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Mia montagna preziosa, Ladolfi, 2024
Mia montagna preziosa, mia chiesa, tra felci arrugginite e more succose, mia luce, mia sposa. Ai tuoi piedi resto inginocchiato e muto; muto come la morte che si abbatte su di me dalla tua croce più alta. [Da Memorie e figure di fine millennio, Ladolfi 2024]
Id: 72072 Data: 18/11/2024 03:24:54
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Una nota sospesa, Ladolfi 2023
Una nota sospesa scioglie l’informe pentagramma di presagi che ignara disegnasti con un colpo di rimmel. Ricordi? Scalavamo le rocce frastagliate senza protezioni se non dell’altro le mani e la vetta era lontana, vietata agli angeli scacciati e malinconici. “Non guardare il vuoto!” dicevi, a ogni scoramento. E io resistevo per non deluderti, per donarti il sole prima di dileguarmi come la scia di una folle cometa. [Da Una nota sospesa, Ladolfi, 2023]
Id: 72071 Data: 18/11/2024 03:20:18
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Lockdown. Profumi d’autunno, Ladolfi, 2022.
L’autunno arrivò con uno spasmo tra la polvere delle ferite. Controvento lasciai Edimburgo. Le botteghe di Omignano avevano spento le insegne. Qualcuno cercava sepoltura. Dal balcone mesti saluti. Il prete e l’autista si congedavano con un cenno del capo, sventolando un sudario. Inginocchiato sentii la povertà degli uomini, ombre senza colpe. Rito breve, taciti fiori. Neanche la campana risuonò in quei giorni. Terrore al mattino: mancavano i nostri nomi nel tetro bollettino. Dagli ospedali i corpi imploravano un grido, una supplica di sofferenza, di assenza. Non avevamo forza per incidere. Si può forse comporre nel dolore? Senza riti consolatori precipitammo, silenzioso tormento. * È bastato un soffio. Cadono alberi e torri nel nostro piccolo mondo cesellato a colpi di carta vetrata e rozzi pennelli. I medici giocano a Blackjack operando fantocci, bestemmiando tra gli infermieri complici. I docenti a scuola leggono “La Gazzetta dello Sport” mentre i ragazzi accovacciati sotto i banchi sguazzano nelle polveri sottili. Il virus ci farà Santi? ripete l’arrotino che resiste dalle mie parti, mostrando la luce dei suoi coltelli perfetti. Ogni casa è più sola. Le ugge tradiscono i lumi e nessun profeta osserva la vena della mano. Strade in rovina, il campetto dell’infanzia ha una spada conficcata al centro e un pallone rubino avvinghiato come labbra aride su un filo di spini. Eleganti gesti riecheggiano nell’aria paludosa. Non esistiamo più. La fede ha gli stessi occhi di un condannato. Spauracchio ad ascoltare il tempo. Sul quadrante le formiche dei secondi nutrono i serpenti delle ore. Vanamente ho aspettato un bagliore per chiedere perdono. Poi, genuflesso e vinto, l’ho stretto, svelandogli ogni cosa fino a sentirmi pieno nell’essermi svuotato. Nel delirio, devo averlo baciato. Quanti ponti possono spezzarsi! La natura muta senza mutare lasciando al posto dei corpi una corona di luce che altri corpi attraverseranno. E nessun nome venga sentenziato, ma onesti acrostici e languide preghiere. Un giorno anche le stonature di guerra saranno pace, come ricordi: putridi sentieri che indicano la via del non ritorno. Facile perdersi nel ricercarsi. A volte penso che ricordare faccia accettare di non sentirsi vivi. Allora chiudo gli occhi e rivedo mia madre con i suoi capelli d’altri tempi e un coro angelico alle intemperie. …le mollette rotte e affilate per farne macchinine da far scivolare sui muretti e bucare le lenzuola attraversando lo spazio e il tempo. Eravamo felici, anche