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Raccolta di recensioni scritte da Patrizia Pallotta
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Valter Casagrande - Poesia - Universitalia Editore

L’uomo dell’arcobaleno

 

Il mondo poetico che ci consegna Valter Casagrande, attento spettatore della vita, è permeato da un incedere delicato ed incisivo che, pur nell’esaltazione dei valori e delle bellezze esistenziali, rimane aderente alla verità ed alla realtà.

L’autore non cerca risposte: esse si nascondono, sotto forma di metafora, fra gli elementi della natura, così consoni e vicini all‘autore, e si esplicitano attraverso un plasmare parole semplici, seppure inserite in un contesto originale ed efficace.

Valter conosce perfettamente il film della vita: la sua poesia trasforma ed abbraccia il vissuto, il presente ed il futuro con estrema lucidità d’intenti, grazie a versi che si lasciano leggere incantando per la comune appartenenza.

I sogni, i ricordi sono spesso presenti in questa raccolta poetica, sempre accompagnata dalla dimensione del reale, mai contraffatto.

Le immagini della natura viva aiutano a comprendere il netto contrasto tra la segreta serenità che possiamo ancora trovare in luoghi dal sapore antico e la vita tecnologica che incombe ma alla quale dobbiamo adattarci. Il borgo tranquillo ai piedi del quale nascono costruzioni “caotiche e dure” descritto ne “il Paesaggio”, poesia fra le più toccanti, testimonia l’ennesimo confronto/opposizione.

L’animo del poeta vive la distanza fra i due mondi e fra gli aggettivi “vecchio e nuovo”, “lontano e presente”: una ruota che gira in nome del progresso ma, al contempo, un acerrimo combattimento per l’evoluzione.

Compare la rappresentazione del “rammarico” reale, che ogni volta si trasforma in un’icona che “scorre verso verdi vallate” (da “Sol invictus” ), mentre torna prepotente il mito di Orfeo e Euridice del quale Valter Casagrande è cultore.

L’abbraccio di riconoscenza verso il matematico Leonardo Fibonacci ed  altri personaggi noti al mondo della musica, come Fabrizio De Andrè e Pierangelo Bertoli, lo sguardo attento al mondo animale, danno corpo al senso di profonda sollecitudine che “agita” la mente di Valter; un piglio sincero, un tributo a tutti e per tutti.

La disperazione di un’alba malata che trasforma il giorno in relitto - una disperazione vegliata, ma nascosta nel fondo dell’anima - ha sapore di rabbia repressa ed annulla la voglia di combattere. Il salvagente del poeta è lo spettacolo della natura: ritrovarsi in essa purifica il respiro e sostiene, restituendo la forza per camminare ancora e seguire quel tragitto destinato o costruito dall’uomo stesso, spesso artefice del suo destino, sulla base di scelte che mai si devono giudicare, qualunque sia la loro natura.

La realtà filosofica di Valter Casagrande coincide, spesso, con quella pirandelliana: nel momento in cui la nostra personalità emerge, diventa automaticamente illusione perché scaturisce da un sentimento soggettivo che, in realtà, ci separa dal resto della vita, lasciandoci al buio.

Il “cronometro” di Valter non scandisce mai il contingente ma lega passato e presente in un unico svolgersi, radicato, peraltro, come nascesse dalla terra.

L’ottimismo di fondo del poeta, si pone in netta discordanza con il pensiero di Ugo Foscolo, il quale crede nell’eterno nulla.

L’uomo, sostiene il grande poeta, nasce e muore materia, non trova scopo nell’esistenza umana e ciò suscita un profondo turbamento interiore, che permea ogni sua opera.

Gli ideali di libertà, bellezza femminina, amore per la patria, dedizione per l’amicizia e le virtù, erano ritenuti dal Foscolo perfette illusioni. Questo è il negativo di una foto mai sviluppata interiormente, portata all’esasperazione dal vuoto che, per il Foscolo, acquista armonia solo attraverso la poesia.

Nel poeta Valter Casagrande non vive alcuna forma di pessimismo, non c’è alcun ripiego di pensiero quando il suo sguardo lucido va verso quella realtà dalla quale non viene mai schiacciato: nelle chiuse delle poesie si apre sempre un varco infinito.

