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Francesco Pasca - Narrativa - Il Raggio Verde Edizioni
EU - TÒPOS
Apallage di riflessioni interstiziali su
EU – TOPOS Mi disegni una parola? La parola nominata
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Il pensiero travolge la pagina scarna e avanza seguendo la sinusoide dell’onda; abbraccia, scalcia, diventa magnete che attrae a sé il presente complesso delle cose. Avvinghia le essenze e le fagocita, annullando vincoli, dilaniando la corteccia incancrenita che ricopre le circostanze e diviene azione. Nel calpestare il terreno di indagine, Francesco Pasca dipana un groviglio in una dimensione olistico-immaginativa-reale e metabolizza ambienti e camminamenti storici per tracciare un nuovo percorso impregnato di mutevoli percezioni, per scivolare nell’ombelico della circostanza e tradurla in una dimensione senza dimensione. In rete priva di nodi. In spire di passati eventi che avviluppano il presente. Nel dettaglio delle cose l’orma incisa dal passo si ferma in un infinito secondo per concedere al pensiero di respirare. La meditazione e la consapevolezza del fare si propongono come creazione originale di un movimento che congiunge la mente, il cuore = sentire, l’anima e il sogno dell’attesa-aspettativa e della proiezione dei propri messaggi in percezione e proiezione. Una vicenda circostanziale è il luogo strutturale della narrazione, che si compone di una moltitudine di frammenti sparsi e rintracciabili solo da una mente acuta e attenta ad assimilare gli spazi calpestati. Il tracciato è la scoperta di un male che non disturba subito la fisicità in senso stretto, che deturpa le ricchezze dell’individuo assetato di circoscrivere nel suo scrigno ciò che rappresenta la continuità. Inanella una conversazione con gli spazi e gli ambienti presenti e passati adagiandoli su una tela che si rappresenta come danza cerebrale, una metacoria in cui il lungometraggio esistenziale e vitale si frantuma in a una serie di momenti focali da detenere per contrastare la dispersione della capacità cerebrale che il morbo di Alzheimer provoca inesorabilmente. Se la memoria fallisce, il passato si dissolve, i ricordi si dilaniano, la nostalgia irrompe e la rabbia-tristitia raggiunge la sua vittoria. Il grido si eleva ed è un grido non per cercare la libertà, ma per sapere cosa sia quel luogo di libertà per evitare lo stordimento della disperazione. Sviluppata in un intreccio che si inoltra negli angoli reconditi e apparentemente ininfluenti del passato, la storia si ricompone al presente, in cui la scoperta del male inequivocabile comporta il dissolvimento delle prospettive. Avanzano truci i nemici del ricordo che tentano di annichilire la ragione. La lotta è vita, è libertà. Soprattutto la parola nominata rappresenterà l’evoluzione della propria consapevolezza, che verrà scritta su fogli accartocciati per esplodere su una scena di silenziose atmosfere, di angoscianti equivoci. E si fermerà là dove la libertà del sogno prenderà il posto della libertà di riflessione. Romolo-Fiato lascerà di sé il nome, perderà il respiro cadenzato della meditazione. La performance finale sarà l’alito di una nuova esistenza. Attraverso la parola di Guido - voce narrante - il lettore vede scorrere immagini di un percorso che transita tra gli ambienti e il Tempo dell’uomo Romolo attraverso i suoi tempi: deluso e rabbioso come un moderno Des Esseintes, il protagonista parlato e parlante apostrofa la vita, tradito (forse) dal desiderio di continuare le sue esplorazioni e vivere fino all’ultima goccia. Non accelera il suo tempo, né fugge: egli lascia la sua ombra perché possa essere stimolante a tracciare la sua esistenza nella memoria universale o solo del suo pubblico o, comunque, di chi voglia sentire (Ho cercato di nominare la parola per generare l’equivoco p. 125). La preghiera invade la scena dell’intero libro, un minimo trattato per comprendere in ampia specie il segno ingrato della parola finita tradotta in immagine. Sul foglio ruvido e reso scabro dall’esperienza-percezione-esistenza, l’autore adopera la tecnica pittorica del frottage per incidere ripetutamente come un esicasmo affinché, nel procedere lentamente la litania perpetrata in un infinito che scavalca le pagine scritte, raggiunga livelli dilatati di conoscenza, senza l’aspettativa frettolosa di risposte segniche anodine, prolusione a spazi mentali vuoti tradotti in mere formule. L’illusione della comunicazione si realizza come fenomeno fuorviante esattamente nel momento lungo di assuefazione della parola che la parola medesima vanifica e incupisce quando il “reale delle cose” non avviene secondo il rituale di mediazione della meditazione. In tal senso va a riconsiderare i passi fino al presente avanzati, ne rimarca il processo, sollecita il pensiero a ricomporre il mosaico. Si ravvisa una prospettiva nuova che tenta di sconfiggere l’azione vendicativa del tempo cronologico, che nel libro si accompagna all’assillo del male in agguato. La concentrazione sulla fisicità ha lo scopo di superare la tristitia e deviare l’attenzione verso quell’ombelico che è luogo simbolico di partenza e di appartenenza. E’ quanto emerge dalla prospettiva ripensata attraverso la parola parlante, espressione enucleativa di ambiente+suoni+pensiero+pensieri+ricordi, che si configura come palcoscenico processuale (senza tributar encomi o sentenze di condanna) contro una definizione archetipica dell’apatia. Eu tòpos si presenta come narrazione polemica senza averne la forma. E’ il senso di un luogo preordinato di bene e di bello. E’ l’utopia di Thomas More. E’ il non luogo oscillante su fondamenta di ragionevolezza e ricordo. Fiato ostacola la parèsis in cui rischia di cadere come chiunque riconosca il non luogo del tempo futuro e manipola il pensiero-immagine-parola come stato di