I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
Nicola Lecca - Romanzo - Mondadori
Hotel Borg
Per questo giovane scrittore di talento l’arte ha il color ghiaccio dei paesi del Nord, dell’Islanda in particolare. Il fascino gratuito della musica classica, suonata o amata dai suoi personaggi, sorvola un mondo dominato da traffici rumorosi e degrado di massa, cieco ormai a ogni residuo di bellezza. La sorgente dell’arte pura si oppone, in Hotel Borg, ai nonluoghi di Marc Augé ai quali, peraltro, è dedicata una recente raccolta poetica di Roberto Mosi, pubblicata sul sito de La Recherche. È la vitalità fiabesca della provincia nordica, sperduta, a emergere, insieme, come spazio artistico e infanzia non ancora deturpata dalla civiltà moderna: (…) A Göteborg la vita di Oscar trascorreva piano e piano lo lambiva, di giorno in giorno, sempre nello stesso modo. È così Göteborg: una città lenta in cui le luci dei lampioni, la notte, illuminano soltanto cose belle. Oscar la amava molto soprattutto d’estate, quando, per qualche giorno, si recava in visita da un amico. La sua casa affacciata sull’arcipelago era tutta in legno, e bianca, ma il tetto, color nocciola, portava evidenti i segni della neve passata: macchie rotonde, come di bolle scomparse (p. 22). Basterebbe questo passo a far capire la qualità di una scrittura che nasce nominando i dettagli invisibili, quelli ai quali si presta, di solito, scarsa importanza. Oscar è uno dei personaggi che tenterà di partecipare all’ultimo concerto del maestro Alexander Norberg. Quest’ultimo ha deciso, infatti, di organizzare un’esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi nella cattedrale di uno spopolatissimo paese dell’Islanda, sorteggiando il pubblico attraverso l’elenco telefonico, un gesto grottesco che cela una sottile protesta contro l’impossibilità per l’artista di scegliere interlocutori capaci di apprezzarlo. Quella del genio incompreso, d’altronde, in sintonia con la letteratura di Thomas Mann, è un filo rosso dell’intera produzione narrativa di Lecca che, soprattutto nella raccolta dei racconti Concerti senza orchestra, dà voce a musicisti schizofrenici e tormentati, in bilico tra una marginalità sociale talora subita, talora rivendicata come indizio di una superiore aristocrazia dello spirito. Il modello è l’artista bohémien che, come Baudelaire, pretende di possedere una conoscenza segreta delle cose e fa dell’arte una questione esistenziale. Non a caso il romanzo ha una struttura lirica, frammentaria, suggerita per esempio dai puntini sospensivi che aprono ogni capitolo, come se Lecca registrasse un discorso iniziato chissà dove, chissà da chi. Questa liricità, legata all’ascolto ‘poetico’ dei frammenti superstiti di arte e bellezza, convive con lo spessore filosofico e morale del romanzo che è diviso in tre parti, corrispondenti alle fasi di un’opera musicale, seguite da una sezione conclusiva dal titolo Dopo il concerto. Ebbene l’atto primo e l’atto secondo della prima parte hanno titoli che richiamano categorie astratte come noia e libertà, secondo una dinamica che, pur tra cospicue differenze, fa pensare a Moravia. E simile in questo al narratore romano Lecca sembra colorare tali categorie attraverso la corposità dei particolari narrativi, mostrandone varie sfaccettature e, soprattutto, ponendo un interrogativo: qual è la vera noia? Quella della periferica e statica Göteborg dove non c’è alcuna crescita moderna o quella della Londra alienante e carnevalesca in cui Oscar trova lavoro come ‘buongiornista’, come persona, cioè, che, imprigionata da una divisa in velluto rosso, saluta, ogni mattina, i clienti di un hotel di lusso? Ma lei era lì e, in silenzio, aspettava di venir fuori. Attese a lungo e, improvvisamente, si presentò di nuovo. Oscar la vide, nera come un orco, seduta su una delle poltrone della Promenade scrutarlo con arroganza e, subito, si convinse che quel lavoro era troppo faticoso per la mente e che – tempo qualche settimana – lui ne sarebbe morto (p. 42). La noia ha il volto di un orco; Oscar ancora legge la realtà circostante come fosse un bambino ignaro delle conseguenze spropositate che si sprigionano da eventi apparentemente minimi e insignificanti. Non ci sono vincitori nel romanzo di Lecca: solo personaggi che, insidiati dall’inquietudine, cercano una possibile forma di comunicazione. Per questo Alexander Norberg, il direttore d’orchestra, nel chiuso del suo appartamento, dove una riproduzione di Arlecchino sembra deriderlo, dopo una performance di successo, pensa che «migliaia di occhi […] erano avidi soltanto della sua musica, ma non di lui» (p. 39).
Id: 230 Data: 25/09/2009 19:17:19
*
Giuseppe Pecorelli - Racconti - Plectica
Serenata alla finestra sbagliata
Un paragone spontaneo e neuronico tra Maurizio Maggiani - "È stata una vertigine", Feltrinelli, Milano, 2002 - e Giuseppe Pecorelli - "Serenata alla finestra sbagliata (e altre storie)", Plectica Editrice, Salerno, 2008.
