I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
No, la scrittura impersonale non fa per me!
Preferisco i nomi propri di persone e di cose
e l’indecenza delle confessioni.
Io, la castità di una bomba inesplosa,
il pube canuto di una suora,
il passo sospeso di un idiota…
(Certo vorranno acconciarmi la barba,
rapinarmi della mia prudenza
frugando nei capelli croste di bianca
non curanza…
Assisterò impotente, con orbite
da niente
alla spogliazione-vestizione del corpo.
Sembrerà uno di quei film
che salvano le serate dalla noia e dalla gioia,
interrotti da promo rassicuranti
per non cacciarci nella paura della fine del mondo.
Questa breve parentesi di futuro
non può chiudersi: è una porta difettosa,
c’è da rifare la serratura.
Fino ad allora i ladri potranno entrare,
il fratellino potrà sbirciare sua sorella
che si denuda, il padre che invecchia
e disegna sulla lavagna progetti per i figli,
la madre che dondola e si spoglia
di ogni tenerezza o ricordo sulla soglia
di una luce azzurra che è verità e menzogna,
e se stesso, che ripete nell’occhio infinito
ogni gesto o paura,
ogni tortura deliziosa nella gabbia d’oro
ove l’uccellino stecchito riposa.
Fino ad allora continueranno
a chiudersi e a spalancarsi finestre,
si appanneranno i vetri,
si disegnerà col dito sulle tempeste).
Questa notte ho boccheggiato
in un acquario di lacrime.
Se Notte cade così presto…
Questa notte ho perso
la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto... solo il tatto
m’è rimasto per stringermi nel disastro
della carne.
Sono solo, sono solo, sono solo.
È inutile cercarti nei luoghi deserti di te.
Parlo con nessuno (la logorrea del battista).
Ricordi il tempo delle maschere e delle
metamorfosi?
Ho corroso i palmi con la luce.
Passati i pomeriggi delle muse,
le lunghe camminate perdute,
nell’aria d’oro polverizzate.
Ho educato il mio orecchio alle incipienti
congiunzioni del mondo.
La più ottusa delle bambole
fa il verso della tua Assenza.
Cadute le note dallo spartito,
non restano che righi neri
e in mezzo stupidi cieli!
Ho osservato più volte
l’occhio avverso dei gatti
ed ho perso il senno dell’uomo.
Sui vetri disegno l’ovale smorfia
degli idioti e dentro, poi dentro…
Era inverno, e l’inverno ha leggi di Odino...
Era inverno, e d’inverno si contano i passi
dei morti sulla neve, si disegnano
angeli dalle ali aperte…
Ma se notte cade così presto
chi vedrà l’angelo andare,
i morti inventare sentieri
per i vivi?
Non ho che diari d’assenze da scrivere
e versi che nessuno vuol cantare.
La mia camera, sempre un covo
maleodorante di fogli, verrà presto smantellata
e il sole potrà entrarvi senza pagare i doganieri dell’ombra.
I burattini sulla mensola
mimano la guerra dei soldatini.
E dunque mi hai lasciato
la profezia della mancanza,
la mediocrità della separazione.
Ogni orma dice - della tua assenza -
qualcosa che tu non dici.
Mentre cerco di mettere a fuoco l’immagine
(due candele che parlano in una stanza –
così vorrei ci parlassimo noi due–
nella posa solenne della fiamma
che contempla l’altra fiamma – vuota,
in silenzio), le parole arrivano
sulla punta delle dita e si fermano,
la musica invece va avanti.
C’è una parola che cerca grazia,
una parola felice e una parola che irride
tutto questo... Quale ascoltare?
La musica che ho in mente prosegue
e appare il corpo a corpo col tempo, un altro
tema spropositato, illimite*, e quindi subito
confinato sullo sfondo dove le cose, i nomi,
i fiori e le città accadono e si modificano,
e dove tutto è compiuto, anche noi stessi –
già stati: espulsi, assolti, dissolti e consumati
fino allo stoppino annerito di quel che resta
e che nessuno testimonia.
Ma quell’immagine torna e mi risucchia
nel buio che la stringe, mentre le candele
parlano e continuano a raccontarsi
senza che alcuno possa intenderne la lingua–
al massimo, le si può vedere –
ammesso vi sia uno spettatore –
imperterrite e pazienti guardarsi,
farsi per poco luce l’una all’altra.
Nella stanza la musica suona ancora,
la mia mente arranca dietro le note.Tutta
la musica si regge sul tempo, e il tempo, avanzando,
sopravanza ogni nota, ma quando le note
finiscono, o nell’intervallo, chi può dire se
vi è più tempo? Dove è finito l’avanzo?
E mi chiedo, mentre cerco di mettere
a fuoco l’immagine, se le candele discorrano
di tutto questo, se conoscano il segreto
dell’attesa, o se piuttosto non siano,
nel reciproco ammirarsi, sorde mute e cieche
al buio, al tempo e alla musica, che pure
le assediano; la forma perfetta
d’amore.
* sta per “illimitato”
I pomi amari del sorbo arrossiscono tra i rami,
ed è il segno che presto indosseremo maglioni,
al mattino, e, a sera, guarderemo dalla finestra
la nera forma delle case e le luci accese di
stanze dove la vita prosegue nel segreto
di gesti goffi e familiari, di labiali non letti
per discrezione, e di atroci tenerezze e pensieri
che il bambino sopporterà con la fronte alla mano e l'inquieto
desiderio di venirne a capo, venire a capo di ogni cosa.
E mentre considero tutto questo, tu ti avvicini
con un astro settembrino tra i capelli, e mi dici
che il viola è un colore paziente, che in esso
il rosso si acquieta ed il blu si accende,
e che non sai se il tempo passi o se il tempo ritorni;
che presto ogni mattino indosseremo maglioni
e che a sera dalla finestra vedremo le luci accese
nelle case nere e le coppie mute gesticolare
e il bambino, fronte nel palmo, pensare chissà cosa...
Il fiore cade e tu ti allontani, e mentre mi lasci le mani
con un sorriso chiedi: "Ma domani...? Come sarà domani?".