I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Cessati i lampi e i fragorosi tuoni
di un improvviso e violento temporale,
si espansero nitidi i consueti suoni
di un’umida e fresca sera autunnale.
Tra le pozze d’acqua sulla via
e il tappeto di foglie ingiallite,
si avvertiva nell’aria la nostalgia
delle giornate estive ormai finite.
Nella piccola piazza rianimata di gente,
si levò una lontana e triste melodia,
una musica lenta e struggente
di un canto denso di malinconia.
Sotto la luce di un vecchio lampione,
come un mago portato dal vento,
un violinista destava l’attenzione
tracciando nell’aria volute d’argento.
L’uomo stringeva il suo strumento
come un abbraccio che avesse accarezzato
tra il capo reclinato e l’ossuto mento
della sua donna il volto amato.
La mano nodosa lasciava le impronte
sopra il legno stinto e consumato.
Dei solchi profondi spezzavano la fronte
e la pelle sottile del viso emaciato.
Il sudore colava in gocce perlate
come condensa di un male nascosto
e umettava le labbra inaridite e contratte
sul volto sofferto e scomposto.
La musica copriva ogni rumore,
era l’ultimo canto del cigno morente
che dopo aver raggiunto l’amore
venne colpito dal rivale perdente.
Le note si levavano in armonia
come battiti d’ala di un animale ferito
mentre lottava nella lenta agonia
di un combattimento ormai finito.
Il lento ritmo di quelle note disperate
accompagnava la triste sorte
del povero cigno con le ali spezzate
nell’ormai calmo sonno della morte.
D’improvviso il musicista si fermò.
Abbassò il violino come fosse pesante
e con occhi febbrili intorno ci guardò
con l’arco sospeso e ancora vibrante.
La folla applaudì con commozione,
ma lui chinò il capo come umiliato
da quella misera condizione
che tormento e dolore aveva causato.
Dieci soldi per quel canto divino,
dieci soldi per l’infelice musicista,
senza forse capire che quel violino
svelava l’animo di un grande artista.
(Ispirato a "La morte del cigno" di Saint Saens)
Dal vecchio asse di legno marcito
è affiorata un’esile mano
che il tempo non ha mai scalfito.
Il pavimento dell’umido vano
ha nascosto quel gesso ingrigito
che per cinquant’anni ho calpestato.
L’orgoglio era stato forse sordo
e il dolore era stato muto,
ma è rimasto in me il ricordo
come il più triste che ho avuto.
Con quanto amore l’hai creata
quella grande angelica Madonna!
Rivivo l’emozione di me bambina
quando lei era stata plasmata.
Ammiravo, a mio papà vicina,
quel suo dolce bellissimo viso,
che di mamma aveva le sembianze
quando lei avesse sorriso.
Oh papà!
Che grande fatica hai sopportato,
com’erano attese le speranze
per l’immenso lavoro completato!
Se ti sfiniva l’immensa stanchezza
pensavi al premio da guadagnare,
nella folle e illusa certezza
che con l’arte potevi lavorare.
Quando la vincita ti spronava,
volevi coprire quella scultura
con il bronzo fuso che mal colava,
denso e bruciato per poca cura,
sul fragile gesso ancora bagnato.
Per premiare il più bravo scultore,
esposero le statue sul sagrato:
tra tutte la tua era la migliore.
Ma l’ultima scelta per l’alta colonna
fu di chi diede la benedizione
a un’altra più moderna Madonna
per denaro spinto in tentazione.
Fu omaggiato l’altrui successo
e ben ricompensato il vincitore,
mentre la tua misera statua di gesso
non poté avere destino peggiore.
La rabbia del pesane martello
colpì il capo reclinato
e il lungo candido mantello.
Soltanto il diadema fu salvato
che povertà pennellò d’oro finto:
il ferro con cui era foggiato
con errato colore fu dipinto.
Tutto sarebbe stato cancellato.
Oh papà! Ti è stata ostile l’arte,
neppure mamma la voleva.
- Il tuo genio tienilo da parte -
ricordo che lei sesso diceva
- usalo e assaporalo da solo! -
Perché non hai fermato allora
quella rabbia che per il rimorso
è continuata per anni ancora?
Anche se il tempo è ormai trascorso,
voglio dare pietosa sepoltura
ai cocci di calce ingrigita.
Li porterò nella vecchia serra,
dove lei è stata costruita
e li coprirò con la nuda terra.
Voglio che tanti fiori ricoprano
insieme ai tristi rimpianti
anche questa piccola, esile mano.