se di notte gli occhi s’argentavano pregando San Bartolomeo. La memoria è un inganno necessario. * Putin tolse la maschera per mostrane un’altra. Nel nome della libertà cosparse sagome d’incenso afflitte dalla sete. L’Europa si riscoprì fragile come la sua moneta, come l’America che ogni guerra celebra inneggiando alla pace. La lira dei cantori non aveva talento agli occhi dei social network. Poi arrivarono l’inganno e la vertigine, i mali al tramonto che hanno senso solo per se stessi. Le pillole sul comodino e i versi tarlati come le ossa. Senti la brezza sibilante del corridoio raggelarti la mascella e le orecchie, ti accorgi che le coperte non rimediano più come un tempo. Il bambino è invecchiato nella sua falegnameria. A volte si agita nel buio come specchio ai lamenti altrui, mentre il mondo sprofonda senza averci stretti se non per stritolarci. * Ti ricordi Adelfine? Adelfine che tornava d’estate e ci svelava i segreti dell’amore? Non è più venuta sul colle. In questo borgo che mai ha amato nonostante le origini. Una volta disse che il mio verseggiare si ergeva a speranza per le zolle inaridite. Sembrò troppo: poca è la speranza in questa carta! Lei che sorrideva da lontano. E da lontano avrei potuto amarla. Mi sarebbe bastata una ciocca di capelli o una polaroid da tenere nella tasca sinistra della camicia. La memoria in certi casi non basta se non ha un appoggio ricreativo. * È una promessa mancata il sole. Misera la festa ai personaggi bordati d’aria che rivivono nelle maschere di aurorali attori. Faust, Donna Giovanna, Don Raimondo, il Gorilla spingono per una forma. Non sanno quanto verdeggiare cela un’eterea inconsistenza. [Sezione tratta da: Lockdown. Profumi d'Autunno, Ladolfi 2022]
Id: 72070 Data: 18/11/2024 03:17:16
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Nulla ci appartiene se non i sogni
Nulla ci appartiene se non i sogni, le immagini confuse della notte, le voci che più non distinguiamo. [Da Primavera, 2008]
Id: 72069 Data: 18/11/2024 00:09:35
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L’infinito č dentro ai nostri occhi
L'infinito è dentro ai nostri occhi; non fuori, nelle cose del mondo, ma nella loro ombra. La notte, la morte, il battito di ciglia, ci rimettono al cosmo, fuori dal tempo. [In Primavera, 2008]
Id: 72068 Data: 18/11/2024 00:07:29
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Cilento
A un riverbero di labbra dall’Irno i tuoi arenili, i borghi allucinati dalle inestinguibili bocche montuose, le strepitanti rovine delle civiltà remote. Scriverò di te, oziante su una pietra a Finocchito, smarrito in una pace saracena. Chiudo gli occhi, il sole mi trafigge, mi protegge, disco fluorescente: Elea, torre nera, ulula Mefistofele ogni sera, Palatina croce sull’acropoli, tesori, anime di un anfiteatro scevro di candele. Frantume di vetro, Paestum, templi succosi come i fichi eterni di Prignano. E se Palinuro giace nel sonno di acque sconosciute, è nell’Alento che immergo mani di emigrante per bruciate strade. Un ricordo – istante infinito – e già nelle conchiglie del viso Cicerale: semi, olive, bestiame. Capaccio, ancora, dalle bufale canute come la pace, come rocce di Trentinara a picco nella Valle del Sele, poggiolo tiepido su una costa, su un’azzurra grotta. Roccia come Monteforte, Magliano, Capizzo perciata, come Stio guerriera e normanna su un pendio, o Torchiara nobile e carbonara. La poesia a Gioi è un battito per Maia curato con il sale; a Moio, greco presidio militare. Se ripenso a Salento si innalzano dottrine cesellate senza tempo – lì fangose criniere d’Italia mutano in usignoli in un carico giorno di funesto pianto. Omignano disfatto mille volte, caldo giaciglio, giardino cristallino germogliato da un incantamento. Tra i marosi sirena, Acciaroli; Pioppi, elisir di vigore. Oh, Agropoli, il cardine tuo sul promontorio sedusse Apollo e Castellabate è il suo Giacinto. Su ogni fiore veglia Vatolla che all’occhiello ha una cipolla e il simposio fresco di una rocca. Cilento – mai letto di Damaste, di Afrodite e Pan prediletto figlio, disamore e amore, supplizio – dove la costa lambisce la montagna: Cervati, Gelbison, Stella: nel segreto oblio che ristora, amaro e pago asinello in un verde sconfinato senza sella. [Da Canto Randagio del Cilento, Ladolfi, Gennaio 2019]
Id: 72066 Data: 17/11/2024 22:51:02
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Poesie di Menotti Lerro tratte da Estate, 2008-2020
Estate (Poesie 2008-2020), Ladolfi editore 2020 * Si raccolgono in volume le poesie, i pensieri e le diverse voci che in varia misura, ma tutte insieme, hanno accompagnato il difficile cammino della maturità dell’autore. Difficile, aspro – anche se facile non è per nessuno – poiché vissuto Nel nome del padre, come suggerisce anche la raccolta di versi Il mio bambino, che decreta un’inversione drammatica e amorevole dei ruoli. La figura del padre, si può dire che sia presidio a queste pagine e non occorre guardarle in filigrana per sincerarsene. Ma nella sua scrittura c’è molto altro, ed ecco che gli elementi privati diventano universali ed esemplari, così come lo sono quelli impersonali. È, infatti, in questi componimenti, nella sua seconda stagione – quell’Estate simbolo della maturità come uomo e come artista – che l’autore raggiunge una compiuta singolarità e originalità di poeta, vale a dire una giusta contemperazione di mente e di cuore. Di mente, certo, e anche di cuore, è questa l’impressione del lettore, perché sembra che soltanto qui, nell’effusione lirica della poesia, Menotti Lerro abbia trovato, percorso iniziato fin da giovanissimo, una libera e prima possibilità di espressione. Prefazione di Giampiero Neri Milano, 9 marzo 2020 (prima pubblicazione, 2013) GLI ANNI DI CRISTO Libera me, Domine, de morte æterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra. Dum veneris iudicare sæculum per ignem I DEL FANGO E DEL FUOCO Desiderium habens dissolvi et cum Christo esse Ventidue è il doppio di undici e io morii il ventidue febbraio del 1980. Fu nella stagione Peret, quella che passa senza rimpianti se non per chi vi muore una volta all’anno. Si dice che l’uomo perisca una sola volta e che poi di morte si illuda nel tornare alla vita. Nel mercato di via Papiniano ogni voce è una radio, ogni volto una stella di luce riflessa. Io fluisco in silenzio, mi affido alla corrente; il marmo degli occhi incornicia ogni cosa, duole il dente, schivo la bocca di un serpente. Le perle più belle del creato! Olive greche, alici marinate! Pesce spada regalato! Giuro sulla testa del neonato! Il giorno ci è caduto addosso cucendo vestiti sulla pelle, tratteggiando ombre sull’asfalto, lume alto sulle cime. Abbiamo ricordato zia Giovannina, i bon bon dalle Americhe, la borsa marrone con le posate private. Poi non tornò più. Nessuno ci parlò del suo viaggio, fine lontana dal principio, noi non chiedemmo. Basta così poco per essere dimenticati. Bambini ingrati. “Vieni Luan, nascondiamoci nel grande cartone, qui non si sente rumore, apriremo finestrelle sull’oceano da affidare a Giano Bifronte. Sarai la regina del castello, io re, la corona e l’ombrello. Spariranno i mostri della notte, il drago infilzato dal bastone. Saremo liberi!”