melanconia-meditazione, mediante la quale riappropriarsi della sua vita e lasciare che i suoi ricordi diventino memoria condivisa. E’ una realtà che colloca il pensiero nella visione obnubilata e disturbata della percezione di Joyce e Yeats nei confronti dell’apatia e della paralisi che intravedevano nell’Irlanda del loro tempo. Ma il tempo non ha dimensione e pertanto si può configurare una sorta di paralisi anche nel suo-nostro tempo convulso, in cui la traiettoria palindromica delle sollecitazioni non può essere assimilata a quel percorso lento e riflessivo che possa distinguere la parola come segno di interpunzione per scomodare il pensiero e diventare meditazione. Questo colgo nella punteggiatura assillante, ridondante, sconvolgente, momento di pausa per raccogliere ricordi-ambiente-sé-io-altri-altro-prima del prima e prima del finale: occorre sconvolgere il proprio percorso, intraprendere nuovi procedimenti perché si possa parlare di nuova percezione pur nel medesimo spazio. Cambiare il tempo del pendolo interno e ascoltare il tempo delle cose. Spogliarsi della dimensione corale assordante degli orologi esterni e percepire ciò che si nasconde dietro l’angolo dell’esistere per concedere valore all’esistere stesso. E parlo di esistere e non di esistenza: ovvero una meditazione su un processo lungo che va dal presente in cui convergono i passati ed è punto di incontro di altri vicoli atri, di fosforescenza effimera o luminosità mistica. Andare verso la luce che suggerisce il passo per tentare di squarciare l’oscurità ricorrendo alle spigolature di una capace mente. Non è questo di Francesco una pletorica filocalia, non è amore per la bellezza fine a se stessa. Francesco trasla la parola in valore variabile. Nel mare che l’esperienza rappresenta, si deve concedere al pensiero di farsi pescatore e non esca. Il pesce, che secondo la cultura giapponese è simbolo di prosperità, deve essere l’ambizione finale. Procedere con il respiro rallentato per penetrare il mistero dell’esistere e fermarsi un momento sullo scoglio che appare il punto più idoneo da cui proiettare la propria vista. Ascoltare la corrente e illuminarsi nell’orizzonte. Immaginare di vedere, come immagina la presenza di una pecora nella scatola il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry. Antoine sparisce per sempre risucchiato dal mare e lascia in eredità un sogno metaforico trasformato in favola, nel quale intreccia la percezione dell’uomo adulto con l’onirica visione di mondi impossibili dell’infanzia in una pienezza che è altresì completezza. Che è Eu tòpos, parola nominata allo scopo di dar forma ad un contenuto di pensiero, di creazione antifisica, che è segno non parlato, immagine complessiva che agisce in contemporanea, come il vociare scomposto di bambini urlanti nella piazza di Alfonso Gatto, presso la quale l’attimo è un trascorso mai dimenticato che diviene presente eterno. Per piacere, disegnami una parola (pag. 27) Numerose le suggestioni intellettuali che il micro testo rimanda. E’ condensazione di sapere e di saperi, di passi ora sussurrati ora roboanti che portano efficacemente ad una non conclusione. E’ Fiato-Romolo che dà fiato. Romolo è affetto da poliomielite. La sua postura è impedita, ma egli appare e scompare fulmineo, vincendo in tal modo il rischio che quella paralisi possa perturbare le sue funzioni. Vince la pigrizia (greco: parèsis) e soprattutto, ostacola l’intromissione di quel gravissimo peccato dell’uomo che è la procrastinazione. Pur non accelerando i tempi, egli applica i processi che dalla conoscenza conducono alla coscienza consapevolezza del fatto malattia e utilizza la parola come spunto e veicolo della sua-mia-tua memoria, giacché la morte del singolo è la morte di un’intera comunità (John Donne nel sermone Per chi suona la campana) (…divenivo parte assoluta della sua Memoria – asserisce Guido a proposito di Romolo-Fiato pag. 127). L’impalcatura aggrovigliata e scomposta è metafora dei tracciati esistenziali che spiegano l’attuale momento, ma non ne indicano l’uscita. L’equivoco è appunto il passaggio dalla storicità alla conversazione costante ed illimitata con i pensieri. Fiato invoca la presenza per immagini visionate per imbastire parole, mediante la tecnica della capacità di fruire e quindi assimilare a sé quei campi visivi e spiegarli nella sua soggettività. Guido compone il suono e il colore delle parole per addentrarsi nel meandri delle situazioni. Mi torna alla mente la triade laboriosità – parsimonia - operosità dei primi puritani che approdarono sulle coste statunitensi. Sono gli stessi elementi che connotano il testo in quanto coinvolgimento consapevole e antimeccanico del pensiero faber - eliminazione della parola riflessa, condensata nell’essenzialità del contenuto e della forma - parola di sintesi e azione. Addirittura i puritani chiamavano antipatriottici coloro i quali non osservavano la loro regola dal valore oggettivante-comunicazionale. E’ quanto riscontro con il riferimento ma velato al ruolo di quel piccolo principe del nulla e del mondo intero che elabora un suo percorso, medita sulle visioni e sugli ambienti esperiti e opera mettendo in moto quei processi enucleativi di ragione-ricordo-libertà per scoprire una volta per tutte che il suo ambiente è il più consono a se stesso. Occorre uscire da sé per svelare la propria identificativa verità. Il pellegrino della parola incede nel suo vagabondare con il fiato lento dell’osservatore mai pago delle visioni, che penetra fino a ritrarne l’immagine procedendo in percorsi talora mai intersecanti perché, come riportato dall’autore a inizio del libro, “la mutabilità del passato è il dogma centrale” (G. Orwell in 1984). Pur nella densità delle suggestioni-suggerimenti al lettore, che viene investito del ruolo di compartecipe all’azione con allusivi inviti ad entrare nel