Pur parlando di momenti diversi, di intendimenti in contrasto, i due poeti sono immagini restituite da uno stesso specchio, due colori che si contrappongono, il bianco e il nero: l’uno si protende a scoprire e far scoprire il sereno, l’altro vede solo buio intorno a sé.

“Il male dell’anima” in Valter prende un percorso totalmente diverso: introducendosi nel caleidoscopico passaggio tra colori cangianti, muove verso l’arcobaleno, dove potersi addormentare: la speranza non prevede né contiene il grigio ma  sorride ad un’unica iride.

Questo aspetto, tipico delle sillogi di Valter, è un lavorare passo dopo passo alla presa di coscienza del sé: il poeta riesce a toccare il cielo della speranza, gustare il profumo del domani che verrà con i suoi orpelli ma, anche, con un bagliore nuovo che scintilla nell’anima e non rappresenta una via di fuga bensì una strada priva di ombre.

E’ estremamente interessante ascoltare la sua voce come fosse fremito di cetra nella brezza dei canneti, presso la foce del fiume dell’esistenza.

 

Tu eri la  sera

che incombeva

sul mio corpo,

gravosa

come una pietra

e soffocavi il respiro.

Oggi ho slegato

i nodi della terra

e scoccato la freccia

verso l’arcobaleno.

Oggi sono salvo

d’ogni materia

entro nel suono

dell’immaginifico

e ti porto con me.

 


Id: 712 Data: 18/06/2013 12:00:00

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Massimo Pacetti - Romanzo - Lepisma

Fuga da Firenze

“Quante persone, quanti affetti, quanti amori, ricordi e storie mi sono lasciato alle spalle, troppe, sì forse troppe”.

Questo lacerto tratto dal romanzo di Massimo Pacetti rappresenta il giusto approccio alla lettura di “Fuga da Firenze”.

L’autore ci pone davanti ad un “excursus” personale, attraverso il quale, come in un film, si sviluppa la personale biografia, in alcuni momenti speculare alla nostra, muovendosi tra episodi vissuti o stati d’animo provati.

L’approccio a cui prima facevo riferimento unisce narrazione e riflessione.

Immediatamente si entra in contatto con l’io narrante: un guerriero stanco della vita di città, oppresso dal desiderio del rifugio nell’amore verso la terra,lasciata, ma mai dimenticata, una vita semplice, un percorso rivissuto con orgoglio e rivisto ora con la maturità che gli anni conferiscono.

Forte e dettagliata è la descrittiva iniziale del luogo natale, non solo paesaggistica, ma colma di abitudini familiari, care all’autore che riportano alla mancanza delle comodità odierne, ma che offrivano in compenso tanta purezza e semplicità nei rapporti interpersonali, densi di umanità e di valori impressi nel cuore adolescente.

I dettagli sono minuziosi, tanto da essere proiettati nello sguardo del lettore: sentire profumi, visionare luoghi, un vero canto alla natura, di genere pascoliniano.

Federico, questo il nome del protagonista, avverte, a volte in modo lacerante,la sensazione disagevole di non voler condividere il calendario quotidiano, piuttosto scegliere la via dell’isolamento nel passaggio, come egli stesso definisce “ all’orlo della memoria”.

L’autore vuole prendere e assaporare ciò che vive, sfruttando l’elemento ricordo, già menzionato e lo fa con queste parole “Erano i giorni in cui si pensava che dormire fosse tempo sprecato, c’era l’ansia di stare svegli, di vivere, vivere intensamente ogni minuto senza fermarsi mai, di fare, fare tutto, provare tutto per essere presenti in tutto”.

Appare evidente e riscontrabile negli esseri umani la smania giovanile che va sfumando con l’inevitabile passaggio del tempo.

Da questo pensiero si susseguono i vari flash-back, complici della spensieratezza del “vissuto”.

Riporto di seguito un pensiero del grande drammaturgo Luigi Pirandello, perché mi sembra giunga veramente ad “hoc”: E l’amore guardò il tempo e rise perché sapeva di non averne bisogno.

Finse di morire per un giorno e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva.

Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava”.