. “Come possiamo essere angeli mentre il fuoco divora i pensieri del padre? Siamo cristalli in preda alla luce, sogniamo d’essere bambini. Nessun’ombra alle spalle, mani gelate. Soffia, soffia sulle mani la neve che hai dentro, restaurerai le cicatrici, sei un fiordaliso”. Si radeva la barba tra mille sorsetti: “…quel giorno mi scordai di spigolare… eran trecento… giovani e forti… morti! passero solitario dove andrai? donzelletta mia… Non è la terapia la poesia, ma la pazzia!”. Padre, gli dèi ingenerano negli uomini la ragione, supremo fra quanti beni esistono. Io non potrei né saprei dire che queste tue parole non sono giuste. Sembravi rinato. Poi la vetrina alle spalle, il tonfo che ridesta, eterno incantesimo; siamo ancora nel tunnel senza uscite, negli anni di Cristo: non passano, si accumulano! Non torneremo a correre pendii e i nostri ieri rivivranno sul carro dell’auriga stretti per non cadere, verso la contemplazione, luminosa neve di Natali all’alito delle fiamme dove i gatti sognavano l’angelo rosso. Sovrapposizione folle il volto, dal nero al velo della barba, impossibile mappa dei vagoni del tempo. “La carne è uno scudo lesionato!” farfugli nel terrore del frammento “La salveremo con il sale, di quanto negli occhi rimane”. “Vecchio bambino ingordo, quale vita vorresti?”. Potessi rinascere stanotte, scegliermi un destino, nascerei ancora in un povero mattino in una bianca casa senza porte. Il vento è una mano sulla pelle. Non temere sorte o morte. In chiesa ogni uomo si raccoglie, rintanato spera. L’occhio distorto dello spirito stolto da poterlo ingannare con due arcate in bella mostra, la questua per il prete. Fiorirò nell’anno del Signore, pietra pomice sulla riva dell’estate. Tra-vestito e l’anima, le ossa. Come l’acqua del Mastellone urla nelle vene l’amore nel verso che vuole. Lucciole impazziscono tra i sassi, la trota smuove lame leggere. Il saggio ha innalzato gli scudi sulle rocce, pietra su pietra, io sono stato! L’azzurro è la poesia dei giorni, magma che solidifica il cuore. Il fiume in cui entriamo è lo stesso, ma sempre altre sono le acque che scorrono verso di noi. Al muro le stelle sbiadite non cadono come d’estate inseguendo i desideri degli amanti. Fermo è il tempo nel petto del pupazzo di neve sulla piazza senza braccia. Non hanno pupille gli occhi e dai bottoni della bocca non si espande più fiato. I passi degli uomini creano un’altra dimensione. I ricordi in preghiera, fiocchi caduti: moriranno domani allo spuntar del sole. La mano cuce la notte. Rallenta fino a fermarsi il quadrante della piazza, matite spezzate. La gomma cancella le ferite. Don Don Don Seamus Heaney è più vecchio di me, l’ho capito osservandogli la vena. Mi ha detto: “Guarda come son fresche le rose del tuo volto, abbine cura!”. Poi si è dileguato tra due fogli. A volte riguardo le mie rose, penso alla rugiada che disseta nella notte, il mondo che scompare tra la seta. Dureranno un mattino le mie rose, il tempo d’ascoltare il tumulto delle palpebre accostandosi al seno imbottito di velluto. Fu a Stonehenge, un sussulto di macchine fotografiche prima dell’amore sulle foglie. Dureranno una notte i sospiri, tempo d’accostarsi al tumulto del tuo battito francese. Come ci ha cambiato la notte, le immagini sono già distorte e la speranza sa di rimpianto senza tempo. Il viaggio finirà sulla croce del monte, ci toccherà aver paura, chiedere perdono. “Hai mai chiesto perdono? Ti inginocchi vicino all’altare del fiume? Sotto una quercia secolare dal petto incavato per nasconderti quando nel bosco piove e la terra libera fragranze per proteggere ogni sua creatura?”