofferte seppur rimosse. Per evitare rimozioni, come non ricordare anche Metello di Pratolini, romanzo storico-sociale ambientato nella vita vissuta dal proletariato dell’ottocento. In questo contesto il protagonista ha la sua iniziazione con una prostituta, formosa di petto ma con gracili gambe disabili.  E’ un rarissimo riferimento a come la sessualità si intrecci normalmente con l’handicap. e tanta rarità rivela  forse il persistere di qualche tabù. Noterei invece, che non trovo neppure un riferimento letterario moderno sul tema handicap e miracoli (tema presente invece nel cinema).

 

 

 

Rari sono i riferimenti letterari alla carrozzina per disabili, simbolo fin troppo e anche a sproposito usato nella segnaletica  urbana.  Un cavallo per La Strega, romanzo del 1961 di Agatha Christie, ex crocerossina di guerra, presenta un protagonista in sedia a ruote, invalido per polio, sospettato di aver assassinato un parroco, e forse di essere un falso invalido; L’accusa è avanzata proprio dal vero assassino, che gestisce omicidi a pagamento sotto forma di regolari scommesse, effettuate sulla vita delle vittime designate. Dostoevskij ne Il Giocatore ci presentava una ricca vecchietta  russa, costretta in sedia a rotelle, di cui tutti aspettano la morte per ereditare. Ma questa arriva nel centro termale tedesco, e induce il protagonista, e quasi lo seduce, per farsi accompagnare con la carrozzina al casinò, dove entrambi precipitano nel vizio dell’azzardo.  La sedia a ruote come simbolo dell’azzardo?

 

 

 

Recentemente l’handicap ha iniziato a esprimersi in prima persona: dopo Diario di una Schizofrenica curato da Margherite Sechehaye, citerei Il mio Piede Sinistro di Christy Brown, la storia di un ragazzo nato con gravissime difficoltà motorie, che avvalendosi disperatamente del rapporto con operatori assistenziali recupera un po’ di mobilità e la capacità di scrivere. Le pagine più toccanti e coinvolgenti sono quelle relative al suo innamoramento per una ragazza, che sembra quasi ricambiarlo; e in ottica psicoanalitica sembrano confermare che sono le valenze erotiche la chiave della socializzazione. L’amico Francesco Scarin ha scritto Romanzo di una vita diversa, dove narra l’avanzare di una sua  malattia degenerativa, le sue ansie e la continua ricerca di trucchi per compensarla, fino al crollo nell’inefficienza assoluta, crollo da cui riparte però con miglioramenti rapidi e progressivi, impegnato in una nuova vita con una nuova compagna. Dall’introduzione che mi ha chiesto deriva la prima idea del presente scritto.

 

Nei primi anni novanta promossi, tramite il Quartiere Centro di Padova, un concorso letterario sulla scrittura dell’handicap, da cui derivò un fascicolo di scritti, tutti non banali: vinse Roberto Bison con uno scritto autobiografico molto incisivo. Ricordo il brano in cui lui bloccato in carrozzina, si sta per incontrare con il Papa, ma i suoi accompagnatori lo abbandonarono festosi, per andare loro incontro a Sua Santità. Come poeta Bison ha scritto  Essere, varie liriche d’amore sempre sofferte e mai banali o leziose, e una sulla propria morte in cui chiede di essere cremato per non restare tra i vermi, che troppo gli sono stati intorno. Nel fascicolo del concorso ripubblicai anche uno scritto di Palazzeschi, ricevuto, ritrovato credo su “La Voce”: l’impianto era futurista e dichiarava che era ora di finirla con il pietismo, l’assistenzialismo e la malattia… quantomeno deridendoli. Dobbiamo a Palazzeschi, futurista, forse la più decadente adesione al manifesto di Marinetti che dice :“ Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.”  E Palazzeschi sembra rispondere :“Qualcuno cammina più profondo / e pigia una sua stampella / credendo di sfondare il mondo. /E di sopra a spiare argutamente,/ carovane di stelle luccicanti.”

 

 

 

La sua famosa poesia in sintetici versi trisillabi, La fontana Malata, esprime forse il primo, allusivo accenno all’eutanasia: “ …\ mettete \qualcosa \ per farla \ finire \ magari… \ magari \ morire.”  