cerchio della meditazione sollecitata, il libro non presenta alcuna compattezza, che alluderebbe a ierofanti pretese di interpretazione del mistero. Si può più che altro pensare ad una situazione immediata in cui si svolge un percorso dialogico con l’ambiente, secondo una complicità con le piccole cose, senza ricorrere a convulsi viluppi. Il tempo non esiste e marca la robusta compostezza delle parole senza cadere in misticismo o manierismi per colpire in un’affermazione che annulla gli assolutismi e propone la solidità del minimo come una delle verità possibili, lasciando che la scrittura dinamica si sconvolga su se stessa. "Una voce non può recare con sé la lingua e le labbra che le diedero le ali. Dovrà da sola cercare l’etere. E sola e senza il suo nido l’aquila volerà nel sole" (da “Il giardino del profeta” di Gibran Khalil Gibran). La lettura dispone alla concentrazione sulle singole parole. E’ un trattato condensato di immagini e riflessioni e ambienti animati che assumono un aspetto ed un’atmosfera varianti in relazione alle conoscenze, allo spettro di luce che in un momento esplode come fuoco pirotecnico e che porta a condividere con la mente realtà da angolature diverse dal consueto guardare. Francesco avversa l’ombra riflettente l’oscenità dell’abitudine confortevole mediante la presentazione in scena di due personaggi protagonisti, accerchiati da altri che rappresentano le loro storie comuni e separate, che rivivono e si muovono allorquando la loro dimensione diventa evocazione di realtà, di circostanze inequivocabilmente determinanti al cambiamento del singolo, alla distorsione del procedimento esistenziale fino al completamento del mosaico. Inizio e fine. Sistematizzazione e frammentazione e, nuovamente, accostamento-unione secondo una dinamica relazione di corrispondenza (p. 43): ancora una volta l’arte interviene a spiegare visivamente i concetti espressi nella sintesi di parola. Le corrispondenze che uniscono inesorabilmente gli anelli storici, della memoria, degli spazi e dei vuoti-pieni sono la configurazione di un progetto di divisionismo che unisce le parti costituenti, pur differenziandole e lasciando integra la loro identità. Il processo non può avere continuità se non mediante una strategia di annusamento delle situazioni. Ed è per questo che parlo della notevole forza della indagine al microscopio della parola pensante-parlante, nel segreto della quale si celano i suoni del pensiero, le intenzioni nell’intonazione fino a formulare una prospettiva che perde la puntualità visiva esterna e fa confluire nella ponderata conclusione le prospettive passate e future con i mescolamenti di colore e colori, suoni e rumori. Sussurri e plateali fragori. Ragione e Ricordo. Francesco Pasca non è nuovo alle considerazioni di commistione di pensiero – immagine – parola. E’ artista, poeta, scrittore. Pensatore soprattutto, che si rappresenta nei suoi cerebrali viaggi all’interno di tracciati già percorsi che legge affidando all’ambiente, alle atmosfere, alle rimembranze, agli incontri lo scettro per parlare, per distinguersi e distinguere quel segno che sia non di semplice interpretazione negli spazi silenti, ma che evidenzi le compenetrazioni, le contaminazioni all’interno della storia raccontata per formule ad un orecchio indifferente. Trattare del Francesco pittore, creatore di immagini visive ha la stessa intensità che parlar di lui in quanto parlatore di pensieri. La sua esistenza artistica sembra infatti percorrere i passi di quello che definisco archeo-astrattismo: egli condensa in un ritmo palindromico e futurista le suggestioni passate e presenti in una dimensione metaforica e metafisica; eleva gli spazi della memoria incupiti, oscurati dalle ombre in cui oscillano le memorie e le ricompone in una formulazione di intenso cromatismo, impregnato di sottili evocazioni, di sospensioni che si incastrano per esprimere una propria verità mutevole, transitoria, e proprio per questo basilare per il percorso intrapreso di vita. Cito me stessa da una precedente recensione su Francesco Pasca artista della tela: (…) Una necessità di comunicazione che si realizza negli spazi vuoti, lì dove si possono esaurientemente collocare le voci ascoltate, le discussioni vissute, sollecitazioni attive e costruttive ad un’espressione artistica che unisce e coinvolge realtà visibili, riscontrabili, fruibili e mediate, con realtà intime, paradossali, concitate, ambigue, universali. Meramente soggettive. Pasca indugia sulle immagini. Le manipola come parole. Pone in essere la parte creativa per cercare di penetrare nella composizione che è creazione e mosaico, improbabile armonia ed efficace rappresentazione dei propri pensieri. Un progetto articolato che attiva percorsi anticonvenzionali attraverso la mediazione della capacità-disponibilità di apertura ad altri linguaggi inconsueti. (…) la rappresentazione visiva diventa gioco di colore, di organizzazione e di finite configurazioni, limiti metaforici ed allegorici delle potenzialità. Limite di parola ma non alla parola, che si investe di un ruolo significativo ma marginale se considerata nella solitudine del suo segno; universale e possente se vista nella sobria capacità di alludere ed aprire ad altro. (…) un movimento interno in cui l’ordine geometrico è altresì espressione della vivacità intellettuale dell’artista, che propone un gioco di associazioni mentali che appartengono ad una memoria profonda e che emergono nel momento di equilibrata sintesi corale. Un gioco surreale in cui l’artista ricompone le visioni assunte ed organizzate secondo il proprio movimento prospettico in una configurazione che trova nell’eterogeneità del segno, dei materiali, dei simboli e delle tecniche la rappresentazione di una poesia sobria, silenziosa e imponente al contempo. Minimale pur nella sontuosità dell’effetto