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Stefania Fanesi Ferretti - Poesia e Prosa - Premio Libero Ferretti
Dove abita l’utopia
Filo d’invisibile argento - Una storia d’amore Un filo d’invisibile argento, “sinuoso, leggero, persino soave “, scende dall’alto nel momento della morte dell’amato e si dipana dal bozzolo che ne avvolgeva l’anima e il corpo, inesorabilmente tagliato e oscillante. Visione insolita, forse presentimento. Stefania, pur annichilita dal dolore, intuisce dal primo istante che raccoglierà quel filo d’aquilone e proverà a tessere l’abito di un nuovo amore, senza avere alcuna sicurezza della riuscita, perché una parte di lei era dentro il bozzolo disfatto e quella parte se ne è andata con lui. Ma l’amore è un mistero, è un miracolo l’amore, capace di scavare nell’assenza le sue vie imperscrutabili. Stefania si affida alle parole, le lascia fluire in frammenti, balbettii, gocce, schegge, riflessi; le lascia scendere e salire, cucire e scucire, recuperando memorie e attingendo ai suoi strumenti di lavoro, primo fra tutti quell’arte di tradurre che ha esercitato a lungo con appassionato impegno, e che significa immedesimarsi nel mondo dell’altro, entrare nella sua lingua e trasformarla. Non può dimenticare di aver respirato la pittura fin da bambina, lei figlia di Bruno Fanesi, artista marchigiano fortemente legato al paesaggio della sua origine anche quando se ne allontana, e moglie di Libero Ferretti, architetto e pittore anconetano scomparso prematuramente nel 2000“, sua città di adozione. Anche il dialogo con gli autori più cari – Emily Dickinson, Wislava Szymborska, Rimbaud, Kafka e tanti altri – offre un all’autrice un appiglio prezioso per entrare nella materia dei quadri lasciati da Libero. Sarà infatti un ridipingere, uno spogliarsi di sé per rivestire le forme dell’altro; per ricrearne i simboli, le figure, il viaggio e il vento, lasciandosi trasportare da un’energia sconosciuta ma certa. Così affiorano le immagini che lentamente l’accompagnano, come a ricomporre i tasselli di un sogno dimenticato nelle pagine di prose poetiche che formano la prima parte di questo libro. La prima immagine è la camera oscura, luogo di trasformazione alchemica e di stupite riapparizioni, esercizio di silenzio e di ascolto. La mia scrittura ha creato il suo “quadro”, dice Stefania. E noi lettori sentiamo che le parole, nutrite di sentimento e visionarietà, riescono nella loro piccolezza di semplici segni, nero su bianco, ad incarnarsi e a traghettarci lungo la corrente di un fiume che riprende a scorrere, calamitandoci in un flusso meditativo, sensuale, avventuroso… Poi lo specchio, al quale si chiede di vedere come se fosse l’occhio dell’amato, e la necessità di andare oltre lo specchio, perché esso può soltanto riflettere una donna dimezzata, prigioniera, “rossa gelatina di desiderio”. Discesa agli inferi e perduta nel vuoto dell’abbandono. Ma l’abbandono è anche un lasciarsi andare, una resa alla nudità della propria anima. E’ riprendere in mano il filo d’argento della vita/morte/rinascita e partorire altre immagini, sempre fecondate da luce di gemme, frammenti di specchi, corpi iridati e obelischi, enigmi affioranti dalla sabbia, colori e voli dei quadri di Libero. Infine il ponte e la piramide, che segnano i punti culminanti del viaggio. Le parole vorrebbero costruire un ponte per unire due rive gemelle ma disperatamente divise dall’assenza. Cercano il contatto con l’invisibile, vogliono andare oltre lo specchio per raggiungere le figure dell’immaginario. Possibilità? Pericolosa illusione? Incontriamo nel racconto una citazione di Kafka che sembra negare ogni speranza di proseguire il faticoso cammino: “Chi era? Un bambino? Un sogno? Un bandito? