I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
L’UTOPIA POSSIBILE
L’umanesimo poetico di Federica Giordano
La poesia della Giordano è poesia della coscienza sorretta da una permanente vocazione filosofica, da intendersi quale riflessione costante sulla vita spirituale e morale del nostro esserci storico.
La forma lirica serve, dunque, questo esercizio del pensiero, talmente naturale e onesto da non deprivare la forma poetica delle sue più preziose sostanze, che sono la rilettura sentimentale degli eventi che si fanno umori, la potenza autonoma dell’immagine e il misterioso accesso a forme archetipiche nelle quali può avvenire il riconoscimento collettivo.
Il punto più alto di questo lavorio intellettuale è Utopia fuggiasca (Marco Saya Edizioni, 2016), opera nella quale l’istanza etica perimetra e impegna l’intera struttura. L’utopia, si dichiara prontamente come lo sforzo storico di aderire al bello e al giusto, quali categorie di partenza di un processo di umanizzazione che si oppone, prepotentemente e coscientemente, all’opera costante di disumanizzazione che svilisce e affligge la nostra epoca. È immediatamente da intendere quanto il dettato della Giordano non sia un dire generazionale, poiché esso sfugge alle costrizioni della poesia civile e supera le contingenze per attivare un umanesimo che commercia più con lo spirito che con la storia: l’uomo come misura di tutte le cose può essere metro di scempio, disillusione, miseria, decadimento, oppure di bellezza, incanto, passione, pietà, meraviglia, che vanno poi a concretarsi sia nelle azioni grandi che in quelle piccole, quotidiane.
L’opera si apre con la sezione Luoghi bianchi, introdotta dalle parole di Simone Weil:
Non giudicare. Tutte le colpe sono uguali. C’è una colpa
sola: non avere la capacità di nutrirsi di luce.
Perché, abolita questa capacità, tutte le colpe sono
possibili.
Il maggiore delitto che l’uomo possa compiere sembra essere, dunque, quello di aderire alla disillusione e di rinunciare alla vocazione ad essere di più, per avocare a sé stesso una vita di miserie spirituali e morali e, quindi, di ombre. Le liriche di questa sezione esprimono questa battaglia intima e carnale tra luce e ombra, simbolizzandola ad un livello altissimo. All’umano il compito di rappresentare ciò che è corrotto e guasto, al naturale di permanere nella sua forma esatta, di mostrare nella sua essenza biologica e geologica i luoghi dove non nidifica il ribrezzo. Questo naturale, che non è soggetto ad alcuna forma di simbolizzazione tesa a ricondurlo ai segni umani, resta verace e primitivo in alcuni versi struggenti: nella poesia “Ercolano” una luce d’arancia ha inondato la via bianca, si procede, così, verso nicchie d’agrume e volti col tempo del latte, per incontrare l’erba indomita che segna il suo impero consenziente. Queste immagini agresti, che hanno consistenza scultorea, fanno da sfondo a una ingiustificabile assenza dell’uomo, intesa come disimpegno, e al suo lavorio meccanico e alla sua sciatteria immaginativa. Testimoni di questo scarto tra naturale e storico – dove lo storico, inteso come azione propriamente umana, si risolve nel delitto del bello – sono luoghi-memoria: una Pompei madre antica, un silenzio severo di Cuma, fino a una Basilicata cruda e vivida, dove la Giordano rivela una voce doppia e matura:
La Basilicata è tutta un timore da mandria che perturba il silenzio.
Primitivo e perentorio il canto corale delle pietre.
La grotta racchiude tutta la fame e le vicende antiche le custodisce
una Murgia imperturbabile.
Questa distonia tra naturale e storico somiglia a quella tra sacro e profano: se la storicità viene intesa come la proprietà di incidere sul naturale fornendolo di un contenuto culturale, quando questo contenuto culturale è gonfio di brutture, allora esso è solamente atto profanatore sullo sfondo di un naturale che resta, in opposizione, indispensabile e sacro. Una sacralità, però, delle piccole cose e del loro prodigioso esistere: un polipo che si contorce oppure un dattero di mare capace, nel suo lento lavorio, di penetrare la roccia, fino alla voce collettiva che impera dal frutto bagnato.
Questi sono i luoghi bianchi; il bianco è ciò che resta dopo un esercizio di semplificazione, di pulitura, di eliminazione dell’orpello, come rivela, non a caso, la potente immagine di copertina del libro, una fotografia di Riccardo Varini “Serie Silenzi”.
La seconda sezione – Ifigenia, poesie-sacrificio- si apre al confronto diretto con l’antico, anch’esso sacro, ma di una sacralità pagana, composta di memorie e di slanci umani, benché trasfigurati nei fatti mitici. Appare qui una luce umana, segreta, qualcosa che scalpita sotto le ferraglie urbane:
Invece noi conserviamo nell’asfalto
la nostra luce greca,
nell’addio lanciato sul binario
nella folla sconfitta dal numero.
Questa luce intermittente e clamorosa, che un tempo promanava dall’umano, contiene un’unica proposta: la scelta, che è ciò che misura l’esatto peso dell’essere uomo. Il verso scavalca la vicenda, viene ripetuto più di una volta come un monito o come una invocazione. Sembra definirsi tutto qui il significato dell’avventura dell’esistere: lo sforzo di compiersi e di esordire col proprio personale discorso nel discorso del mondo.
In questi versi della Giordano ci si ubriaca di antico, si vacilla dinanzi a parole che hanno forza oracolare e a comandamenti che ammutoliscono. Si intuisce, adesso, la presenza di un umano miracoloso, deposto in oggetti segreti come un busto di statua dinanzi al quale il tempo è vigilia. Trema nel petto una suggestione remota, un presentimento che sia ancora possibile compiere mille volte in una vita il primo movimento, ovvero costantemente rinnovare il sentimento di tutte le cose.
A questa sezione segue Utopia, l’ultima e la più densa, la più feroce. Troviamo qui il peso di storie reali, di vite profanate e consumate; un bagno in una prosa colloquiale, che sospende, soprattutto nelle prime liriche, il verso corto e quasi refrattario di Luoghi bianchi, così come la sacra tensione di Ifigenia, per immolarsi all’altare del vero, scabro e pungente, apparentemente irrisolvibile. Appaiono figure definite di uomini e di donne, che la Giordano chiama a sé in un giro di ricognizione, per esplorare la sua storia e la loro storia, per misurare lo spazio comune dell’azione e prepararsi a ricevere un tempo nuovo.
I versi sembrano percorsi da una fame vorace di dire, di sapere e di confronto con l’altro reale che ha fatto naufragio nelle nostre vite; lentamente la fame si calma e si ridefiniscono, in maniera adesso compiuta, tutte le tematiche affrontate nella raccolta. Con voce calma, viene ribadita la volontà di resistere all’imperio del disincanto e, se si deve offrire ancora un canto, esso si offre a chi trasforma in fiore la pietra.
Questa necessità di evocare l’altro, rivela quanto ogni azione umana mostri il suo valore specifico nella tensione intersoggettiva e relazionale che essa contiene, tensione che ci introduce nella patria umana. L’opera si chiude, dunque, assieme agli altri io che la Giordano ha chiamato a raccolta, per costruire case, costruire destini, costruire sulla carogna del caso.