Un uomo che adora i Presepi e il suo incontro con una misteriosa Bella: questa la trama del flash narrativo "L’uomo che adorava i Presepi", uno dei tanti che formano il libro di Maurizio Maggiani, "È stata una vertigine". Il flash ha un incipit abbastanza ripetitivo che mi spinge a chiedermi se la letteratura non debba essere altro, magari acquistare una precisione metaforica - perché anche le metafore possono essere molto precise e icastiche - che, in tale narrativa, purtroppo, poche volte trapela: nei bui vicoli genovesi, di sapore campaniano, o nel palazzo che pende per la presenza di una attraente Polacca. Come se lo scrittore non riuscisse a garantire una continuità ‘immaginifica’ alla sua scrittura e tentasse di colmare i buchi neri con frasi troppo generalizzanti:
«Non c’è un momento che deve succedere, succede e basta, e di solito succede quando a rigor di logica non potrebbe succedere niente. In particolare succede quando non dovrebbe. Ad esempio può capitare nel bel mezzo della Settimana Nera» (p. 129).
Quest’ultima è la risibile parodia, suppongo, di una Settimana Santa in versione profana, stile depressivo, falso ribelle. L’autore, forse è questo il neo per me più insopportabile, resta sempre a distanza. Fin qui uno potrebbe dire tutto bene. Il narratore deve mantenersi a distanza per non cadere nel sentimentalismo. Il punto è che, invece, stranamente, la terza persona di Maggiani o il suo modo di vedere se stesso o gli altri dall’esterno, sembra un artificio che lo scrittore si impone meccanicamente, senza che, però, con esso riesca a dare un’anima vitale ai personaggi o all’amore stesso, il sentimento a cui il libro vorrebbe dar voce.
È brutto, è vero, fare paragoni; mi scusa il fatto che sia possibile conoscere solo attraverso i vorticosi rapporti di somiglianza o contrasto che i nostri neuroni si affannano a stabilire. La voce assente in Maggiani vive, credo, nelle malinconiche ‘serenate’ di un giovane narratore salernitano i cui personaggi hanno sempre la vitalità struggente dei clown circensi, il sorriso un po’ triste di Charlot. Il narratore si chiama Giuseppe Pecorelli, è alla sua seconda raccolta di racconti che si chiama "Serenata alla finestra sbagliata (e altre storie)". Le sue sono fiabe che colgono il filo onirico della realtà, trasformando il Sud in metafora di una condizione in cui l’inettitudine sconfina nella sognante utopia, in quella «leggerezza dei gabbiani in un corpo goffo e pesante» ("Il cacciatore di baci", p. 27) che anima la fantasia del pescatore di Pititinga, Fernando: un villaggio imprecisato, un personaggio che tende il suo retino per catturare i baci persi nell’aria, una guerra improvvisa tra paesi vicini, la scomparsa dei pesci del mare, simile a una maledizione, un rude pescatore, Santino, che butta, invano, le sue monete, simbolo del potere, nell’acqua affinchè i pesci tornino. Con l’efficacia di una realtà narrativa che cede, in modo quasi impercettibile, al fantastico, Fernando, come un gabbiano, prenderà a volare sulle acque, fecondandole con il suo tesoro di baci immaginari:
«E quando il suo volo lo portò sul mare, si fermò sospeso in aria, girò appena la chiave nella serratura sottile della cassetta e l’aprì. Piegò poi lo scrigno verso il basso e lasciò che un liquido invisibile scendesse tra le onde» (p. 32).
I pesci ricompaiono, ma nessuno saprà mai la vera causa del loro ritorno, anzi Santino crederà che le sue ricche monete abbiano fatto il miracolo. Il cacciatore di baci è, forse, il racconto dove più felicemente si stringe il nodo tra il liquido invisibile del sogno e la semplice espressività di una lingua che ricorda, talora, perfino alcune movenze bibliche, talaltra alcune pagine ‘esatte’ di Italo Calvino. Fiabe, dicevo, in cui l’autore sembra inseguire un antico Eden di latte e miele che, nei suoi momenti migliori, quando cioè non piomba in un sentimentalismo eccessivo o in una morale troppo scoperta, si condensa in dettagli suggestivi: penso, per esempio, alla nuvola che, nel racconto "L’amore dentro una nuvola", si gonfia come la pelle di una cornamusa, irrorando di miele e zucchero il borgo assetato dove, poco prima, è giunta la bella maestra, la malafemmina per le beghine del paese, Veronica Santalmassi. È lei la vera rugiada che anima questo indeterminato borgo grigio-nero, sempre vestito a lutto, così simile ai nostri centri meridionali aggrappati alle rupi della Sila. La scrittura di Pecorelli sembra nascere dalla trasformazione creativa di un’immagine che appartiene, spesso, alla natura. Nel racconto precedente, il carattere fantastico di Fernando si coagulava intorno al volo del gabbiano; ora, nel caso di Veronica e della sua nuova femminilità, alla leggerezza del gabbiano si aggiunge lo sbuffo etereo della nube: Aveva fianchi rotondi e perfetti, morbidi come gli sbuffi di certe nuvole. E cantava, cantava sempre. La sua voce era soffio alle ali dei gabbiani, bagnava di miele le acque dei torrenti e fendeva il tessuto del tempo, aveva il sapore del latte e della cioccolata, sgranava il presente sino a lasciar che filtrasse il ricordo di quando s’era bambini (p. 35). Ci sono anche, è vero, in uno spiritoso contrappunto, le nuvole d’invidia delle paesane che sbuffano come pentole a vapore, perché gli uomini, ingialliti e sbilenchi, adorano la bella Veronica: un altro indizio della qualità metaforica di questa narrativa. In tempi di grande povertà linguistica, bisognerebbe tenerne conto.
Id: 195 Data: 04/06/2009 13:38:25
|