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Raccolta di poesie di Menotti Lerro
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Mia montagna preziosa, Ladolfi, 2024

Mia montagna preziosa,
mia chiesa, tra felci
arrugginite e more
succose, mia luce,
mia sposa.
Ai tuoi piedi resto
inginocchiato e muto;
muto come la morte
che si abbatte su di me
dalla tua croce più alta.

 

[Da Memorie e figure di fine millennio, Ladolfi 2024]


Id: 72072 Data: 18/11/2024 03:24:54

*

Una nota sospesa, Ladolfi 2023

Una nota sospesa

scioglie l’informe

pentagramma di presagi

che ignara disegnasti

con un colpo di rimmel.

Ricordi?

Scalavamo le rocce frastagliate

senza protezioni

se non dell’altro le mani

e la vetta era lontana, vietata

agli angeli scacciati e malinconici.

“Non guardare il vuoto!” dicevi,

a ogni scoramento. E io resistevo

per non deluderti, per donarti il sole

prima di dileguarmi come la scia

di una folle cometa. 

 

[Da Una nota sospesa, Ladolfi, 2023]


Id: 72071 Data: 18/11/2024 03:20:18

*

Lockdown. Profumi d’autunno, Ladolfi, 2022.

L’autunno arrivò con uno spasmo

tra la polvere delle ferite.

 

Controvento lasciai Edimburgo.

Le botteghe di Omignano

avevano spento le insegne.

 

Qualcuno cercava sepoltura.

Dal balcone mesti saluti.

Il prete e l’autista si congedavano

con un cenno del capo,

sventolando un sudario.

 

Inginocchiato sentii

la povertà degli uomini,

ombre senza colpe.

 

Rito breve, taciti fiori.

Neanche la campana risuonò

in quei giorni.

 

Terrore al mattino:

mancavano i nostri nomi

nel tetro bollettino.  

 

Dagli ospedali i corpi

imploravano un grido, una supplica

di sofferenza, di assenza.

 

Non avevamo forza per incidere.

Si può forse comporre nel dolore?

Senza riti consolatori precipitammo,

silenzioso tormento.

 

*

È bastato un soffio.

Cadono alberi e torri nel nostro

piccolo mondo cesellato a colpi

di carta vetrata e rozzi pennelli.

I medici giocano a Blackjack

operando fantocci, bestemmiando

tra gli infermieri complici.

I docenti a scuola leggono

“La Gazzetta dello Sport”

mentre i ragazzi accovacciati

sotto i banchi sguazzano

nelle polveri sottili.

Il virus ci farà Santi?

ripete l’arrotino che resiste

dalle mie parti, mostrando

la luce dei suoi coltelli perfetti.

 

Ogni casa è più sola.

Le ugge tradiscono i lumi

e nessun profeta osserva

la vena della mano.

Strade in rovina, il campetto

dell’infanzia ha una spada

conficcata al centro

e un pallone rubino

avvinghiato come labbra aride

su un filo di spini.

Eleganti gesti riecheggiano

nell’aria paludosa.

Non esistiamo più.

La fede ha gli stessi occhi

di un condannato.

 

Spauracchio

ad ascoltare il tempo.

Sul quadrante le formiche

dei secondi nutrono

i serpenti delle ore.

Vanamente ho aspettato

un bagliore per chiedere perdono.

Poi, genuflesso e vinto,

l’ho stretto, svelandogli

ogni cosa fino a sentirmi pieno

nell’essermi svuotato.

Nel delirio, devo averlo baciato.

 

Quanti ponti possono spezzarsi!

La natura muta senza mutare

lasciando al posto dei corpi

una corona di luce che altri

corpi attraverseranno.

E nessun nome venga sentenziato,

ma onesti acrostici

e languide preghiere.

 

Un giorno anche le stonature

di guerra saranno pace,

come ricordi: putridi sentieri

che indicano la via del non ritorno.

Facile perdersi nel ricercarsi.

 

A volte penso che ricordare

faccia accettare di non sentirsi vivi.

Allora chiudo gli occhi

e rivedo mia madre

con i suoi capelli d’altri tempi

e un coro angelico alle intemperie.

…le mollette rotte e affilate

per farne macchinine da far scivolare

sui muretti e bucare le lenzuola

attraversando lo spazio e il tempo.

Eravamo felici, anche se di notte

gli occhi s’argentavano

pregando San Bartolomeo.

La memoria è un inganno necessario.