. “No, non mi sono mai nascosto in una quercia. Ho temuto le folgori. Né mi sono accostato ai fiumi. Sono rimasto nelle torri più alte, Babele abbattuta dalle aquile”. Anything can happen! negli anni del Signore. Andiamo ora nel deserto. Basterà un dito per scrivere un verso. Non ci sono torri lì, dormiremo sicuri tra la sabbia: dolce coperta in cui avvolgere i corpi e rattopparne i buchi. “Ho paura!”. “Di cosa hai paura?”. “Temo l’angelo cattivo!”. “Torbidissima ombra, unico tormento. Lascia che io vada da solo verso l’oasi promessa! Io sarei nato per essere uno, non sentire voci alle spalle quando spuntano traditrici le luci! Possa la lebbra attaccarsi alle tue ossa!” “Sai che non ho ossa! penso alle tue, che scricchiolano quando cammini (io striscio sul ventre) quando dormi su morbidi cuscini lasciandomi sui muri. Di te non avrà pietà il Padre, …non ne hai per nessuno! L’osteoporosi ti bucherà lo scheletro, mi vedrai con la luce dentro scomparire”. II LA TENTAZIONE DEL PANE (continua...) VIDEO: MENOTTI LERRO legge GLI ANNI DI CRISTO (2013). Lettura 2024 - Reading 2024 - YouTube
Id: 71846 Data: 07/10/2024 11:36:48
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Poesie di Menotti Lerro tratte da Primavera, 1997-2007
Da Primavera (Poesie 1997-2007). Menotti Lerro ha nel cuore un pianto, un pianto acuto e sottile che lo accompagna, che gli fa compagnia e che di punto in bianco si tramuta in riso. La poetica di Lerro consiste in questo, riso e pianto, e in mezzo c’è l’orrore sordo, senza parole, che si interroga come si interroga il silenzio, al quale ci si rivolge come alla morte. Primavera raccoglie testi che vanno dal 1997 al 2007, da Ceppi incerti alle ultime poesie che dovrebbero costituire l’apice di questa antologia, la Maturità che la conclude. Ma anche se il passaggio da una raccolta all’altra costituisce un progresso, soprattutto sul piano del linguaggio, rimane il dolore la tonalità di fondo di queste poesie, il dolore e l’orrore che percorrono tutto il libro. “Poesia, Amore: significanti/di corpi che non sanno di esser morti”. Questo è uno degli ultimi versi, Tra-vestito e l’anima, ma potrebbe rivelarsi emblematico di tutta quanta la raccolta, prendere l’essere-per-la-morte come primo e insuperabile punto di vista, la morte che è l’originario status del nostro essere nel mondo, che dà al mondo il suo significato più chiaro e autentico. “Siamo carcasse negli angoli delle strade trucidate”, dice un altro verso, e qui accanto alla morte si consuma qualcosa di sordido, “sangue aggrumato che scorre sulle zampe”, dove forse l’umano è ridotto al bestiale, dove l’umano e il bestiale si confondono. Prefazione di Roberto Carifi *Ceppi incerti Nella stanza in ombra per tre quarti mi trovo ancora vicino ai ceppi incerti. Solo con mani fredde e nere attizzo il fuoco paziente alle solite preghiere. Arde il ricordo della grigia infanzia tra fumo amaro dolci ricordi di speranza. Omignano, 1997 *Veglia millenaria È gelida la notte dell’ultima veglia millenaria e, anche quest’anno, s’arrotano mulinelli cartacei e polverosi. Non muta la voce dei soliti compagni di piazza; l’orto, anche questa notte, è sempre bianco e le zolle sono ancora aride e dure alle braccia affaticate di mio padre. Anche stanotte per quel ciglione vaga il vecchio cane compagno che non cura le illusioni mie del tempo e torna al portone stanco portando buio freddo in mezzo ai denti. M’avvolgo