visivo. L’abilità di proiettare le riflessioni intersecanti sulla tela svela un lirismo che integra le percezioni in un ordine superiore, coinvolgente e sintomatico di una libertà conclamata e distinguibile attraverso la dimensione artistica. Diviene spunto per la creazione di immagini poetiche e nella deflagrazione di spazi di silenzio in atmosfera arcana ed evanescente. Domina l’aspetto cromatico nell’armonia mescolata delle tonalità in una contemporaneità che si allontana dalla diegetica narrazione per favorire la compenetrazione di volo ed ammirazione intellettuale della bellezza della vita e dell’esistere. Non è stordimento, ma un’incessante ricerca dell’incontro-riunificazione in senso religioso con la natura circostante. Ne trae respiro e la voce prende l’intonazione della natura stessa. Diviene segno carismatico di un passato non visto con nostalgica percezione, ma come acme modellante per la situazione attuale e da cui procedere nell’aspirazione di elevazione (o cambiamento). La scrittura acribica di Francesco ha un suono che rimanda all’apparente assurdità del vissuto in un continuo ed interminabile flashback che qui e là si dissolve per poi svelare che la storia sia stata trattata in un sol giorno. Segni grafici e segnali di pensiero sono le note accuratamente e apparentemente stonate della sinfonia dello scrittore sperimentalista, che nell’inerpicarsi su su verso le chiome dell’albero-culla, incontra le realtà minime e su di esse si sofferma per annusarne la vitalità, per allungare l’occhio curioso o improvvisamente incuriosito e scoprire qualcosa di nuovo pur dove il passo ha calpestato l’esistenza. Di quello stesso ambiente si appropria Fiato per affrontare il buio del futuro. Su foglietti sgualciti ne resterà traccia, pur quando la vista non incontrerà più la ragione. Inoltrandosi fino alla radice della superficie - mi si passi l’assurda espressione - Francesco improvvisa una scena che attraversa il tempo fino a fermarsi al 1946, due anni dopo la trasvolata senza ritorno del creatore del Piccolo Principe e due anni prima della pubblicazione di 1984 di Orwell. Nel mezzo l’incontro tra la fantasia, il sogno di possesso, di valore estetizzante, moralistico, polemico e l’oscura e rabbiosa visione di cataclismi psicologici, di desolante distruzione del potere di sognare e di pensare. La polemica è applicata dall’autore come tecnica suadente e invisibile ed intreccia con la trama una prospettiva metafisica e corale che all’acuto lettore che incontra i pochissimi personaggi sulla sua direttiva emozionale è ben delineata. Ancora una volta si prevede il passaggio ed il ritorno per chiarire, sedimentare, rafforzare e penetrare per scoprire in piena libertà. E dunque, quale migliore strategia di percezione se non la traduzione in personificazione di quelle ricchezze che fanno parte del bagaglio culturale da quando si è scoperto che l’uomo sia in grado di pensare? Impossibile pensare senza comunicare. E la parola diventa in questo scenario cangiante il mezzo. Il mezzo è il messaggio - Mac Luhan era stato profeta. E non solo lui. Occorre fermarsi. Padre Ragione urge che il proprio figliolo Fiato dia voce ai suoi pensieri e diventino meditazione, altrimenti la vita è percorsa di fretta come le unghie che battono sulla tastiera e che non contano nulla e invece anch’esse sono parte dell’esistere. Madre Memoria fa il suo ingresso per accomodare sulle spalle del suo figliolo Fiato la realtà vissuta anche un attimo prima perché ripensandoci possa battere il pugno e scoprire una continua ricchezza valore del passato anche prossimo. Per alcuni versi l’opera di Francesco tende ad unificare tendenze che sono diverse solo nell’apparenza, giacché tutte riconducono alla definizione dell’individuo e della sua connotazione di un sistema valido per sé della coscienza come trampolino per la consapevolezza. Occorre il rispetto di alcuni schemi da seguire. Prima di tutto la conoscenza coscienza è impossibile da ottenere senza il respiro cadenzato che secondo il chakra mantiene l’equilibrio richiesto per ascoltarsi e ascoltare le note ed i colori dell’esterno. La sua scrittura ha un qualcosa di innovativo, di irriverente nei confronti della linearità. In realtà il suono che emana dalle parole che si dilatano in frasi di pensiero è dotato di una matericità quasi tattile. Si pensi al nome: Romolo, fratello primogenito di una serie di nomi-persone-personificazioni di “erre” – Riziero, Reale, Rosaria, Rocco, Redenta, …... Me lo potrei spiegare con una elucubrazione cerebrale sofistica: la “erre” è consonante ironica e indipendente che continua a mantenere il suono segno significato anche se trascinata a gutturale e non solo palatale-linguale. Anche il pesciolino sembra pronunciare la “erre” quando produce nel suo acquario le bolle. E’ preambolo di continuità, di sospensione, rumore di dubbio, di rabbia, di musica martellante, di qualcosa che resta. E’ una utopia che investe il passato che vive nel ricordo, in cui il suono delle riflessioni si incurva all’interno di ciascun elemento portante come impalcatura di una struttura macroscopica, in cui le minime presenze sviluppano una danza come Dervishi in continua sollecitazione terra-cielo, elevandosi leggeri oltre la patina della mera visione perché i luoghi non siano fantasmi di ricordi e acquistino valore nella presenza. La lingua comunicazione non si basa su uno sterile codice a barre ripetuto all’infinito: al contrario, é una serie di corrispondenze ridondanti che accomodano la situazione e l’avvicinano all’uomo. Non deve Fiato perdere la rotta, altrimenti non arriverà a toccare nemmeno una delle sue verità, che giace in attesa essa stessa nel non luogo dove la partenza e l’arrivo sono accessi al ponte che unisce reale e immaginario, dove il reale è la commistione di memoria e l’immaginario è il sogno del futuro.