 

*

Putin tolse la maschera

per mostrane un’altra.

Nel nome della libertà cosparse

sagome d’incenso afflitte dalla sete.

L’Europa si riscoprì fragile

come la sua moneta,

come l’America che ogni guerra

celebra inneggiando alla pace.

La lira dei cantori non aveva talento

agli occhi dei social network.

 

Poi arrivarono l’inganno

e la vertigine,  

i mali al tramonto

che hanno senso

solo per se stessi.

Le pillole sul comodino

e i versi tarlati come le ossa.

Senti la brezza sibilante

del corridoio raggelarti

la mascella e le orecchie,

ti accorgi che le coperte

non rimediano più come un tempo.

 

Il bambino è invecchiato

nella sua falegnameria.

A volte si agita nel buio

come specchio ai lamenti altrui,

mentre il mondo sprofonda

senza averci stretti

se non per stritolarci.

 

 

*

Ti ricordi Adelfine?

Adelfine che tornava d’estate

e ci svelava i segreti dell’amore?

Non è più venuta sul colle.

In questo borgo che mai ha amato

nonostante le origini.

Una volta disse che il mio verseggiare

si ergeva a speranza per le zolle inaridite.

Sembrò troppo: poca è la speranza

in questa carta!

Lei che sorrideva da lontano.

E da lontano avrei potuto amarla.

Mi sarebbe bastata una ciocca di capelli

o una polaroid da tenere nella tasca

sinistra della camicia.

La memoria in certi casi non basta

se non ha un appoggio ricreativo.

 

 

*

È una promessa mancata il sole.

Misera la festa ai personaggi

bordati d’aria che rivivono

nelle maschere di aurorali attori.

Faust, Donna Giovanna,

Don Raimondo, il Gorilla

spingono per una forma.

Non sanno quanto verdeggiare

cela un’eterea inconsistenza.

 

 [Sezione tratta da: Lockdown. Profumi d'Autunno, Ladolfi 2022]

 


Id: 72070 Data: 18/11/2024 03:17:16

*

Nulla ci appartiene se non i sogni

Nulla ci appartiene

se non i sogni,

le immagini confuse della notte,

le voci che più non distinguiamo.

 

[Da Primavera, 2008]

 


Id: 72069 Data: 18/11/2024 00:09:35

*

L’infinito č dentro ai nostri occhi

L'infinito è dentro

ai nostri occhi;

non fuori, nelle cose

del mondo,

ma nella loro ombra.

 

La notte, la morte,

il battito di ciglia, 

ci rimettono al cosmo,

fuori dal tempo.

 

[In Primavera, 2008]


Id: 72068 Data: 18/11/2024 00:07:29

*

Cilento

A un riverbero di labbra dall’Irno

i tuoi arenili, i borghi allucinati
dalle inestinguibili bocche montuose,
le strepitanti rovine delle civiltà remote.

 

Scriverò di te, oziante su una pietra
a Finocchito, smarrito in una pace saracena.
Chiudo gli occhi, il sole mi trafigge,
mi protegge, disco fluorescente: Elea,
torre nera, ulula Mefistofele ogni sera,
Palatina croce sull’acropoli, tesori,
anime di un anfiteatro scevro di candele.
Frantume di vetro, Paestum, templi
succosi come i fichi eterni di Prignano.
E se Palinuro giace nel sonno di acque
sconosciute, è nell’Alento che immergo
mani di emigrante per bruciate strade.

 

Un ricordo – istante infinito – e già nelle
conchiglie del viso Cicerale: semi, olive, bestiame.
Capaccio, ancora, dalle bufale canute
come la pace, come rocce di Trentinara
a picco nella Valle del Sele, poggiolo tiepido
su una costa, su un’azzurra grotta.
Roccia come Monteforte, Magliano,
Capizzo perciata, come Stio
guerriera e normanna su un pendio,
o Torchiara nobile e carbonara.
La poesia a Gioi è un battito per Maia
curato con il sale; a Moio, greco presidio militare.
Se ripenso a Salento si innalzano dottrine
cesellate senza tempo – lì fangose criniere
d’Italia mutano in usignoli
in un carico giorno di funesto pianto.
Omignano disfatto mille volte,
caldo giaciglio, giardino cristallino
germogliato da un incantamento.
Tra i marosi sirena, Acciaroli;
Pioppi, elisir di vigore.
Oh, Agropoli, il cardine tuo
sul promontorio sedusse Apollo
e Castellabate è il suo Giacinto.
Su ogni fiore veglia Vatolla
che all’occhiello ha una cipolla
e il simposio fresco di una rocca.