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi girai per vederlo. Un ponte che si volta? Non mi ero ancora voltato che già precipitavo ed ero straziato e infilzato sui sassi aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacifici dall’acqua impetuosa”. Bella e raggelante questa orfica fantasia di metamorfosi. Ma lo stesso Kafka ha detto: “La fermezza che mi dà il minimo scritto è meravigliosa e indubitata”. E’ una riflessione che ci conforta come un amuleto. Pensiamo a Giacomo Leopardi, alle sue invettive contro la natura matrigna e al suo rivolgersi alla luna con i dolci e semplici aggettivi che si usano per una ragazza di cui si è innamorati. La parola, la dolce umile semplice parola alla fine vince, e ricama al centro della tela/scrittura, con lo stesso filo dorato del pittore, il simbolo della piramide. La forma del fuoco, secondo l’etimologia. Il monte l’ascesa la verticalità. La sepoltura il fondo l’abisso. Lo scrigno, il cuore del cristallo, “la caverna spalancata nell’inaccessibile e nell’ignoto”. Inganno e pietra filosofale. Raggiunto grembo materno vissuto nuovamente in pienezza, nella consapevole conciliazione tra vita e morte. Parole del grande poeta Rainer Maria Rilke , risonanti nella lingua tedesca con la quale Stefania ha una lunga consuetudine di traduttrice, sono messe a suggello, sono fatte proprie perché coincidono alla perfezione con il cammino percorso fin qui: “Bisogna imparare a morire: ecco in che cosa consiste tutto il vivere. Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l’inaudito, deve essere ivi possibile …” Nel grembo Piramide si è già formato il seme che darà frutto: Esso verrà chiamato con un nome egualmente antico, dalla storia affascinante e sofferta a un tempo. Utopia. Luogo non luogo, e perciò il luogo del desiderio, dell’indicibile e dell’ignoto che ci sovrasta. Come non pensare a un tesoro sepolto, a una luce che rischiara qualcosa che prima non c’era? Il dolore, finite tutte le lacrime, può mandare nastri di luce come la grande e magica lanterna di un faro, uno degli emblemi scelti da Libero Ferretti per rappresentare la sua città di mare. Utopia era nei suoi quadri, era il vento, era il deserto, era la piramide, era la sua arte, ed è sempre l’arte nella sua essenza più vera. Di gradino in gradino, perdendosi e ritrovandosi, con femminile pazienza, cura e perseveranza, Stefania ha espresso la sua creatività sia nel dare forma a una prosa lirica originale e autentica sia nel realizzare, insieme al figlio Sandro, il progetto del premio rivolto a giovani artisti e architetti, affinché non vada perduto il lascito di un pittore che se ne è andato toppo presto. Il libro Dove abita l’utopia è anche un regalo di compleanno per gli undici anni del premio così intitolato, di cui si dà conto nella seconda parte del volume attraverso un ricco repertorio di immagini, testimonianze, notizie biobibliografiche e contributi critici.
Id: 1053 Data: 16/06/2017 12:00:00
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Pierluigi Cappello - Poesia - Rizzoli
Stato di quiete
Poesia di naufragio e di luce “Le cose perdute fanno grandi le cose salvate”. Questo verso, nella poesia senza titolo con la dedica “a mio padre”(p. 40), suona limpido e chiaro, se lo ritagliamo dal resto consola noi tutti che consideriamo il vuoto una condizione privilegiata per l’ascolto e i limiti come le nostre strade, sintetizzando mirabilmente un aspetto dello stato di quiete. Ma la dolcezza del leopardiano naufragare nulla toglie all’oscurità dell’abisso, al ribollire dei vortici e all’approssimarsi della tempesta, infatti subito dopo leggiamo: “ma sapessi il graffio, il taglio della tela, il vuoto che riempie”, e non possiamo non sentire quanto sia dolente quel graffio, chiodo nella carne e nello spirito, prezzo di quel vuoto. Tra questi due poli, come Pierluigi Cappello spiega in una prosa lucidissima e bella che già rasenta la poesia - e mi ha ricordato lo scorrere vario, inaspettato, fra realtà e sogno, della narrazione autobiografica di “Questa libertà” (Rizzoli 2012) – nella nota iniziale, vanno e vengono i trenta testi della raccolta, composti in “anni difficili”. In una condizione singolare, così singolare da sfiorare continuamente il mistero, che sembra avvolgere insieme chi scrive e chi legge. Alla parola viene affidato il compito, anch’esso difficile, di decifrare, alludere, suggerire, abbandonarsi, interrogare. Stelle fisse il bianco, l’azzurro, la luce, il bagliore, le apparizioni della memoria, i numi tutelari di un universo primigenio che si affaccia a volte con andamento di poemetto fiabesco o di racconto in versi, altre volte in istantanee del cuore, ineffabili e come sprofondate nell’oltre del desiderio; in visitazioni del padre e della madre che ci riportano odori, abiti, gesti, cose concrete che rimangono impresse nella memoria, ma i dettagli a un tratto si impennano e salgono in alto, come un canto sciolto in musica vanno a toccare corde dove mancano le