 

La sopravvivenza libera da ombre, sembra ascoltare il rumore della macchine in gara di notte, e i bicchieri di birra scolati dal vincitore e ancora l’unione della comitiva, i baci rubati con la complicità del buio.

Poi le donne...Morena, Mariella, Luana, Costanza, un carosello di nomi, scie di storie diverse, che non riescono a trascinare Federico nella stabilità di un’unione.

Non manca nel percorso del romanzo l’elemento “storico”. L’autore si sofferma sul ricordo del rapimento dell’onorevole Aldo Moro: lo stupore, la rabbia e la paura che sveste i valori di un paese, come l’l’Italia, violentata dal malessere comune e che reagisce usando l’arma estrema: il delitto.

Il pensiero in quel momento corre alle guerre mondiali rubate ora dai libri di storia che le rende immortali e indimenticabili, dando a Federico l’opportunità di un’ulteriore riflessione, sul presente e sul futuro, come fosse carta carbone ancora da consumare.

In poche parole, un altro scorcio di vita chi ci accomuna, ci ha accomunato e lo fa tutt’ora, in un ritorno all’aggressività.

 Il riferimento alla nascita durante gli anni ‘ 60 della Televisione, che porta nelle case suoni, voci e notizie che appassionano e che fanno riunire persone nei bar, per chi non può ancora permettersi un televisore, rappresenta una piacevole parentesi che indossa il sorriso giusto.

Il viaggio di Federico continua in modo catartico: molteplici sono i riferimenti ad incontri con personaggi singolari: un palestinese da accompagnare a Bologna, un incontro con Gabriella, una volontaria ritrovata da Federico, per desiderio di un padre disperato: nulla rimane nel limbo del pensiero dell’autore.

Sono episodi che lasciano trapelare un’umanità profonda e sincera, un rifiuto netto alla non -violenza un indirizzo verso la sensibilità del protagonista di essere comunque sempre disponibile, sebbene subentri il rammarico che involve e coinvolge le delusioni subite.

La ribellione insieme all’analisi dell’esistenza, è perennemente presente nello scrittore e scivola sottile nel riattraversare istante dopo istante il suo trascorso.

Qual’è dunque il nucleo centrale di questo romanzo? Risponderei “nostalgia” unita alla ricerca del recupero affettivo delle origini.

Il sentiero di Federico continua con l’incontro-scontro con altri personaggi, il testo ne è affollato, alcuni di questi interpretano la crudeltà come ragione di vita.

È forse questo appagante? Si chiede lo scrittore. Torna a fasi alterne il senso della natura come rifugio nelle luce del sole che illumina i passi del protagonista.

Prepotente e perentoria si riapre la voglia di fuggire dall’amarezza, che lascia il posto ad un animo aperto e intelligente nella deduzione appassionata di altre verità disconosciute.

L’autore non può fare a meno di farsi prendere da una domanda che incessante vive dentro di sé: Queste sono le persone che rappresentano il nostro futuro?

Giunge inevitabile il momento di scelta e di selettività nei confronti di amici, i quali, dopo aver fatto promesse e giuramenti di “eterna amicizia dichiarata”, si allontanano volutamente.

Sono quegli individui che infilzano il tallone d’Achille del cuore, del cervello e della vita privata.

Esistenza da vivere, dunque nella sua completa interezza. Tutto sembra saltare: la via dell’invidia, della gelosia e della vendetta che tocchi con mano senza guanti, per questo bruci le energie e volti le spalle al mondo che noi stessi abbiamo costruito, travolti da “insolite bassezze”, quel mondo che volge in tempesta e manda in orbita la decisione di cambiare.

“Cambiare” non è rompere con ciò che si è stato, né rinnegare il proprio passato remoto.

L’autore, infatti ribadisce che sia necessario sbagliare per capire la giusta strada, gustando la gioia della scelta, se ancora si è in tempo e volenterosi di farlo.

Solo nelle ultime pagine avremo il piacere di conoscere la scelta di Federico e le sue attendibili motivazioni.

Non ci sono chiavi o intenti diversi nella lettura di questo testo.

C’è solo un uomo, la sua o parte della nostra voce dentro la voce del chiaro-scuro, del dolce e dell’amaro dell’esistenza.