 

Cilento – mai letto di Damaste,
di Afrodite e Pan prediletto figlio,
disamore e amore, supplizio –
dove la costa lambisce la montagna:
Cervati, Gelbison, Stella: nel segreto oblio
che ristora, amaro e pago asinello
in un verde sconfinato senza sella.

 

[Da Canto Randagio del Cilento, Ladolfi, Gennaio 2019]


Id: 72066 Data: 17/11/2024 22:51:02

*

Poesie di Menotti Lerro tratte da Estate, 2008-2020

Estate (Poesie 2008-2020), Ladolfi editore 2020

 

Si raccolgono in volume le poesie, i pensieri e le diverse voci che in varia misura, ma tutte insieme, hanno accompagnato il difficile cammino della maturità dell’autore. Difficile, aspro – anche se facile non è per nessuno – poiché vissuto Nel nome del padre, come suggerisce anche la raccolta di versi Il mio bambino, che decreta un’inversione drammatica e amorevole dei ruoli. La figura del padre, si può dire che sia presidio a queste pagine e non occorre guardarle in filigrana per sincerarsene. Ma nella sua scrittura c’è molto altro, ed ecco che gli elementi privati diventano universali ed esemplari, così come lo sono quelli impersonali. È, infatti, in questi componimenti, nella sua seconda stagione – quell’Estate simbolo della maturità come uomo e come artista – che l’autore raggiunge una compiuta singolarità e originalità di poeta, vale a dire una giusta contemperazione di mente e di cuore. Di mente, certo, e anche di cuore, è questa l’impressione del lettore, perché sembra che soltanto qui, nell’effusione lirica della poesia, Menotti Lerro abbia trovato, percorso iniziato fin da giovanissimo, una libera e prima possibilità di espressione.

 

Prefazione di Giampiero Neri

Milano, 9 marzo 2020

 

 

(prima pubblicazione, 2013)

 

GLI ANNI DI CRISTO

 

Libera me, Domine,

de morte æterna,

in die illa tremenda,

quando coeli movendi sunt et terra.

Dum veneris iudicare sæculum per ignem

 

 

I

DEL FANGO E DEL FUOCO

 

Desiderium habens dissolvi

et cum Christo esse

 

Ventidue è il doppio di undici

e io morii il ventidue febbraio del 1980.

Fu nella stagione Peret,

quella che passa senza rimpianti

se non per chi vi muore

una volta all’anno.

Si dice che l’uomo perisca

una sola volta e che poi di morte

si illuda nel tornare alla vita.

 

Nel mercato di via Papiniano

ogni voce è una radio,

ogni volto una stella di luce riflessa.

Io fluisco in silenzio, mi affido

alla corrente; il marmo degli occhi

incornicia ogni cosa, duole il dente,

schivo la bocca di un serpente.

 

Le perle più belle del creato!

Olive greche, alici marinate!

Pesce spada regalato!

Giuro sulla testa del neonato!

 

Il giorno ci è caduto addosso

cucendo vestiti sulla pelle,

tratteggiando ombre sull’asfalto,

lume alto sulle cime.

Abbiamo ricordato zia Giovannina,

i bon bon dalle Americhe,

la borsa marrone con le posate private.

Poi non tornò più. Nessuno ci parlò

del suo viaggio, fine lontana dal principio,

noi non chiedemmo. Basta così poco

per essere dimenticati.

Bambini ingrati.

 

“Vieni Luan, nascondiamoci

nel grande cartone, qui non si

sente rumore, apriremo finestrelle

sull’oceano da affidare a Giano Bifronte.

Sarai la regina del castello, io re,

la corona e l’ombrello. Spariranno

i mostri della notte, il drago infilzato

dal bastone. Saremo liberi!”.

 

“Come possiamo essere angeli

mentre il fuoco divora i pensieri del padre?

Siamo cristalli in preda alla luce,

sogniamo d’essere bambini.

Nessun’ombra alle spalle, mani gelate.

Soffia, soffia sulle mani la neve che hai dentro,

restaurerai le cicatrici, sei un fiordaliso”.

 

Si radeva la barba tra mille sorsetti:

“…quel giorno mi scordai di spigolare…

eran trecento… giovani e forti… morti!

passero solitario dove andrai? donzelletta mia…

Non è la terapia la poesia, ma la pazzia!”.