nel tremore di un lampione ad un insetto tomba, mentre un’alba lieve sfida la notte lasciandosi alle spalle altri mille profondissimi inverni. Omignano, 1-01-2000 *Notte M’invadono ombre d’innumerevoli inganni. *Nella notte Mi risveglio all’ombra del lume grigio di mia madre. È notte alta, fila ancora quella sua tela stanca * Sono tornato a casa per piangere mia nonna. Le ho accarezzato i capelli bianchi, baciato la fronte. Solo oggi capisco quanto sia fredda la morte. Pare che dorma: è bella! Sulle labbra un sorriso e mi sembra ieri che mi dava quattro lire per farmi mangiare. * L’ultima valigia aperta di tremula incertezza. È nel buio del suo sonno mio padre, accanto a me, e già lo sento piangere ciò che nell’aria di settembre avverte. Oh, quante volte indietro getterò i miei occhi, che ti vedono ancora solo, vicino ai quei tizzoni ad aspettarmi. Il rosso, il nero, il filo per i denti… e il vuoto è quasi colmo all’apparenza. Stride la finestra del terrazzo e scende tra i miei piedi il vecchio gatto. Il cuore quasi mi si ferma tutto a un tratto. Batte, batte, batte il vento sulla porta: “È l’anima di chi non ritorna! Ha la voce rotta...”. Ma è l’ora, è pronta: l’ultima poesia mia con questa penna. A te solo lascio l’inchiostro per il gioco, la carta per il fuoco. * Quando crollerà sarà una massa grigia che viene giù a pezzi, sarà il punto di luce che acceca. Abbraccerò in piazza il cavallo, l’amico Wagner, e di me non resterà che essenza. * Il perché che non trovammo 1 Ascolta, che cos’è quel rumore? Sì sì, eccolo! Un gatto randagio che fermo rosicchia il suo topo, le carni sfilacciate... 2 Stasera il bosco penetra le case che aspettano, aspettano ancora, ancora. Da qui si vede tutto. 3 Il grido di Maria ci sorprese mentre spartivamo le focacce; e poi il silenzio assoluto, spettrale. Il gioco era finito. Lo capimmo allora e tu piangesti e ti stringesti a me invocando la nonna morta, chiedendomi il perché che non trovammo, che non trovo. 4 Nella classe c’erano solo occhi di gesso appesi alla lavagna, puniti dalla mano ferma del maestro che ritrovammo bianco e gonfio sul suo letto in un giorno di pioggia che mai più sarebbe passato. 5 A casa perdevamo i colori e si creavano i suoni del terrore. Si mangiava di corsa, mano angosciata, sudata al freddo delle mura umide, storte, che mai più sarebbero passate. 6 Il gioco era un’invenzione: sognare lo scudetto in una radio, chiudere i soldatini nelle trincee del cuore, affilare qualche molletta del bucato per farne un’automobile giocattolo che ci portasse via, ma che poi mai sarebbe passata. 7 Il pianto della rassegnazione non ha eco, non lo puoi toccare, vedere, sentire, ma solo immaginare in attimi che non t’aspetti mentre tua madre taglia le patate e pulisce il coltello sul grembiule. 8 E poi Natale... Natale! Natale per chi sogna è di domenica, le strade si inebriano di incensi, ogni mano porta in dono l’altra mano, sulla soglia della chiesa c’è la brace… sa di neve. 9 Chi mai sogna aspetta l’inclito giorno con timore e sorride per nascondere alla gente le sopracciglia aggrovigliate dal rancore. Gli anni non passano, si accumulano! E i denti dei vecchi e dei bimbi cadono e li ritrovi al suolo come diamanti. 10 La dentiera che mi baciava è rimasta qui dopo che te ne sei andata. A volte la guardo e ti vedo ripulirla con lo spago, con uno stecco di campo e poi soffiarla, paziente, con amore. Un giorno, forse, la darò alle mie mascelle. 11 Sulla soffitta potevi trovare la paglia e le ossa del cranio delle pecore che il macellaio incarcerava. Le spolveravo con la maglia e l’occhio immaginato era sublime. Allora era quella la felicità. 