parole e il sentimento diventa quasi una muta preghiera. Sono strappi, separazioni di sé da sé, sono rose e nomi, sono i nomi e un nome, quello del poeta, diventati luoghi in cui consistere e sostare durante e dopo l’avventura della mente alla ricerca di un miracoloso equilibrio fra opposti, come in un “battesimo dei nostri frammenti” che ci ricorda Mario Luzi. “… strappa dividi strappa ancora, /separa questo da quello, / la prima dall’ultima volta // e il suono dello strappo lasciato / chiamalo col mio nome”, così si conclude il primo componimento (p. 21). “… Accado allora / e mi lascio portare, dentro questa cosa che mi fa accadere / affidato al tempo come una foglia nel fiume. / Senza nome, ma con il tuo nome ben inciso” conclude “Equinozio”(p. 29) , dove mi piace pensare che il “tuo nome” si riferisca all’io lirico, a un amore, al fiume, al disegno riguardante noi, le nostre vite intrecciate insieme in un puntino dell’universo che chiamiamo Terra. E verso la fine il tema del “nome”è affidato a un’intera poesia, intitolata appunto “Oggi. Scrivere il nome”(p. 53), che disegna un itinerario spirituale di abbandono nel senso più alto, verso uno spazio di libertà senza ormeggi, disegnato ancora e sempre dalle nuvole. C’è tanto cielo in questi versi, scrittura di nuvole e scrittura delle origini, c’ il tempo che dilaga in uno spazio interiore, kairos più che chrono, un farsi presente delle cose simile alla grazia, anche quando subito si sfarina in cenere. Il passato raccontato al futuro, per esempio, in “Natività” (p. 33), è una traccia di questo tempo delle apparizioni, ogni volta rivisitato e nuovo: “La neve sarà già alta la mattina”. E già il primo verso ci introduce nell’atmosfera rarefatta e tesa della nascita e delle rinascite, con le impronte poetiche delle cose vissute, preziosi doni dello stato di quiete: “si troveranno tutti nella chiesa troppo grande / per il paese piccolo e daranno al Natale la forma / delle loro giacche sformate, del loro stare vicini, / del vapore dei loro aliti, lo faranno per loro / e perché è la festa …”. Nel poemetto “Colore”(p. 35) l’attesa dall’inizio alla fine ci tiene con il fiato sospeso: assistiamo a un rito d’iniziazione in cui bisogna imparare “la maniera di essere piccoli al mondo senza paura” e ciò non riguarda solo il bambino protagonista ma diventa metafora della nostra vita adulta e di altre paure e fragilità. Il racconto procede gettando nastri di luce come un faro nella notte, rivelando altro tempo e altro spazio: “E dei due il più breve affondava le radici nel futuro / e il più lungo affondava le radici nel passato, / e, insieme, intrecciavano una fune lanciata nell’ignoto e nel tempo”. Più avanti, nella poesia con la dedica “a mia madre”(pag 39), si oscilla fra nascere e morire, c’è l’amore lontano dei profeti di Israele e di ogni esilio, e il dolore in cui affonda l’unicità della solitudine umana: “Ovunque si è nati, si nasce nel ricordo, ognuno da solo”. ”Forse sarei più sola / senza la mia solitudine -“ dice Emily Dickinson nella sua stanza-cella, dalla quale si sporge cercando parole e immagini al femminile per scalare le vette più alte del pensiero e sfidare gli abissi. Mi sembra di vederla comparire qua e là, la poetessa di Amherst, bianca nel bianco, come un angelo: “..luce bianca, pietra e metallo nell’aria, / con il ritmo di uno scalpellino, un qualche uccello che non conosco / lascia il suo verso farsi novembre, / di punta in punta crescere e scomparire / e dappertutto non è il posto in cui cercare / nel silenzio acceso delle ossa, nella testa. / Dappertutto non è il posto dove cercare. “(“Sole di novembre”, p. 27). L’ultima sezione, eponima, è come un approdo nell’occhio del ciclone, la vertigine provata nell’immobilità. La poesia “Alba, stato di quiete” (p 50) inizia così: “Stare afferrati al sonno, luce e naufragio dove non si è toccati /… l’immobilità, qui, si forgia in dote, il guizzo rivelatore si cancella”. Versi che non finiscono mai perché ci chiedono di sostare e ancora sostare tra le pagine, per condividere la nostra parte di viaggio, in dialogo con loro, in uno specchio abbagliante o nero o trasparente, secondo i momenti, sempre fiduciosi che le rose pronunciate restino accese “come qualcosa di morto e dopo salvato”, mentre la vita scorre e ci riprende, a libro chiuso, nei piccoli gesti necessari di ogni giorno.