 

Padre, gli dèi ingenerano negli uomini

la ragione, supremo fra quanti beni esistono.

Io non potrei né saprei dire che queste

tue parole non sono giuste. Sembravi rinato.

 

Poi la vetrina alle spalle, il tonfo che ridesta,

eterno incantesimo; siamo ancora nel tunnel

senza uscite, negli anni di Cristo:

non passano, si accumulano!

Non torneremo a correre pendii

e i nostri ieri rivivranno sul carro dell’auriga

stretti per non cadere, verso la contemplazione,

luminosa neve di Natali all’alito delle fiamme

dove i gatti sognavano l’angelo rosso.

Sovrapposizione folle il volto,

dal nero al velo della barba,

impossibile mappa dei vagoni del tempo.

“La carne è uno scudo lesionato!”

farfugli nel terrore del frammento

“La salveremo con il sale,

di quanto negli occhi rimane”.

 

“Vecchio bambino ingordo,

quale vita vorresti?”.

 

 

Potessi rinascere stanotte,

scegliermi un destino, nascerei ancora

in un povero mattino in una bianca

casa senza porte.

Il vento è una mano sulla pelle.

Non temere sorte o morte.

In chiesa ogni uomo si raccoglie,

rintanato spera. L’occhio distorto

dello spirito stolto da poterlo

ingannare con due arcate

in bella mostra, la questua per il prete.

Fiorirò nell’anno del Signore,

pietra pomice sulla riva dell’estate.

Tra-vestito e l’anima, le ossa.

 

Come l’acqua del Mastellone urla

nelle vene l’amore nel verso che vuole.

Lucciole impazziscono tra i sassi,

la trota smuove lame leggere.

Il saggio ha innalzato gli scudi sulle rocce,

pietra su pietra, io sono stato!

L’azzurro è la poesia dei giorni,

magma che solidifica il cuore.

Il fiume in cui entriamo è lo stesso,

ma sempre altre sono le acque

che scorrono verso di noi.

Al muro le stelle sbiadite

non cadono come d’estate

inseguendo i desideri degli amanti.

 

Fermo è il tempo nel petto del pupazzo

di neve sulla piazza senza braccia.

Non hanno pupille gli occhi

e dai bottoni della bocca

non si espande più fiato.

I passi degli uomini creano

un’altra dimensione. I ricordi

in preghiera, fiocchi caduti:

moriranno domani allo spuntar del sole.

La mano cuce la notte.

Rallenta fino a fermarsi il quadrante

della piazza, matite spezzate.

La gomma cancella le ferite.

 

Don Don Don

 

Seamus Heaney è più vecchio di me,

l’ho capito osservandogli la vena.

Mi ha detto: “Guarda come son fresche

le rose del tuo volto, abbine cura!”.

Poi si è dileguato tra due fogli.

A volte riguardo le mie rose,

penso alla rugiada che disseta nella notte,

il mondo che scompare tra la seta.

Dureranno un mattino le mie rose,

il tempo d’ascoltare il tumulto

delle palpebre accostandosi

al seno imbottito di velluto.

 

Fu a Stonehenge, un sussulto

di macchine fotografiche prima

dell’amore sulle foglie.

Dureranno una notte i sospiri,

tempo d’accostarsi al tumulto

del tuo battito francese.

Come ci ha cambiato la notte,

le immagini sono già distorte

e la speranza sa di rimpianto

senza tempo. Il viaggio finirà

sulla croce del monte,

ci toccherà aver paura,

chiedere perdono.

 

“Hai mai chiesto perdono?

Ti inginocchi vicino all’altare del fiume?

Sotto una quercia secolare

dal petto incavato per nasconderti

quando nel bosco piove e la terra

libera fragranze per proteggere

ogni sua creatura?”.

 

“No, non mi sono mai nascosto

in una quercia. Ho temuto le folgori.

Né mi sono accostato ai fiumi.

Sono rimasto nelle torri più alte,

Babele abbattuta dalle aquile”.

Anything can happen! negli anni del Signore.

 

Andiamo ora nel deserto.

Basterà un dito per scrivere un verso.

Non ci sono torri lì, dormiremo

sicuri tra la sabbia: dolce coperta

in cui avvolgere i corpi e rattopparne i buchi.

“Ho paura!”. “Di cosa hai paura?”.

“Temo l’angelo cattivo!”.

“Torbidissima ombra, unico tormento.

Lascia che io vada da solo

verso l’oasi promessa!