Id: 324 Data: 27/07/2010 12:00:00
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Ignazio Apolloni - Favole - Edizioni Arianna
Favole e bubbole
In VOLO IMMAGINARIO sulla ROTTA di una RICERCA MEDITANTE per ESSERE FAVOLA per COGLIERE RESPIRI di VITA
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“Era, quel pomeriggio senza luogo preciso né tempo, fatto di un sussurro di voci vellutate trasmesse senza sosta perché giungessero a chi volesse sentire la gioia dei bimbi nel guazzare dentro la vasca; così come si potevano notare in quella sorta di crogiolo dei sensi certi brani di asciutto silenzio che dicevano quanto ancora dobbiamo scoprire sui messaggi che fanno la spola da una bocca all’altra”. Da “Fagotto e gli insetti del giardino fatato”. Pag.233
Il viaggio della mente si conclude sovente nell’ultima frase, nell’ultimo attimo in cui il libro definisce la fine di un percorso sviluppato dall’autore. Quasi sempre. A volte, al contrario, si vorrebbe che le storie non finissero mai, perché la mente si ritrova ancora imbrigliata in un’atmosfera di pensamenti e meditazioni suggellate da una lettura simile ad immersione totalizzante. Sostegno e incitamento alla riflessione emergente attimo dopo attimo dalle “Favole e Bubbole” di Ignazio Apolloni, florilegio di suggestioni e cromatiche visioni.
Per tutto il tempo ho fermato il Tempo e mi son lasciata trasportare nelle realtà illimitate di un mondo di odori, di battiti d’ali, di passi, di scoperte. Ho vagato silenziosa in una bolla attraversando ambienti e storie che Ignazio ha composto dedicandole a chiunque desideri annusare la realtà; a chiunque sia ricercatore di nuove dimensioni e piccole verità e ami spiegare le sue ali in un volo di libertà, inoltrandosi in mondi calpestati ma non sempre conosciuti.
Ignazio-Ulisse scrive una storia procedendo in un cammino inverso; segue l’anabasi dello sguardo che si insinua in realtà che esistono invisibili. Dalla costa egli naviga nell’entroterra e intreccia il suo cammino con Penelope. Diviene Penelope: tratteggia la tela e la disfa per cominciare da un nuovo centro. Per iniziare una nuova storia. Ulisse e Penelope. Ulisse-Penelope. Ignazio moltiplica le longitudini e le latitudini e segna il tracciato che conduce inevitabilmente all’interno di uno scrigno in cui si incontrano visioni e immagini proiettate sulla pagina bianca dell’occhio che guarda senza vedere. Scruta i rumori minimi del vento e della mente. Diventa natura silenziosa, passo felpato che stravolge beate certezze.
La macrotrama delle minute storie si sviluppa attraverso l’accumulazione di flussi di pensiero che, sovvertendo l’ordine convenzionale della linearità del racconto condensato nel rettangolo inizio > fine, si ritrovano casualmente là dove una storia è già da tempo cominciata oltre noi e non ha conclusione. Ecco dunque che le favole o bubbole volano alte come i disegni di Roberto Zito che rappresentano integralmente uno story board, nel quale i personaggi si riconoscono come fossero amici ritrovati che ci appaiono in descrizione fisica nell’atmosfera orfica e allegorica delle loro piccole esperienze esistenziali.
La suggestione induce a penetrare l’incavo dei pensieri sollecitando il sovvertimento della comune percezione e dando l’impressione di inoltrarsi in un mondo conosciuto con occhi furtivi per cercare il dettaglio che fa la storia. Ah! Have you eyes? Sollecita Amleto alla regina sua madre. Posso interpretare questo di Ignazio altresì come una pagina di epica realista: una raccolta di episodi per chi non si sofferma al qui ed ora della vista oculare, ma procede secondo una logica che mi induce a pensare ad una anabasi, azione costante di ricerca all’interno del sé prima di volare oltre la costa. Non fuga, né abbandono totale: piuttosto esilio ponderato affinché, forse, la scelta di ritrovarsi nel proprio giardino possa essere la meta finale di un viaggio iniziato in un tempo lontano.
Occorre uscire da sé per ritrovarsi.
Distanziandosi da forzature da lieto fine, l’autore svela le sue favole come tappe di vita espresse in forma non sequenziale, né accademica. Non c’è inizio, né fine, almeno quello inteso con la parola Fine a bloccare processi mentali. Al contrario, la pagina scritta procede oltre e suggella la continuità che incornicia le storie in un’argomentazione che segue una linea sottile lasciata in sospensione perché altri ne diano conclusione. Sono le pagine bianche di “La vita e le opinioni di Tristam Shandy” di Lawrence Sterne. Capovolgimento ed evoluzione costanti. Le parole concorrono a creare l’immagine di insieme perché la riflessione possa avere inizio e si possa scoprire il quadro allegorico che in trasparenza è stato composto.