12 La zia Adalgisa portava le camicie una volta all’anno a suo fratello, sempre di due taglie in meno: quelle del marito. E a noi dava diecimila lire da spartire, così da pagarsi il pranzo e le offese senza prezzo. 13 Nel bar del gobbo entravo in un video game e nessuno me ne tirava fuori, neanche la notte, il sonno o gli schiaffi dei più grandi che giocavano... giocavano. 14 Al tavolo c’erano tre sagome sfatte che insultavano le madri di averli messi al mondo. Sei pazzo ragazzo come la tua stirpe! Per questo... paga... un altro fondo del bicchiere. 15 Impazzire fu la morte del cane che mi leccava il cuore e un pezzo della sua carne messo sulla legna per farla bruciare; impazzire fu perdere la casa per i debiti, la scuola, l’amico più caro, scappare da mio padre, dal sadismo della gente. 16 Sulla sedia a dondolo inventavo le nuvole d’aprile aspettando la pioggia e le ombre della sera che tardavano, che non m’ascoltavano. 17 Di notte, nella stanza, mi appendevo al crocefisso; lo vedevo cieco: un povero cristo morto sotto una corona di spine. 18 Una dopo l’altra le immagini del giorno bruciavano nell’angolo della testa morta, lì, lì, sul guanciale, e al mattino, resuscitato, buttavo via le ceneri in un sacchetto nero. 19 Il giorno in cui morii fu l’unico diverso; poi sempre uguali, aspettando che qualcosa arrivasse o andasse via dal marasma del tempo e dell’anima. 20 Starsene fermi, trasportati dalle onde: magari ti porteranno a riva o a fondo, chissà. 21 Sulle pareti bianche il sangue è in bella mostra. Zanzare grosse e grasse muovono le zampe al vento della finestra da dove arriva il sole, il sole che fiuta ogni cosa morta e la cerca bussando fin dove non vede per divorarne le carni, le carni! Domani divorerà anche queste. 22 In ufficio ho gli occhi stropicciati sulla scrivania, la barba flagellata, gli stessi jeans e confondo le mie ascelle coi deodoranti al borotalco. 23 Come va oggi? (Ti chiede sorridendo una sagoma offuscata dalla miopia). Bene, bene, sempre meglio! (Le biascico un sorriso. Pian piano ci si abitua al buio…). 24 Qui se non ce la fai a sorridere sei nella gabbia che apre la sua porta al gatto. 25 Tornando a casa, via Padova è un fiume di occhi neri: sui marciapiedi, negli autobus marci. Un filo d’acqua buona per pulirsi, specchiarsi, bere. 26 Domani mi nascondo sotto la bancherella dell’indiano con la piccola Yasmine… immobile, in silenzio... gioca... le racconto fiabe. Milano, 2005 * Dentro la notte inquieta sprofonda chi veglia, ardente silenzio inespresso. Negli occhi vitrei l’ultimo ricordo d’infanzia: ombre che scendevano dai monti portando buio freddo in mezzo ai denti, calpestando i funghi della pineta, lasciando morte tra i sentieri di castagni e oleandri, sostando in brevi attimi di speranza lungo il ruscello per pulire le fauci pronte… le bestie indifese che fiutavano morte al suolo polveroso. Allora si trovava rifugio nel cielo plumbeo. * Non ho più niente, le luci sono spente in O’Connell street; Molly Malone mi ha venduto castagne e fragole, le ho divorate inventando i suoi seni. Il Celtic shop dove lavoro è ormai chiuso, Kavin starà contorcendosi con la pipa accanto. Dublino è senza cielo come Omignano e Milano, Oxford e Londra, Madrid, Barcellona e Bilbao, come Praga e Budapest, Francoforte e Monaco… Non c’è casa. Dublino, 2006 I figli dei pazzi nascono tra bianche mura senza porte, giocano e si nutrono con sillabe storte. I figli dei pazzi odiano la gente, sono stupidi, cattivi, svogliati, annoiati, malati. I