Io sarei nato per essere uno,

non sentire voci alle spalle

quando spuntano traditrici le luci!

Possa la lebbra attaccarsi alle tue ossa!”

 

“Sai che non ho ossa! penso alle tue,

che scricchiolano quando cammini

(io striscio sul ventre) quando dormi

su morbidi cuscini lasciandomi sui muri.

Di te non avrà pietà il Padre,

…non ne hai per nessuno!

L’osteoporosi ti bucherà lo scheletro,

mi vedrai con la luce dentro scomparire”.

 

II

LA TENTAZIONE DEL PANE

 

(continua...)

VIDEOMENOTTI LERRO legge GLI ANNI DI CRISTO (2013). Lettura 2024 - Reading 2024 - YouTube


Id: 71846 Data: 07/10/2024 11:36:48

*

Poesie di Menotti Lerro tratte da Primavera, 1997-2007

Da Primavera (Poesie 1997-2007).

 

Menotti Lerro ha nel cuore un pianto, un pianto acuto e sottile che lo accompagna, che gli fa compagnia e che di punto in bianco si tramuta in riso. La poetica di Lerro consiste in questo, riso e pianto, e in mezzo c’è l’orrore sordo, senza parole, che si interroga come si interroga il silenzio, al quale ci si rivolge come alla morte. Primavera raccoglie testi che vanno dal 1997 al 2007, da Ceppi incerti alle ultime poesie che dovrebbero costituire l’apice di questa antologia, la Maturità che la conclude. Ma anche se il passaggio da una raccolta all’altra costituisce un progresso, soprattutto sul piano del linguaggio, rimane il dolore la tonalità di fondo di queste poesie, il dolore e l’orrore che percorrono tutto il libro. “Poesia, Amore: significanti/di corpi che non sanno di esser morti”. Questo è uno degli ultimi versi, Tra-vestito e l’anima, ma potrebbe rivelarsi emblematico di tutta quanta la raccolta, prendere l’essere-per-la-morte come primo e insuperabile punto di vista, la morte che è l’originario status del nostro essere nel mondo, che dà al mondo il suo significato più chiaro e autentico. “Siamo carcasse negli angoli delle strade trucidate”, dice un altro verso, e qui accanto alla morte si consuma qualcosa di sordido, “sangue aggrumato che scorre sulle zampe”, dove forse l’umano è ridotto al bestiale, dove l’umano e il bestiale si confondono.

 

Prefazione di Roberto Carifi 

 

*Ceppi incerti

Nella stanza in ombra per tre quarti

mi trovo ancora vicino ai ceppi incerti.

Solo con mani fredde e nere

attizzo il fuoco paziente alle solite preghiere.

Arde il ricordo della grigia infanzia

tra fumo amaro dolci ricordi di speranza.

 

Omignano, 1997

 

*Veglia millenaria

È gelida la notte dell’ultima veglia millenaria

e, anche quest’anno, s’arrotano mulinelli

cartacei e polverosi.

Non muta la voce dei soliti compagni di piazza;

l’orto, anche questa notte, è sempre bianco

e le zolle sono ancora aride e dure

alle braccia affaticate di mio padre.

Anche stanotte per quel ciglione vaga

il vecchio cane compagno che non cura

le illusioni mie del tempo e torna

al portone stanco portando buio freddo

in mezzo ai denti.

M’avvolgo nel tremore di un lampione

ad un insetto tomba, mentre un’alba

lieve sfida la notte lasciandosi alle spalle

altri mille profondissimi inverni.

 

Omignano, 1-01-2000

 

*Notte

M’invadono ombre d’innumerevoli inganni.

 

*Nella notte

Mi risveglio all’ombra

del lume grigio di mia madre.

È notte alta, fila ancora

quella sua tela stanca

 

*

Sono tornato a casa per piangere mia nonna.

Le ho accarezzato i capelli bianchi, baciato la fronte.

Solo oggi capisco quanto sia fredda la morte.

Pare che dorma: è bella!

Sulle labbra un sorriso e mi sembra ieri

che mi dava quattro lire per farmi mangiare.

 

L’ultima valigia aperta

di tremula incertezza.

È nel buio del suo sonno

mio padre, accanto a me,

e già lo sento piangere

ciò che nell’aria

di settembre avverte.

 

Oh, quante volte indietro

getterò i miei occhi,

che ti vedono ancora solo,

vicino ai quei tizzoni

ad aspettarmi.