Id: 1042 Data: 05/05/2017 12:00:00
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Roberto Maggiani - Poesia - LaRecherche.it
L’indicibile
Quando ricevo un libro mi piace rigirarmelo fra le mani, per dritto e per rovescio, la copertina e l’indice, esergo e fotografie se ci sono, le dediche e i ringraziamenti. Soglie che preparano l’ingresso. Qui sono subito colpita dalle due foto. In fondo al libro un ritratto proustiano: il volto dell’autore con il suo gatto già allude agli enigmi del mondo animale, che stranamente possiamo toccare, accarezzare, stabilendo contatti ineffabili e bellissimi. Ed eccolo lì il caos del mondo, il fluire senza contorni precisi della materia, trattenuto in un istante in cui l’occhio sottrae la quotidianità alle forme abituali, creando l’illusione di sfiorare un oltre, come potrebbe fare un pittore con il suo pennello. L’immagine si addice al titolo, lo riscalda, lo infiamma, prelude all’esergo, ci prepara al paradosso del discorso poetico, alla sfida di tradurre in parole quello che alle parole sembra sottrarsi. L’amore è l’unica ispirazione: non è un inizio ma l’esito estremo di una spoliazione. Lo leggo sentendo echeggiare le parole di Paolo di Tarso. Alla fine rimane la carità, traduzione cristiana dell’amore che tutti e tutto comprende, non solo la persona amata. Mistero dei misteri, forse l’unico in cui ci è dato di affondare. Saliti i gradini, la soglia vera e propria è la poesia d’ingresso, emblematica dei versi che seguiranno. L’io lirico non sceglie il luogo, non si è proposto una meta, ma viene portato – da un disegno più grande di lui, o dall’inconscio, similmente a quanto accade in sogno, dove i dati reali si scompongono e si ricompongono in modo da suscitare meraviglia e sgomento. Come facciamo a figurarci un lago senza rive? Ciò che è impossibile all’immaginazione si prova a pronunciarlo, costruendo un’immagine che può aver luogo soltanto nella nostra interiorità. Nel cavo vuoto del vero ascolto, solo lì, il silenzio suggerisce la parola salvezza – un vibrare appena, un alito, che assomiglia alla brezza leggera in cui Dio si nasconde per passare vicino al profeta Elia. Più avanti, attraversando una simile avventura, la parola può farsi prendere. Generosamente dichiarata, quella e non un’altra. Deposte le armi dell’ironia, del cinismo, del materialismo a tutti i costi, della ricerca stilistica esasperata, dell’oscurità voluta. A piene mani si dà la parola, dalla terra al cielo, dalla scienza alla filosofia, rasentando la teologia e le domande ultime. Sentiero intravisto di versi che verranno dopo questo libro, continuandone il cammino. Devozione alla letteratura come vita, e alla vita che si lascia trasfigurare dai simboli dentro la sua pelle e la sua anima. E possibilità di fratellanza dentro questa rete che è una trama di unione e non di divisione. Che raccoglie chi cade, chi è solo, chi non spera, creando sponde e rive dove si infrangono dolcemente le onde più minacciose. * Leggi L'indicibile in formato e-book Leggi L'indicibile in formato copertina flessibile
Id: 1019 Data: 24/03/2017 12:00:00
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Salvatore Statello - Narrativa - di nicolò edizioni
Ines de Castro. Un mito lungo cinque secoli
Fra splendidi ozi allegri dì contavi Bell’Ines giovinetta ed il tuo cuore Sotto la man di chi n’avea le chiavi Lieti frutti cogliea d’un casto ardore Né t’era noto ancor ch’ai dì soavi Mesce il fato l’amaro, e il tuo Signore Solo talor chiedevi e di Montego Il dolce suolo … Mi piace mettere sulla soglia di queste semplici impressioni di lettrice alcuni versi di Luìs de Camoes, il Dante che ha dato al Portogallo il poema più famoso, nato nello splendore del pieno Rinascimento, quando un piccolo paese all’estremità occidentale d’Europa ha aperto i suoi orizzonti al mondo e ha consegnato i suoi personaggi e le sue storie alla poesia, trasformandoli in miti destinati a durare e a superare i propri confini, in un continuo scambio di reciproci influssi e richiami, non solo all’interno della cultura europea. Nei versi de Os Lusìadas sentiamo echeggiare l’incipit di “A Silvia”, che molti di noi portano stampato nel cuore fin dai primi anni di scuola. Leopardi