 

 

 

Molti titoli cui ho fatto riferimento hanno dato vita a film, confermando il diffondersi della tematica dell’handicap nel cosiddetto immaginario collettivo, tra questi ne ricorderei soltanto due, piuttosto diversi tra loro:  il dottor Stranamore, ex scienziato nazista, in sedia a rotelle; la cui protesi al braccio scatta convulsamente nel saluto romano e poi tenta di strozzarlo, mentre lui annuncia entusiasta la bella vita che aspetta i pochi sopravvissuti del dopo-bomba.   L’altro film, Profumo di Donna, derivato da un racconto di Arpino, e interpretato nel 74 da Gassman e poi in un remake del 92 da Al Pacino. Qui proprio nel finale, dopo tentati suicidi e una corsa in Ferrari da lui guidata alla cieca, il vecchio militare cieco di guerra, si introduce nell’assemblea scolastica che vorrebbe espellere il suo giovane accompagnatore, e in un memorabile discorso ricorda che la guerra tragicamente produce ciechi ma anche corpi mutilati, e diffida la scuola dal voler mutilare, invece, l’anima dei giovani.

 

Una bella e amata mia collega psicologa, Bruna Sartena, divenuta cieca ha poi scritto "Uno sguardo al buio", "Psicologia dei ciechi", ora anche in internet. Qui ci dice come salvarsi la vita perdendo la vista... spaziando dalle possibilità assistenziali (inizialmente rivolte ai ciechi di guerra) all'inserimento familiare e lavorativo; fino alle esigenze affettive ed erotiche dove occorre evitare pietismi e iperprotettività. Dandoci  pochi garbati incisivi riferimenti al suo percorso personale; così il suo istruttore cieco le confidava la propria attenzione erotizzante per il suono dei tacchi delle accompagnatrici, e lei invece dice che si coinvolge alle sensazioni del braccio dell'accompagnatore. Riferimenti questi che, alla presentazione del suo libro, provocarono un brusco scompiglio tra accompagnatori e ciechi. D'altronde un altro breve scritto della Sartena su Edipo, esplicita che egli si acceca dandosi la peggiore delle punizioni, per aver seppur involontariamente violato le norme e i tabù sociali.

 

Edipo, prima zoppo, poi anche cieco! Secondo Freud Edipo è metafora della travagliata affettività umana e di una imprevista continuità tra pulsioni ed eventi, coscienti e inconsci. Uno spettacolo di Nin Scolari, attore e regista padovano, si dilungava sulla difficile riabilitazione del piccolo reso zoppo, e ciò mi fece intuire in quel suo trauma remoto, il motivo di tanta rabbia assassina, nell'incrociarsi col padre neppure riconosciuto...

Scoperti gli arcani Edipo si acceca con la fibbia della cintura della moglie-madre incestuosa che si è impiccata. Nel dramma di Sofocle il fatto viene detto sempre "disgrazia", ma la recente psicoanalisi considera l'accecamento di Edipo come simbolo di una dolorosa ricerca nel proprio inconscio. Bruna Sartena ha rilevato il frequente lapsus per cui il titolo del suo libro "Uno sguardo dal buio", viene letto; uno sguardo "nel" buio, e allora si potrebbe  dire che la cecità è anche metafora del persistente rifiuto sociale di vedere i problemi dell'handicap.

 

 

 

Cercando una sintesi di questa rassegna sulla letteratura dell’handicap, ricordo una conversazione sul tema, a New York con uno psichiatra russo lì rifugiatosi e che lì fu mio mentore, e mi spiegava che fare psicoterapia in un mondo interculturale come gli USA (e in prospettiva  ovunque) richiedeva un costante riferimento all’antropologia.  E quanto all’handicap mi fece osservare che le storie dei super eroi dei fumetti di Stan Lee & Jack Kirby, tracciavano una nuova mitologia dell’handicap: Infatti supereroi buoni come i Fantastici Quattro, sono diventati tali a seguito di irradiazioni nucleari dello Spazio e i loro “superpoteri” sembrano una ottimistica  reinterpretazione di ciò che si chiamavano “funzioni vicarianti” al danno.  Cosi Hulk, giovane scienziato rimasto contaminato da radiazioni durante un esperimento, quando si indigna contro i cattivi diventa a sua stessa insaputa un mostro colossale e fa giustizia… La morale della storia sembra essere che il pericolo di radiazioni nocive potrebbe avere effetti positivi. Come non ricordare invece, Il Diario di Hiroshima, di Michihiko Hachiya, medico che dopo la bomba manda avanti l’ospedale crollato, e anche quando  capisce che si tratta di radiazioni mortali continua il suo impegno, forse eroico ma senza superpoteri.