Il rosso, il nero, il filo per i denti…

e il vuoto è quasi colmo all’apparenza.

Stride la finestra del terrazzo

e scende tra i miei piedi il vecchio gatto.

Il cuore quasi mi si ferma

tutto a un tratto. Batte, batte, batte

il vento sulla porta: “È l’anima

di chi non ritorna! Ha la voce rotta...”.

 

Ma è l’ora, è pronta:

l’ultima poesia mia

con questa penna.

A te

solo

lascio

l’inchiostro per il gioco,

la carta per il fuoco. 

 

*

Quando crollerà

sarà una massa grigia

che viene giù a pezzi,

sarà il punto di luce

che acceca.

Abbraccerò in piazza

il cavallo, l’amico Wagner,

e di me non resterà

che essenza.

 

*

Il perché che non trovammo

 

1

Ascolta, che cos’è quel rumore?

Sì sì, eccolo! Un gatto randagio

che fermo rosicchia il suo topo,

le carni sfilacciate...

 

2

Stasera il bosco penetra le case

che aspettano, aspettano ancora, ancora.

Da qui si vede tutto.

 

3

Il grido di Maria ci sorprese

mentre spartivamo le focacce;

e poi il silenzio assoluto, spettrale.

Il gioco era finito.

Lo capimmo allora e tu piangesti

e ti stringesti a me invocando

la nonna morta, chiedendomi

il perché che non trovammo,

che non trovo.

 

4

Nella classe c’erano solo occhi

di gesso appesi alla lavagna,

puniti dalla mano ferma del maestro

che ritrovammo bianco e gonfio

sul suo letto in un giorno di pioggia

che mai più sarebbe passato.

 

5

A casa perdevamo i colori

e si creavano i suoni del terrore.

Si mangiava di corsa, mano angosciata,

sudata al freddo delle mura umide, storte,

che mai più sarebbero passate.

 

6

Il gioco era un’invenzione: sognare

lo scudetto in una radio, chiudere

i soldatini nelle trincee del cuore,

affilare qualche molletta del bucato

per farne un’automobile giocattolo

che ci portasse via, ma che poi mai

sarebbe passata.

 

7

Il pianto della rassegnazione non ha eco,

non lo puoi toccare, vedere, sentire,

ma solo immaginare in attimi

che non t’aspetti mentre tua madre

taglia le patate e pulisce il coltello

sul grembiule.

 

8

E poi Natale... Natale!

Natale per chi sogna è di domenica,

le strade si inebriano di incensi,

ogni mano porta in dono l’altra mano,

sulla soglia della chiesa c’è la brace… sa di neve.

 

9 Chi mai sogna aspetta l’inclito giorno

con timore e sorride per nascondere

alla gente le sopracciglia aggrovigliate

dal rancore. Gli anni non passano,

si accumulano! E i denti dei vecchi

e dei bimbi cadono e li ritrovi al suolo

come diamanti.

 

10

La dentiera che mi baciava è rimasta qui

dopo che te ne sei andata.

A volte la guardo e ti vedo ripulirla

con lo spago, con uno stecco di campo

e poi soffiarla, paziente, con amore.

Un giorno, forse, la darò alle mie mascelle.

 

11

Sulla soffitta potevi trovare la paglia e le ossa

del cranio delle pecore che il macellaio

incarcerava. Le spolveravo con la maglia

e l’occhio immaginato era sublime.

Allora era quella la felicità.

 

12

La zia Adalgisa portava le camicie

una volta all’anno a suo fratello,

sempre di due taglie in meno:

quelle del marito. E a noi dava

diecimila lire da spartire,

così da pagarsi il pranzo

e le offese senza prezzo.

 

13

Nel bar del gobbo entravo

in un video game e nessuno

me ne tirava fuori, neanche la notte,

il sonno o gli schiaffi dei più grandi

che giocavano... giocavano.

 

14

Al tavolo c’erano tre sagome sfatte

che insultavano le madri

di averli messi al mondo.

Sei pazzo ragazzo come la tua stirpe!

Per questo... paga... un altro fondo del bicchiere.

 

15

Impazzire fu la morte del cane

che mi leccava il cuore e un pezzo

della sua carne messo sulla legna

per farla bruciare; impazzire fu perdere

la casa per i debiti, la scuola, l’amico più caro,

scappare da mio padre,

dal sadismo della gente.

 

16

Sulla sedia a dondolo inventavo

le nuvole d’aprile aspettando la pioggia

e le ombre della sera che tardavano,

che non m’ascoltavano.