Di fatto l’allegoria ha effetti squisitamente qualificanti sulla scrittura, della quale Ignazio è sovrano e utilizza la stessa regalità nella efficace e splendida connotazione di una lingua che appare fresca e di assoluta novità. Armonicamente – come sinfonia – e armoniosamente umetta l’atmosfera di suoni cristallini di una natura che esiste e che si sa esistere. Par poco? Ignazio spalanca lo sguardo su un mondo conosciuto ed emerito sconosciuto e lo fa con mano leggera, con il garbo dovuto perché il lettore accorto ne scopra non solo la delicatezza descrittiva, non ne apprezzi solo l’effluvio aromatico e le figurette deliziose (quelle lasciamole alle favole buoniste e moraleggianti!). Viepiù consolida la bellezza di un linguaggio appropriato e puntuale che si dipana con eleganza senza ricorrere ad elucubrazioni cerebralistiche dall’effetto dirompente, esplosivo, evanescente e consueto. Vuoto. Noioso.
C’è un gran mondo da scoprire, strutturato in favole create da una verve immaginativa, scientificamente organizzate, che si apprezzano anche in quanto bubbole, ironica negazione delle favole. Non esistono, dunque? O esistono? L’inizio non è mai uno solo (cito Yeats) e così dunque leggo le storie, i racconti, le novelle in cui i protagonisti movimentano la pagina insieme a tutti gli altri elementi che a quelle piccole storie sono legati. La pagina diviene efficace strategia di lettura e spazio in continuo mutamento in cui agiscono l’azione dei personaggi e l’azione entro la quale i personaggi si muovono. Agisce la scelta semantica e la sintassi; agisce la segnaletica di interpunzione che veicola anche il ritmo di lettura che esalta il momento di elevazione e acquisisce il profumo della quiete nell’acquietamento della azione medesima. Nel montaggio la scrittura veicola personaggi-ambienti-circostanze dentrofuori che emergono con la loro pacata genuinità, senza peana, senza maestose comparizioni improvvise in favore di un linguaggio che mai perde l’equilibrio nel collage tematico che affiora e avviluppa nella totalità spazio-temporale.
Come le dita si muovono leggere sui tasti di un piano ed intonano le soavi meditanti note di Gymnopedies (non a caso la musica che mi accompagna da sempre), vedo Ignazio mentre “cammina sul velluto” (p. 48). Per assumere le verità non occorre urlare: egli é il saggio maestro di favole silenziose che Roberto Zito interpreta in un capitolo all’interno del libro nei colori di un sogno opalescente, illuminato da tonalità prive di addensamenti cromatici, che traducono coralità di un’atmosfera e spazi prospettici e dinamici in sinergico scambio ritmico.
La ricetta di vita è meditare e sognare per annusare, assimilare, accogliere emotions recollected in tranquillity; perché dal senso estetico dell’osservazione si possa cum-prendere che il tempo esiste se valorizzato, altrimenti ci si abitua a non dar valore se non a quello cronologico, apatico, di attesa perenne (pagg. 50-51 non restava che beatamente attendere - senza sussulti – il sorgere del sole o il crepuscolo…..si erano così abituati gli abitanti del paese a questa scansione del tempo da essere rimasti ovviamente turbati allorché si propalò la voce di una bambina dai poteri fuori dall’ordinario. Da “Fantasia”). Ignazio punta il dito contro il dondolio ripetitivo e paralizzante di una comoda poltrona, sulla quale poggiare le membra assopite (“L’angoscia inevitabilmente arriva. L’angoscia paralizza” Da “Nasino alle prese col dolore e col piacere” pag. 201). Il flash di vitalità contrasta un’indolenza che non è malinconia-congiunzione con l’universo e che oppone una non lotta, contrasta l’esistenza e la proiezione con la confortevole coperta dell’ovvio e dell’ordinario, sebbene non sempre la novità o il sogno conducano al successo. Eppure val la pena. Non si può oscillare nel vuoto.
Ignazio sovverte l’ordine convenzionale della scrittura portando su un unico piano suono e segno, immagine e immaginazione in una visione dal valore olistico. In tal senso l’accumulazione degli elementi linguistici si insinua delicatamente con elementi visivi, tattili, sinestetici insomma, che portano alla percezione di una sintesi vera, edificante, genuina ed efficace perché si colga il tutto nell’immediato. Non è questa la dimensione universale della creazione? Non è proprio dell’uomo-artista saper interpretare segni, suoni e colori?
Il linguaggio apolloniano parla con la voce della natura, dei movimenti interni dei protagonisti. E in costante movimento. (La bella lumaca di adesso lo è diventata crescendo – da “Una coppia di lumache” pag. 43). Il climax si evolve senza alcun bisogno di ricorrere a schemi prefissati e formule linguistiche perché l’azione e l’atmosfera convergano in una significazione totale del pensiero. A ciò si giunge con levità mediante l’uso della parola significativa complessa, dalla cui variazione dimensionale traspare l’immagine. Uno zoom per fotogrammi successivi che, come …l’erba, già rigogliosa, cresceva senza curarsi del paesaggio che così diventava mutevole. La variabilità del momento suggerisce l’amplificazione in campo lungo della prospettiva che si dilata come spazio scenografico in continuo movimento.