conosceva questo poema, presente nella biblioteca paterna, e le due giovani donne, Ines e Nerina-Silvia, le sentiamo subito sorelle nell’unica figura di giovinetta destinata a morte prematura, ma anche a risorgere come una fenice nell’immaginario collettivo. E molte sono le risonanze leopardiane nella letteratura portoghese, come ci fa notare Maria Grazia Russo, che a questo tema ha dedicato un libro, nella sua intensa e appassionata presentazione del volume Ines de Castro - Un mito lungo cinque secoli (nicolò edizioni 2016), firmato da Salvatore Statello, con la collaborazione di Paola Ciarlantini. Ines de Castro è il nome di una donna realmente vissuta nel Portogallo del 1300 e morta tragicamente a causa di un amore impossibile che la legava al principe ereditario Pedro I, il quale l’ha onorata come una regina e come una moglie dopo la sua morte, e ha fatto costruire due sarcofagi bellissimi di pietra ornata di rilievi, uno accanto all’altro, nell’abbazia di Alcobaςa; ne vediamo le fotografie sfogliando queste pagine, insieme ad altre immagini che arricchiscono il testo: ritratti, dettagli di architetture e paesaggi, manifesti, scenografie, teatri. Ma il monumento più grande eretto nel nome di Ines è stato quello del mito, nato dalle sue vicende terrene a partire dal cinquecento. All’inizio della presentazione leggiamo due date: 1516 – 2016. Cinquecento anni di esistenza letteraria. Questo è il tema messo a fuoco dall’autore, che tratta l’argomento in modo avvincente affrontandone le molteplici sfaccettature. Dopo una sintetica analisi storica e antropologica degli ambienti di corte che fanno da sfondo alle vicende, tra realtà e leggenda fin dall’inizio, per i molti segreti ma anche per straordinari comportamenti da parte dei protagonisti, Don Pedro soprattutto e la visibilità che volle dare al suo amore perduto, Statello conduce noi lettori in medias res, cioè tra le pagine di alcune opere poetiche da lui stesso tradotte. Una interessante antologia, uno spaccato di letteratura portoghese che va dalle Trovas (Strofe) di Garcia de Resende, che introdusse nella letteratura ‘il più importante simbolo portoghese dell’amore tragico’, alla tragedia Castro, il capolavoro di Antonio Ferreira, pubblicata postuma nel 1598, ai Dodici sonetti di Francisco Manuel de Melo, fino al repertorio del teatro italiano. Questa parte ripropone il contenuto del volume dello stesso Statello, rivisto ed edito nel 2004, Ines de Castro eroina del teatro italiano tra settecento e ottocento, e comprende una rosa di autori, a partire da Domenico Laffi, un prete bolognese, vissuto nel seicento, che viaggiò molto per i suoi pellegrinaggi ed è il primo autore italiano che ha pubblicato un’opera su questo soggetto; il più noto al lettore comune è Pietro Metastasio, il quale ha il merito di introdurre le tragiche vicende di Ines nel melodramma, consegnando alle scene un’ opera ambientata nella mitologia greca, il Demofoonte, dove lei è chiamata Dircea. Ines, Nise, Inez, Dircea: diversi sono i nomi dati allo stesso personaggio come numerose e continue sono le metamorfosi che subiscono le vicende insieme ai loro protagonisti, ma costante mi sembra il richiamo, pur nella diversità di epoche, stili, culture, ai valori spirituali che sopravvivono: anima, amore, innocenza, unione nel mistero dell’eternità degli amanti sacrificati alla ragion di stato. Nella seconda parte del libro è Paola Ciarlantini, musicologa e compositrice, ad accompagnarci attraverso la storia operistica della nostra eroina, che ebbe molto successo soprattutto a cavallo tra settecento e ottocento. L’analisi dei libretti d’opera ci permette di seguire l’evolversi ulteriore del racconto, che assume accenti romantici e mira a coinvolgere gli spettatori con il susseguirsi dei colpi di scena, perfino con un sorprendente e catartico lieto fine. Tra i vari autori presi in esame uno spazio particolare è riservato al marchigiano Giuseppe Persiani e a sua moglie, il soprano Fanny Tacchinardi, (ai quali Ciarlantini ha già dedicato numerose pubblicazioni), seguendone l’intero percorso artistico dall’Italia alla Francia, dove entrambi vissero e lavorarono per molti anni fino al ritiro, in vecchiaia, a Neuilly sur