 

 

 

I fumetti dei supereroi  esplicitano una mitologia ottimistica rivolta al futuro, che sembra volerne negare le possibili nocività; ogni mitologia prevede delle varianti:  Se l’handicap non fosse umano!?  Ricordo così un bel fumetto di Frank Hanpson, che leggevo da bambino, Dan Dare, astronauta del futuro impegnato contro il  malefico Mekon, piccolo venusiano verde, frutto di esperimenti scientifici,  con una testa grandissima e super efficiente e un gracile corpicino quasi inutile, costretto a vivere e spostarsi su una sorta di scodella antigravitazionale; e una volta che viene rovesciato dal supporto sospeso lo si vede annaspare pateticamente.  Dan Dare lo chiama spregevolmente lo Zuccone. Per inciso, invece, Gambadilegno, il gattaccio che perseguita il buon Topolino di Disney, proprio durante la guerra ha montato una scarpa coprendo la sua protesi… cattivo, ma non invalido di guerra.

 

 

 

Miti d’oggi di Barthes ha proposto di indagare le mitologie  della nostra società usando i metodi della moderna antropologia: Così, dalle auto innovative, alle attrici più seducenti, dalle tematiche razziste, alle patate fritte alla francese, si evidenzia lo svilupparsi di un unico linguaggio simbolico che sembra rivolto a farci ben accettare presente e futuro. Analogamente potremmo rileggere il nostro excursus sull’handicap in letteratura come un unico discorso, come un susseguirsi di temi diversi ma collegati in una sola struttura simbolica, che traccia  ruoli, tabù e indicazioni morali. Così troviamo: l’handicap motorio visto con sospetto e potenzialmente malvagio, l’handicap sensoriale che maggiormente si adatta alla ingenuità delle vittime, l’handicap mentale più profondamente tabù, che insidia anche noi stessi a nostra insaputa.

 

 

 

Secondo la psicologia della comunicazione è possibile classificare gli handicap (e soprattutto i loro aspetti più evidenti) come “simpatici o antipatici”, a seconda della comprensione e del coinvolgimento che possono suscitare… La pubblicità che raccoglie donazioni utilizza soprattutto gli aspetti simpatici, ma la letteratura può calarci nella dimensione più rifiutata,  antipatica anche per chi è coinvolto con le disabilità. D’altronde gli eufemismi usati soprattutto dalle Istituzioni non aiutano certo la comprensione: pensiamo a strausate locuzioni quali: persone diversamente abili o  portatori di handicap (strana metafora quasi colpevolizzante); eufemismi peraltro mai  riscontrati nei testi letterari sul tema. e che sembrano esprimere il proprio distacco  dall’argomento.

 

 

 

Come dicevo, la letteratura può essere una buona via per accostarsi e confrontarsi con la varietà delle disabilità, dei suoi problemi e  delle sue fantasie, nonché delle repulsioni che può suscitare. Mi pare allora adatta come sintesi conclusiva, la poesia di Silvia Plath, L’Aspirante, che sembra evocare ogni sorta di handicap,  forse nel contesto di una visita medica fiscale… 

 

 

 

Prima di tutto ce li hai i requisiti?

Ce l’hai?

Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia.

Un tirante o un uncino,

Seni di gomma, inguine di gomma,

 

Rattoppi o qualcosa che manca? Ah

No? E allora che mai possiamo darti?

Smetti di piangere

Apri la mano.

Vuota? Vuota. Ma ecco una mano.

 

 

                                                                         Adolfo Sergio Omodeo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 562 Data: 30/05/2016 16:15:52