Insomma, Ignazio spalanca lo sguardo e nullifica quella cecità con cui si procede nel beata, placida sicura indolenza che apostrofa e disturba quel senso di malinconia romantica che apre scenari sui segni talora inesplicabili della natura. “Niente è inventato perché è scritto nella natura” ebbe a dire Antoni Gaudì. Dunque Ignazio sollecita ad aprire e penetrare l’atro puntando il reale, sconvolgendolo rispetto ai convenzionalismi; poeta floreale che incanta, organizza storie secondo i percorsi naturali senza aggiungere nulla che sia percepibile, senza infingimenti e ghirigori di maniera;. L’artista esplora il piccolo e l’invisibile per scoprirlo infine immenso, simbolico, metacromatico. Segue le sinuosità della natura e ne insegue le voci. Libero da catene, esplora la vita come un eterno bambino senza età, senza numeri a suggerirgli etichette di pensiero e comportamento (pag. 61: crescendo il bambino era diventato un ragazzo. Ora aveva dodici anni. Tra un anno ne avrebbe avuto tredici. Tutti senza storia) Ma l’uomo non è un numero. E’ storia, sua ed altrui. E’ ambiente ed ambienti divisi e condivisi. E’ cavaliere di un’eterna avventura. E’ uomo che dal dormiveglia passa alla sveglia e al sonno e fa in modo che veglia e sogno siano amici, come il dotto gatto e il topo tra le spine del porcospino (cito una favola contenuta nel libro). Curve e anse linguistiche provocano un surreale giro verbale che sposta l’attenzione da un momento all’altro per veicolare un crescendo dell’azione e spiegare il momento precedente ( penso a “C’era una volta una coppia di merli” pag. 64) in un infinito viaggio che, distanziandosi dalla prospettiva lineare di una conclusione esaustiva e soddisfacente solo per il singolo, diviene dilatazione di un momento totalizzante in cui prevale la globalità del “noi”.
Il libro si snoda in quattro momenti fondamentali disgiunti per quanto riguarda la capitolazione e uniti per quanto concerne il mondo che sconvolge le consuete percezioni: l’autore allinea sulla scena esseri viventi dotati di egual densità, egual dignità. Connota di dimensione univoca pur nella determinazione di una coralità di vita, di respiro e di vicende che distinguono ma non dividono, acclamano in una medesima atmosfera il viaggio di continuo pensamento per giungere ad una svolta. Che sia per sé o per altri valida, non è ciò su cui l’autore punta l’attenzione. Ignazio non va a cogliere differenze, ma compone una sinfonia policorale assimilabile ad una sorta di ipertesto informatico, dove è semplice all’occhio indagatore concepire la trama antidiegetica che scuote, sfilaccia, annoda e riannoda fili intrecciati dell’esperienza e delle esperienze raccontate scoprendosi ad un pubblico di bambini. O, meglio, a quell’essere sempre bambini come sinonimo di eterno stupore, continua invenzione, mai sazia ricerca per scoprire “i misteri del moto……” e “inventarne di nuovi” (“Storia dello Zampino di Nasino” pag. 174) e sconfiggere la strisciante paralisi di pensiero. Di vita.
Lo stile apolloniano è riconoscibile per la densità della scrittura, che non concede spazio ad altro se non ad un’immersione totalizzante, anche quando la materia non è l’uomo, o non solo lui, ma l’ambiente in cui le creature protagoniste vivono e si muovono, prospettate secondo un quadro che nulla a che fare con la magia delle fiabe (non c’è nulla di magico, né di estraneo alla realtà delle circostanze). Immagino Ignazio - e lo divento io stessa - divenire ombra di un granello invisibile ad occhio nudo sulla cui schiena è collocata una cameracar che riprende vari momenti di incontro, dialogo, di sbecco e di imbecco gentile. Una cameracar movibile, che saltella qui e là fino a divenire punto di vista su prospettive avulse da intermediazioni fastidiose e irreali. Questo è Favole e Bubbole. La prima riflessione balzata alla mente nel momento in cui ho concluso il primo racconto – mi preme sostenere si trattasse di L’orso Pappo in L’epopea di Nasino, pag 196 – è coincisa con un volo fino a qualche anno fa, quando acquistai un cartoncino augurale da allegare ad un regalo. Il cartoncino era bianco all’esterno, scarno, anonimo, ma all’interno permetteva l’ingresso in un paesaggio naturale. Aprendolo si svolgeva una visione tridimensionale composta di lussureggianti alberi da frutto, cespugli di roselline violacee, un prospettico prato su cui volavano farfalle ed api si posavano sui teneri fiori dal lungo stelo. Il regalo fu molto apprezzato, ma il cartoncino regale rimase abbandonato su un tavolo. I racconti di Ignazio suscitano in me le stesse provvidenziali emozioni e dico provvidenziali perché permettono di allungare lo sguardo lì dove gli occhi non sempre possono giungere. Il ritmo veloce e quieto permette una sosta nella lettura ed una ferma decisione a recuperare la riflessione su visioni che intercettano l’ambiente nella sua integrità, coinvolgendo gli spazi e trascurando tempi ininfluenti. La contemporaneità delle valenze viene così a coincidere con le immagini che accompagnano i racconti come installazioni artistiche in cui l’elemento portante è il tutto nel medesimo spazio e nel medesimo tempo come spazi e tempi di meditazioni. Giunti all’ultima pagina, all’ultima parola dell’ultima favola, resta l’ebbrezza di un viaggio che si è percorso intrecciando percezione, meditazione, lucida meraviglia. Penso ad una vita impilata su vita (“Ulysses” di Alfred Tennyson); penso ad un valore di vita che si scopre in un momento e che si illumina nel momento successivo, divenendo per accumulazione un’onda gigantesca che invade la costa-mente e che trascina la mente nei suoi spazi intimi, la fa spumeggiare in quegli orizzonti che lo sguardo veicola superando la cecità dell’oblio. Penso ad una sinfonia in cui gli strumenti imbastiscono una tela di suoni, segni, colori intonati all’unisono secondo una musicalità che è inno di pensiero. Inno di libertà. ---------------------------------------------------