Seine, dove sono sepolti. In queste pagine si respira l’aria dei teatri, il fermento e le ansie della prima, la festa degli applausi, l’emozione dei cantanti, l’atmosfera leggendaria che circonda le“ Prime donne di prima Sfera”, come Maria Malibran, Fanny Tacchinardi, Caroline Ungher, Erminia Frezzolini. Gustosi sono anche alcuni dettagli di costume o “burocratici”, come quello sul “decreto che proibiva ai cantanti di presentarsi più di una volta sulla scena per rispondere alle chiamate del pubblico, talmente numerose ad ogni replica da irritare i membri della corte”, tanto era stato incontenibile l’entusiasmo del pubblico alla prima dell’Ines de Castro di Persiani al San Carlo di Napoli, il 28 gennaio 1835. Le sorti del melodramma erano destinate a mutare nella seconda metà del secolo e nel corso del novecento, ma possiamo dire che il nostro libro si chiude in bellezza con un breve capitolo intitolato “La riscoperta moderna dell’opera di Persiani”: si dà conto infatti di un’attenzione al cosiddetto ‘ottocento minore’ da parte di studiosi ed enti, che hanno ideato nel 1995 il progetto “Riscoperta della civiltà musicale marchigiana”. In tale ambito è nuovamente risorta la fenice Ines di Persiani, rappresentata nel 1999 in prima mondiale moderna a Jesi con Maria Dragoni nei panni della protagonista. E dalle Marche lo sguardo di nuovo ritorna al punto di partenza, il Portogallo, ma questa volta la scena si svolge nel nostro tempo, nella bellissima piazza dell’antica città universitaria di Coimbra, dove l’opera ha ripreso vita il 6 e 7 giugno 2003, mentre una terza recita straordinaria è stata allestita il 10 giugno nella cattedrale dell’abbazia di Alcobaςa. E come non ricordare le parole di Leopardi (citate in nota a pag. 15) per concludere? Parole che vogliamo intendere come un’apertura, e un augurio per la fortuna dell’arte italiana del melodramma, in vista di un nuovo umanesimo che consideri la bellezza sempre più necessaria. ”Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime immagini nella poesia non solo spettano agli oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine riesce piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile immagine veduta in altre poesie”. (Zibaldone, 29 settembre 1821).
Id: 1009 Data: 04/11/2016 12:00:00
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Stefano Stronati - Romanzo - Europa Edizioni
Mark Dark. L’aiutante della morte
Il gioco delle parti di Mark Dark L’autore di questo libro, Stefano Stronati, mette in chiaro fin dal titolo qual è l’argomento di cui parla: Mark Dark è l’aiutante della Morte, quella con la lettera maiuscola, con il lungo mantello nero e la falce luccicante – la protagonista dei racconti dell’orrore, l’ombra lunga che vorremmo cancellare dalle nostre vite. Una sfida? Un gioco? Un corteggiamento? Un sogno? Sulla soglia troviamo una parola, poggiata lì a modo di esergo o dedica, una sola, “Grace”, con il suo riflesso tra parentesi, un gradino più sotto, “(Tolleranza)”. Poi c’è una premessa, brevissima, ma è già una chiave di lettura – un ingresso – dopo la formula di rito del ‘tutto inventato’: “Le uniche cose vere, naturalmente, sono le anime e la morte. Se guardate bene, infatti, anche adesso ci volano intorno”. E il lettore accorto intuisce subito che lo attende un viaggio insolito nel quale è immediatamente coinvolto. Entriamo in un sogno, seguito dal silenzio irreale del risveglio: così, in una specie di vuoto di coscienza prende corpo un pensiero appena sfiorato e lasciato andare, la morte è il materializzarsi di quel semplice desiderio di morire … L’atmosfera solenne e terrificante dell’inizio presto si stempera nel dialogo fra la Signora e Mark; si affacciano l’ironia, la complicità, l’amicizia, e anche lo scherzo. Con mano leggera e con notevole capacità inventiva, l’autore crea una trama avvincente di situazioni mai prevedibili, perché c’è sempre uno scarto, uno spiazzamento - l’esplorazione di un pezzetto di mondo sospeso fra sentimento e volontà, fra la noia e la pesantezza della realtà e la fuga nell’immaginazione, tra consapevolezza del limite e volo dai confini della terra alle galassie. Il movimento è continuo, avventuroso, piacevole e pieno di