 

17

Di notte, nella stanza, mi appendevo

al crocefisso; lo vedevo cieco:

un povero cristo morto

sotto una corona di spine.

 

18

Una dopo l’altra le immagini del giorno

bruciavano nell’angolo della testa morta,

lì, lì, sul guanciale, e al mattino, resuscitato,

buttavo via le ceneri in un sacchetto nero.

 

19

Il giorno in cui morii fu l’unico diverso;

poi sempre uguali, aspettando che qualcosa

arrivasse o andasse via dal marasma

del tempo e dell’anima.

 

20

Starsene fermi, trasportati dalle onde:

magari ti porteranno a riva o a fondo, chissà.

 

21

Sulle pareti bianche il sangue

è in bella mostra. Zanzare grosse

e grasse muovono le zampe al vento

della finestra da dove arriva il sole,

il sole che fiuta ogni cosa morta

e la cerca bussando fin dove

non vede per divorarne le carni, le carni!

Domani divorerà anche queste.

 

22

In ufficio ho gli occhi stropicciati

sulla scrivania, la barba flagellata,

gli stessi jeans e confondo le mie ascelle

coi deodoranti al borotalco.

 

23

Come va oggi? (Ti chiede sorridendo

una sagoma offuscata dalla miopia).

Bene, bene, sempre meglio!

(Le biascico un sorriso.

Pian piano ci si abitua al buio…).

 

24

Qui se non ce la fai a sorridere

sei nella gabbia che apre

la sua porta al gatto.

 

25

Tornando a casa, via Padova

è un fiume di occhi neri: sui marciapiedi,

negli autobus marci.

Un filo d’acqua buona

per pulirsi, specchiarsi, bere.

 

26

Domani mi nascondo

sotto la bancherella

dell’indiano con la piccola Yasmine…

immobile, in silenzio... gioca...

le racconto fiabe.

 

Milano, 2005

 

*

Dentro la notte inquieta

sprofonda chi veglia,

ardente silenzio inespresso.

Negli occhi vitrei

l’ultimo ricordo d’infanzia:

ombre che scendevano dai monti

portando buio freddo in mezzo ai denti,

calpestando i funghi della pineta,

lasciando morte tra i sentieri

di castagni e oleandri,

sostando in brevi attimi di speranza

lungo il ruscello per pulire le fauci pronte…

le bestie indifese che fiutavano morte

al suolo polveroso.

 

 

Allora si trovava rifugio nel cielo plumbeo.

 

*

Non ho più niente,

le luci sono spente

in O’Connell street;

Molly Malone mi ha

venduto castagne e fragole,

le ho divorate inventando

i suoi seni.

 

Il Celtic shop dove lavoro

è ormai chiuso,

Kavin starà contorcendosi

con la pipa accanto.

Dublino è senza cielo

come Omignano e Milano,

Oxford e Londra,

Madrid, Barcellona e Bilbao,

come Praga e Budapest,

Francoforte e Monaco…

Non c’è casa.

 

Dublino, 2006

 

I figli dei pazzi nascono tra bianche mura senza porte,

giocano e si nutrono con sillabe storte.

 

I figli dei pazzi odiano la gente,

sono stupidi, cattivi, svogliati, annoiati, malati.

 

I figli dei pazzi non hanno amore

e se corrono sui prati è per distruggere i fiori.

 

I figli dei pazzi non dormono di notte,

vagano ubriachi con le scarpe rotte.

 

I figli dei pazzi mentono, tradiscono!

Se ti sorridono e stringono è perché ti uccidono.

 

I figli dei pazzi non hanno colore

sono pallidi e sudici, di cattivo odore.

 

I figli dei pazzi sono solo pazzi

e se muoiono nel sonno non saranno pianti.

 

*

L’infinito è dentro ai nostri occhi;

non fuori, nelle cose del mondo,

ma nella loro ombra.

La notte, la morte, il battito di ciglia,

ci rimettono al cosmo, fuori dal tempo

 

*

Invecchiamo negli occhi della gente

o quando, nell’aprire un armadio,

lo specchio ci sorprende.

Invecchiamo immersi a mezzo busto

nei nostri fiumi, quando scorrono

le immagini tra mille pieghe;

invecchiamo nei riflessi perversi

delle posate e dei bicchieri.

 

*

La falegnameria profumava

d’alberi e incensi.