Sebbene la linea narrativa permetta una lettura per capitoli favolistici, nel procedere in senso contrario o dall’inizio, si avverte la continuità e l’evoluzione che ogni storia racchiude in sé: piccoli episodi emblematici di una crescita, di una progressione anche introspettiva, procedimento questo che viene suggerito da chiose sempre più frequenti man mano che i racconti balzano evidenti con metafore ed allusioni e creano un circuito in cui il lettore si sente per gradi avvolto in una cortina di curiosità per tentare di svelare quel velo (uso un termine dilogico, come è uso compiere l’autore) che è parte del mistero della vita. Non importa la conclusione, ma il processo e la trama dell’esistere stesso: la conoscenza ha esattamente il ruolo di recuperare quel desiderio di procedere per svelare non come fine ultimo, ma come inizio di novità incessante. Un’eterna epifania. A livello linguistico la tecnica cui l’autore ricorre merita un plauso per la capacità di gestire l’intenzione e l’espressione vivacemente intersecanti (blended) allo scopo di formulare una intonazione gioiosa, ironica, triste, immediata in accordo musicale con frasi che appaiono veri e propri scrigni di stupore, di stupefacente significazione, atti meditanti e meditazione essi stessi. In tal senso anche i nomi svolgono una funzione sintetizzante poiché, lungi dall’apparire vezzeggiativi o birignao da adulti, incidono con energia il ruolo del protagonista cui in un preciso momento è ceduta la conchiglia-scettro del pensiero-parola (Mi vengono alla mente Pappo, nel cui nome si “legge” l’atteggiamento e le abitudini dell’orso; ai due ping-uini, l’uno piccino – Ping - tenero e indifeso, indeciso e l’altro solenne, altero. E infatti è un Pong-uino. Penso a Nasino, bimbo curioso e dal fiuto solenne).
Nei nomi insiste il fatto, l’azione, la personalità. E funzionale è altresì l’elemento di interpunzione, che ho definito segnaletica giacché agisce sull’interpretazione sinestetica che offre l’opportunità di seguire una ritmicità secondo l’intenzione. L’autore mette in atto tutte le strategie per enfatizzare gli aspetti identificativi entro cui muoversi, che si tratti di descrizioni ambientali che caratteriali, intenzionali, meramente fisiche. Ecco dunque che per incanto intellettuale si aprono sulla scena le splendide potenzialità possedute dall’uomo colto, che coglie (mi si consenta la diafora, figura ricorrente nel testo) la visione offrendola nella sua integrale completezza e lasciando emergere la complessità come condizione di contemporanea condizione metafisica, poesia o quadro allusivo, come ben evidenziano le traslazioni semantiche e l’uso di dilogia frequente (pag. 29: “… gli servisse. Cosa gli servisse esattamente non si sa; tante tavole per tetto per quanto è lungo il tetto”) che danno ritmicità alla lettura nell’intonazione a volute, a spirale, in movimenti palindromici o sequenziali, lineari o zigzaganti. La metalogica sovverte in tal senso l’ordine sintattico classico mescolando secondo una personalissima organizzazione la sintassi stessa, il respiro e la pausa nella determinazione di nuovi paragrafi argomentativi che suggellano la continuità e lasciano pertugi aperti alla curiosità, senza picchi di euforia argomentativa. Prevale l’intelletto, la meditazione che riunisce infine la realizzazione del percorso e dà valore all’azione stessa.
Non è la conclusione che conta., ma il disvelamento delle rotondità di eventi che calamitano in sé l’ambiente, gli odori, gli umori, i soggetti e gli spazi. Il tempo è assente. E’ sempre tempo di ricerca. D’altronde l’operazione di Ignazio è caricare esattamente una nerboruta zappa sulle spalle ed avviarsi silenziosamente ma con passo deciso a scavare nel sottobosco di ogni circostanza, di ogni oggetto, di ogni fiaba o favola che sia. Egli cerca i significati e li formula come bolle che vagano nel cielo sospinte dal vento. Che permettono di vedere in trasparenza un qualcosa che è ma non è descrivibile e che esplode nell’impatto con la riflessione.
Splendido esempio di epurazione da ogni forma di metonimia, gli scritti di Ignazio consentono la vivacità della narrazione attraverso l’intonazione di un bambino, il quale utilizza i suoni di una natura che appare contaminata solo da circostanze che acquistano sensibilità per spiegare a se stesse l’azione e la trama. Non riscontro alcuna messaggeria umanizzante e di maniera, né baroccheggianti forzature per apparire ciò che non é. La favola in tal senso si illumina di una energia che invade la scena, conservando gli umori e i cicalecci di una parola che elabora nella mente un concerto di voci infracorali ad imprimere un segno di circolarità molto più edificante che la mielosa esplicazione di una parabola istruttiva. Non è questo il luogo della voce deflagrante, che fa rumore e scalpita per acquisire il suo pubblico: è piuttosto segno distintivo di una percezione realista e simbolica, allusiva e complessa. L’autore dispiega, svela, rivela, elabora, riflette, osserva e medita all’unisono sapientemente utilizzando quella drammatizzazione cinematografica che permette un montaggio di contemporaneità azione – pensieri – visioni in immagini esaustive, in cui ogni elemento si intreccia con l’altro vivificandone la ricorrenza meditativa in situazioni che catalizzano l’attenzione per ricchezza e dignità linguistica senza ricorrere a pavoneggiamenti, voli funambolici e proiezioni ben oltre l’azione in indagine.
Id: 303 Data: 25/05/2010 12:00:00
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