 



Id: 636 Data: 16/10/2012 12:00:00

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Marco Onofrio - Poesia - Edizioni della Sera

Disfunzioni

L’Apocalisse di un moderno Don Chisciotte

 

Con “Disfunzioni”, ottavo libro di poesia di Marco Onofrio, siamo piacevolmente di fronte ad un moderno “Don Chisciotte” o, se si vuole, “Don Sognatore”, o “Don Combattivo”. Lancia in resta, l'autore esprime nei sette tambureggianti poemetti che compongono il testo la “sua” verità. La verità, è noto, non è unica, ognuno ne costruisce una propria sulla base della quale lavorare: il Nome non esiste, o meglio molteplici sono gli appellativi che le si potrebbero dare, ma ogni individuo ne conserva gelosamente titolo e contenuto. Marco Onofrio, da coraggioso scrittore qual è, ha volutamente condiviso la sua verità, dando ad essa un titolo ben specifico: “Disfunzioni.” L'insieme delle verità si addiziona e forma una sorta di versione aggiornata dei quattro “novissimi” (morte, giudizio, inferno e paradiso) e delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), mantenendo l'indirizzo e la magia capaci di rappresentare la realtà spogliata di ogni mistero, sviscerata senza indugi, urlata con certezza, e pure mai pacificata, mai catartica. Il testo riunisce “ad litteram” il coinvolgimento dell'autore nel redigerlo, oltre a quello del lettore che ami la poesia, che sappia leggere con occhio attento, soppesando il vortice delle parole che vanno a formare il senso della loro verità.

La lettura dei precedenti testi poetici di Onofrio ci rende partecipi del suo cammino, delicato e incisivo al contempo, aiutandoci a interpretarlo come una “via maestra” irta di difficoltà, di canti d’amore, di solitudine, di amarezza, ma anche di immagini traboccanti luci e colori prismatici, comprensivi dei valori esistenti, come vettori diretti verso strade asfaltate o bianche, costellate di bivi. Per raggiungere il poeta nella sua particolare partecipazione alla vita si deve acquisire anche il pensiero filosofico, che non sempre viene colto con immediatezza, perché metaforizzato dai tuoni e dai suoni dei versi.

Questo testo di Onofrio è un incontro-scontro tangibile che attraversa i molti ponti della concretezza, lasciando le personali e particolari impressioni, viste da un'angolazione del tutto insolita. Gli occhiali inusuali si posano sugli umori, sulle sfide, sulle fughe, fino al silenzio buio delle stelle che, per altro, ne incrementano l'inquietudine.

La prima parte di “Disfunzioni” rappresenta la fuga simbolica da un palazzo, descritta con lenti d'ingrandimento tenebrose che cercano il vuoto. Il timore di affrontare il “nuovo” e lasciare il sicuro è trasparente; ma quale il sicuro? cosa il certo?

L'autore scava e trova assenze che guardano davanti e dietro di sé, assenze che lasciano spazio al crollo dei valori umani, vissuti interiormente, tanto da desiderare un nascondiglio sicuro, poeticamente indicato come la valva della conchiglia. Questa è la pace che cerchiamo?

Ascoltare le mutilazioni dell'anima non significa evadere da una forma qualsivoglia di “impegno”, altro nome dato alla verità, quanto piuttosto attraversare fino in fondo lo sfinimento della crisi, sottolineando l'esaurimento delle domande che martellano numerose, pur non togliendo al poeta uno spiraglio di forza combattiva. L'autore, tra le righe, chiede sostegno – anche se non lo dichiara – perché sa di averne necessità: una voce che si unisca alla sua per appoggiarlo nelle tesi che sostiene. Ma non esiste un'isola immaginaria, al contrario di “Utopia” di Thomas Moore, in cui rifugiarsi: non c'è via di scampo in questa lotta impari che spezza lo spirito. L'autore rivela e talvolta nasconde il suo disagio nel relazionarsi con il resto della civiltà umana, e tuttavia non demorde: continua a cercare il luogo dove si possano celare risposte, e quale sia il viaggio da intraprendere per raggiungerle.