Mio padre passava la Vinavil bianca

negli incastri, infilava i chiodi d’acciaio

con due colpi: breve-intenso.

Io lo imitavo, martellino,

tra le mani miniature degli attrezzi...

sognavo il Cavallo di Troia.

Poi di sera mi nascondevo

tra la segatura: «Non c’è posto

più sicuro al mondo» diceva,

allargandomi le braccia.

Oggi che non ho rifugio

se non negli occhi, sereni allora,

di mio padre (quiete prima della bufera),

pezzo dopo pezzo

riordino la nostra falegnameria.

 

*

Che ne è stato di quel chierichetto,

dei giochi coi gatti al sole?

Dove sono ora le preghiere 

confidate ai marmi, le ostie sciolte

con le penitenze?

Tutto è nebbia che avvolge le ossa.

 

*

Nulla ci appartiene se non i sogni,

le immagini confuse della notte,

le voci che più non distinguiamo.

 

*

Dove sparisce adesso il sole?

Quali carni infetterà con la sua falsa luce?

Quale carcassa divorerà, senza pietà,

prima di infilare ancora

le sue spade nella notte?

 

*

È durata troppo poco l’infanzia.

Una corsa sul prato, un contare alla rovescia.

In mezzo è caduta la notte

e non abbiamo visto che occhi infuriati.

Non ci resta che aggrapparci ai sogni, all’ignoto.

 

*

Se dovessi descrivere un solo volto,

uno, uno soltanto, dei tanti volti

incontrati lungo il mio cammino,

non saprei farlo.

Gli occhi, ad esempio gli occhi:

verdi, azzurri, gialli, rossi, neri, castani, viola...

diventano nei miei ricordi buchi neri;

terribili, terribili, ossessionanti buchi neri.

La pelle? Ah, la pelle... un’autostrada

o magari un deserto.

Sono assalito da un fatale sbriciolarsi

delle linee e di ogni corpo non resta

in questa testa che un’ombra,

ombra oscura, senza volto né voce.

 

*

Sul letto il corpo si fa carne,

si scioglie al sole caldo d’agosto.

Temo il soffitto, che possa schiacciarmi.

La pelle è un lenzuolo stropicciato e sporco.

Tra poco guarderò le palpebre dentro,

cadrò da un incubo in un altro incubo.

Non mi appartengo, sono una statua

intessuta di nervi e tendini.

L’anima è solo una parte del corpo.

 

*

Poesia, Amore: significanti di corpi

che non sanno di esser morti.

 

Nessun verso è perfetto,

non ci sono giudici

che battono il martello.

 

*

Presto saremo come i morti

che scalando i cieli riguardano

la mappa fluorescente lasciata sulla terra:

i passi, i loro passi…

Scopriremo allora il disegno

della nostra vita?

Fiore, frutto, uccello, gioiello… o magari

niente… linee confuse… folle schizzo

irripetibile.

 


Id: 71845 Data: 07/10/2024 10:20:40

*

Four Poems by Menotti Lerro in English Language

* The carpentry

 

The carpentry smelt of trees and incense.

My father spread white Vinavil in grooves,

inserted steel nails with two short, intense blows.

I imitated him, little hammer,

between my hands, his tools in miniature…

I dreamt about the Trojan horse.

Then in the evening

I hid myself among sawdust:

"There is no safer place in the world", he said,

with open arms.

Nowadays I take no cover

but in his eyes (in the calm before the storm);

piece by piece I tidy up our carpentry.

 

 

* We grow old 

 

We grow old in people’s eyes

or when, opening a wardrobe,

the mirror takes us by surprise.

We grow old, half-plunged

in our rivers seeing portraits reflected

when images flow among

a thousand folds; we grow old

in twisted reflections

of cutlery and glasses.

 

 

* Upon this paper

 

Upon this paper my life is written,

a tree doubled over in pain.

The red ink flows over the skin,

full stops and commas

are hair and stars: eyes of sea

left on ships, destroyed houses,

rusting girders.

This paper is as black as the storm,

destroyed villages where there is no fiesta.

This paper burns as reason does,

lightning in the sky flashes in its millions.

This paper is a sky where there is no God,

this paper is alone… this paper does not fly…

this paper… it is I.

 

 

* The infinite is inside our eyes

 

The infinite is inside our eyes;

not outside, not in the things of this world,

but in their shadows.

Night, Death, Blinking,

take us through the universe again,

out of time.


Id: 71669 Data: 05/09/2024 10:30:45