inquietudine. Scandito da spazi bianchi, irregolari, importanti, che rendono la pagina simile a uno spartito perché creano un ritmo particolare - e, quando le righe si rarefanno e assomigliano ai versi di una poesia, si sente battere una risonanza più profonda, come un colpo di gong. Si respira l’assillo del quotidiano nelle pagine di questo romanzo, dovere lavoro fretta routine corse contro il tempo sembrano risucchiare anche i due protagonisti, rendendoli omologati e rassicuranti nei comportamenti e nelle scelte, ma la vita continua a offrire spiragli di sorprendente libertà all’aiutante della Morte, proprio grazie a quella temuta e pericolosa vicinanza che continuamente gli rivela un’altra faccia, un’altra possibilità di conoscenza delle persone che incontra e di se stesso. Egli ha una vera vocazione all’empatia grazie alla quale riesce ad entrare nelle sensazioni, nei desideri, nell’amore degli altri. Ogni scambio diventa possibile, tutto sembra liquefarsi e raddensarsi oltre i limiti e gli orizzonti umani; anche i gesti partecipano a una sorta di rarefazione. Ci sono momenti molto belli, descritti con una dolcezza che rasenta l’indicibile, come il passo seguente: “Fermò la donna e fermò il tempo: un attimo, un delicato abbraccio, lasciando andare le sensazioni, sfiorando il delicato collo con le labbra, avvicinando la bocca alle graziose orecchie, senza toccarla, sospirando un lieve ‘arrivederci’ e sussurrando altre parole in una lingua non identificabile, completando il saluto con un ampio movimento delle mani, che non arrivavano alla pelle, ma sfioravano il corpo, penetrando l’aura della donna. L’essenza della ragazza sentì l’addio e sentì che il saluto era definitivo.” Ci sono atmosfere che fanno pensare a quelle del film Il cielo sopra Berlino, di Wim Wenders: “Ma i pensieri della gente sono molto di più di quanto le persone che li generano possano captare. Mark li sentiva tutti insieme Dai sentimenti più profondi a quelli più ignobili, dalle frivolezze agli apprezzamenti sulla barista, dalla disperazione all’armonia dei pensieri più semplici. (…) La prima ubriacatura di vita”. Ci sono corpi che sembrano anime e anime che sembrano corpi, sdoppiamenti e fughe, disfarsi e ricongiungersi della materia come fanno le parole sulla pagina, prestando ascolto a una loro musica misteriosa che è parte essenziale del gioco. Accade di scoprire legami irrinunciabili e di darsi appuntamenti nell’aldilà. Si ode nel sottofondo della storia, come un basso continuo, l’ invito ad assaporare ogni istante di vita. Per una felice coincidenza ho ritrovato la parola “Grace” dell’inizio del libro nella citazione, riportata dal giornale che stavo leggendo, di un frammento da “Il sale della vita” dell’antropologa francese Franςoise. Héritier: “C’è una leggerezza, una grazia tutta speciale nel puro e semplice fatto di esistere, al di là di tutti gli impegni professionali, dei sentimenti intensi, delle lotte politiche e umane: di questo, e di nient’altro, mi sono sforzata di parlare. Di quel piccolo ‘di più’ che si offre in dono a tutti noi, e che chiamerò il sale della vita.” Gli esempi che seguono, in un elenco di associazioni spontanee, sono molti sono molti, quello che noi stessi non vediamo o non arriviamo a valorizzare adeguatamente: percezioni, piccoli piaceri, dettagli dolorosi o allegri, momenti di buon umore, curiosità, luoghi, istanti del quotidiano. Ritornando al nostro Mark Dark, credo che sia questa la sua ricerca, condotta tra le pieghe di un sorprendente gioco delle parti con la morte. Il richiamo sottinteso e vibrante a scoprire il sale della propria vita nell’armonia delle cose semplici, senza mai perdere il contatto con quelle invisibili. Ogni istante, compreso il dolore, compreso il pianto. Le parole finali della Morte sono emblematiche a questo proposito, di nuovo evocano la nostalgia degli angeli di Wenders per i colori e i profumi della terra: “E vorrei vedere se sono in grado di piangere. Io, che non potrò mai fare la tua scelta, io che dovrò lasciare sempre tutti alle spalle, io che non potrò mai entrare nella tua ‘ciotola’ per dissolvermi insieme a chi voglio: in quelle acque oscure, per poi volare come Luce oltre il confine.”