Le immagini della “crisi” sono fosche o invisibili, sospese in aria o soffocate da un baratro

sconosciuto. L'importanza del vuoto è parte integrante di Onofrio, è l'intraducibile cornice esterna che induce a rompere il guscio della sua spiritualità, penetrando lentamente nel cuore come spina di rovo. Una sfera di luce si apre fra le tenebre e viene identificata forse come Dio, la Presenza che solo per un attimo eterno potrebbe essere l'Unica a rappresentarci e sostenerci. La visione, però, si chiude subito, cambia dimensione, si trasforma: irrompe il desiderio di distruggere tutto per trovare un punto da cui rinascere. Cancellare, sprofondare, risalire: il diagramma dei “corsi e ricorsi” della storia segna il percorso ondivago dello sguardo di Onofrio, la sua incapacità di accettare una realtà da lui accusata di falsità manifeste. Vaghi e nebulosi sono i momenti di ritorno alla speranza, che però ricade tra le caligini della follia. Per questo la visione si apre sui deportati, “i mille nessuno, gli uomini usurpati”, pigiati l'un sull'altro dentro un vagone, in viaggio verso il comune destino di morte, di insignificanza, già segnato sulla lavagna dell’esistenza.

Non manca, nel dissidio interiore di Onofrio, lo sguardo di riprovazione etica per certi rappresentanti dell’Autorità costituita, ad ogni livello delle sue Istituzioni (Chiesa compresa), e per le posizioni indebite che vengono occupate da personaggi spesso poco consoni al “seggio” che difendono con forza, solo perché garantisce loro privilegi e potere. E allora è un profluvio di ironia, di sarcasmo, di iperboli parodistiche. Le denunce si scagliano come frecce acuminate contro i personaggi dell'Intermezzo, tra motti partoriti da una fantasia fervida, al calor bianco, fino alla noncuranza di chi si associa banalmente, rimasticando il “si dice”, con superficialità... “Ma sì, dài,/ ma che te frega.../ Clap, clap, clapclap”.

L'autore non risparmia dai suoi strali l’invadenza tecnologica dei nostri giorni, già elemento proteiforme e inafferrabile, benché strumento necessario per la comunicazione di ciò che non sappiamo e forse non abbiamo più da dire. Bellissimi i versi del “Rifugio” nella rassegnazione : ... “Ad una feccia, a un vivere banale: / a musica che suona, ma non vale... /

E allora triste, sconsolato, quasi offeso / dall'essere che segna il mio avvenire/ e dal traguardo in fondo a questo viaggio/ la meta inarrivabile e vicina/ io guardo la mia anima bambina/ che muore e poi risorge senza posa (…) “...come la speranza, / cocciuta, irriducibile,ambiziosa...”

Il poeta prosegue nel dire: “...Mi schiaccia giusto dove c'è il coraggio / la guerra che ti scoppia nelle vene”... Il conflitto continua imperterrito e passa all'incapacità di reazione, tornando nel vuoto, quello orribile che si trasforma in palude e putrida cloaca desolante. Giunge improvvisa, dopo la corsa della foga che segnala, che declama, che parla di verità conclamate, la fase di stallo: l'autore ripudia a questo punto la reazione, perché sa che proseguire porterebbe all'ennesima sconfitta, nel non trovare i semi di una nuova alba.

Il mondo, secondo la visione apocalittica di Onofrio, è stato privato d'ogni valore dagli stessi uomini. Siamo noi stessi i colpevoli, noi che non abbiamo saputo fare da perno ad alcuna ricucitura umana, noi che abbiamo stracciato e gettato nel primo cestino vuoto un figlio qualunque. Non esistono le luci dell’avvento: anche quelle sono state spente da noi. La voce del poeta Marco Onofrio è unica e, al contempo, rappresenta l’ordito e lo schermo di un coro unanime. Il suo messaggio è partecipativo e coinvolgente, al punto che dovrebbe scuotere il pensiero di chi non vede o di chi volutamente ignora, nascondendosi dietro maschere e apparenze. …Ed ecco la sentenza dallo scranno: / espulso, espulso “a divinis” / dalla soglia d’ogni ateneo / nell’universo mondo / orbe terraqueo e siderale fondo… /Ah, sì, gioia immensurabile e blasfema!...

 



Id: 579 Data: 08/05/2012 12:00:00