Id: 972 Data: 20/05/2016 12:00:00
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Eugenio Nastasi - Poesia - EdiLet
L’occhio degli alberi
Spiegherò il mio enigma sulla cetra Il viaggio del poeta inizia con una leopardiana evocazione notturna, con un “profilo di luna” che si poserà non su deserti d’Oriente ma su frammenti di un mondo conosciuto ed esplorato a lungo – lumi camini prati sorgenti argini rocce laghi e montagne – eppure misterioso, intricato, e solo a tratti traducibile. La natura, quando entra in ogni nostra fibra non è più né proiezione né rispecchiamento: essa rimanda a un altrove di tempo e di spazio, a una ciclicità che ci sovrasta, a cataclismi e fragilità che quasi spontaneamente si trasformano in simboli, di fronte ai quali le parole più che definire suggeriscono, alludono, scavano, sfuggono. “c’è sempre un po’ d’inverno / nel chiudere una frase / il messaggio indietreggia / in un bosco interiore”. Il testo che ci accoglie sulla soglia del libro ce ne offre la prima chiave di lettura: preannuncia l’oscurità, la mancanza, la ricerca continua e l’inquietudine che spinge sempre più in là. I versi rimandano a capovolgimenti ed enigmi che mi hanno ricordato certe poesie del poeta svedese, recentemente insignito del premio Nobel, Tomas Transtromer, come I ricordi mi vedono : “… Devo uscire nel verde gremito / di ricordi e mi seguono con lo sguardo / Non si vedono, si fondono totalmente / con lo sfondo, camaleonti perfetti /…” E in Nastasi leggiamo, quasi in un negativo della scena: “il giorno si fa povero il passato addensa / mani che non tocchiamo come se / grandi dubbi ci prendessero alle spalle / e ogni notte / perché la notte beve ai nostri occhi / ci attraversa senza vederci…” Ecco allora la scelta o il venire incontro provvidenziale di un faro, di una stella mai spenta, che salvi nella fatica dei continui sconfinamenti, ed è “l’occhio degli alberi”, titolo e vero leit motiv dell’intera raccolta. “per non piegarmi ad altra liturgia / seguo l’occhio degli alberi / che guarda fisso il cielo”. Ma io lo vedo allargarsi anche dentro i cerchi dei tronchi, cuore che batte, invisibile, un tempo interno. E vedo l’occhio degli alberi che a sua volta guarda colui che cammina, perché è impossibile che non avvenga uno scambio, una trasmutazione. Desiderare, pregare, attraverso altri impulsi, altri segni, altre mete e appartenenze, come “… il cespuglio di eleagno, / col suo giallo pietoso verso terra / o “un prato diventa celeste / e tinge le mani di trifoglio”. Sono risposte a una sete d’infinito, istanti dipinti, tatuaggi d’erbe per dire le attese colmate, le latitudini ineffabili dello spirito raggiunte in un attimo senza ombre. I luoghi del silenzio dove il poeta ha il privilegio di un eremitaggio aperto e in movimento sono il correlativo oggettivo del bosco interiore, ma non solo; essi diventano infatti gradini e gradini della sua scala di Giacobbe intorno alla quale gli alberi volteggiano simili agli angeli. Egli stesso si dice profeta e ricorrenti sono parole come liturgia, cattedrale, confessare, templi, cilicio, perdono, anima, pellegrinaggio arca, infinito, preghiera, sigillo, pietra scartata, fede, ecc.; lessico e immagini indicano non solo un sentimento religioso verso tutte le creature, - il desiderio di sentirsi “cosa tra le cose” - ma vanno oltre attingendo pregnanza e forza alla sorgente del linguaggio biblico, dove elementi della natura sono spesso usati per lanciare i messaggi più importanti attraverso metafore di potente bellezza, soprattutto nei libri sapienziali e profetici. Ad esempio: “Le montagne portino pace al popolo / e le colline giustizia” (Salmo 72,3); ”Non griderà né alzerà il tono, / non farà udire in piazza la sua voce, /… non verrà meno e non si abbatterà / finché non avrà stabilito il diritto sulla terra / e per la sua dottrina saranno in attesa le isole” (Isaia,42,2-4). “Essi si chiameranno querce di giustizia / piantagione del Signore per manifestare la sua gloria” (Isaia,61,3). Come non sentir echeggiare queste e molte altre visioni di mistici poeti nei versi di Nastasi, soprattutto nei testi dove l’inquietudine si placa e qualcosa di impensato si accende; anche se il titolo potrebbe apparire sottotono grande è lo stupore di chi incontra i versi di una delle poesie più belle, e non fa meraviglia, tutta da citare, io mi limito alla parte finale: “e la piccola gemma vibra / a una prova ulteriore di tormenta / a costo di sporgersi oltre il mondo / ogni seme che spunta insieme a un altro / immagina una foresta in cammino”. Leggo qui una lode, una preghiera, uno slancio di comunione con il mondo, che ritrovo nel canto più disteso e limpido dell’ultima parte, quel finalino di coda in cui laghi vette alberi sono poeticamente conquistati ad uno ad uno e si stagliano, davanti ai nostri occhi, istoriati come nei sogni, con icastica plasticità: il lettore sogna insieme al poeta, vede per la prima volta, al ritmo e alla musica di una”aperta favola”, come è accaduto a me quando ho letto sul lago Cecita: “ I monti della Sila s’incatenano lontano, / l’acqua tracima in un mistero di mare. / Questo è il mio primo lago conosciuto / e questo è il ponte che ancora attraverso, / non muta specchio l’immagine / che ancora guardo con occhi assetati.” Questa è la prima poesia che ho letto, ed è stato come riconoscere una voce. Quanto profondamente fraterna lo avrei scoperto nel tempo, continuando a interrogare l’enigma spiegato sulla cetra di Eugenio Nastasi.
Id: 732 Data: 02/08/2013 12:00:00
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