figli dei pazzi non hanno amore e se corrono sui prati è per distruggere i fiori. I figli dei pazzi non dormono di notte, vagano ubriachi con le scarpe rotte. I figli dei pazzi mentono, tradiscono! Se ti sorridono e stringono è perché ti uccidono. I figli dei pazzi non hanno colore sono pallidi e sudici, di cattivo odore. I figli dei pazzi sono solo pazzi e se muoiono nel sonno non saranno pianti. * L’infinito è dentro ai nostri occhi; non fuori, nelle cose del mondo, ma nella loro ombra. La notte, la morte, il battito di ciglia, ci rimettono al cosmo, fuori dal tempo * Invecchiamo negli occhi della gente o quando, nell’aprire un armadio, lo specchio ci sorprende. Invecchiamo immersi a mezzo busto nei nostri fiumi, quando scorrono le immagini tra mille pieghe; invecchiamo nei riflessi perversi delle posate e dei bicchieri. * La falegnameria profumava d’alberi e incensi. Mio padre passava la Vinavil bianca negli incastri, infilava i chiodi d’acciaio con due colpi: breve-intenso. Io lo imitavo, martellino, tra le mani miniature degli attrezzi... sognavo il Cavallo di Troia. Poi di sera mi nascondevo tra la segatura: «Non c’è posto più sicuro al mondo» diceva, allargandomi le braccia. Oggi che non ho rifugio se non negli occhi, sereni allora, di mio padre (quiete prima della bufera), pezzo dopo pezzo riordino la nostra falegnameria. * Che ne è stato di quel chierichetto, dei giochi coi gatti al sole? Dove sono ora le preghiere confidate ai marmi, le ostie sciolte con le penitenze? Tutto è nebbia che avvolge le ossa. * Nulla ci appartiene se non i sogni, le immagini confuse della notte, le voci che più non distinguiamo. * Dove sparisce adesso il sole? Quali carni infetterà con la sua falsa luce? Quale carcassa divorerà, senza pietà, prima di infilare ancora le sue spade nella notte? * È durata troppo poco l’infanzia. Una corsa sul prato, un contare alla rovescia. In mezzo è caduta la notte e non abbiamo visto che occhi infuriati. Non ci resta che aggrapparci ai sogni, all’ignoto. * Se dovessi descrivere un solo volto, uno, uno soltanto, dei tanti volti incontrati lungo il mio cammino, non saprei farlo. Gli occhi, ad esempio gli occhi: verdi, azzurri, gialli, rossi, neri, castani, viola... diventano nei miei ricordi buchi neri; terribili, terribili, ossessionanti buchi neri. La pelle? Ah, la pelle... un’autostrada o magari un deserto. Sono assalito da un fatale sbriciolarsi delle linee e di ogni corpo non resta in questa testa che un’ombra, ombra oscura, senza volto né voce. * Sul letto il corpo si fa carne, si scioglie al sole caldo d’agosto. Temo il soffitto, che possa schiacciarmi. La pelle è un lenzuolo stropicciato e sporco. Tra poco guarderò le palpebre dentro, cadrò da un incubo in un altro incubo. Non mi appartengo, sono una statua intessuta di nervi e tendini. L’anima è solo una parte del corpo. * Poesia, Amore: significanti di corpi che non sanno di esser morti. Nessun verso è perfetto, non ci sono giudici che battono il martello. * Presto saremo come i morti che scalando i cieli riguardano la mappa fluorescente lasciata sulla terra: i passi, i loro passi… Scopriremo allora il disegno della nostra vita? Fiore, frutto, uccello, gioiello… o magari niente… linee confuse… folle schizzo irripetibile.
Id: 71845 Data: 07/10/2024 10:20:40
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Four Poems by Menotti Lerro in English Language
* The carpentry The carpentry smelt of trees and incense. My father spread white Vinavil in grooves, inserted steel nails with two short, intense blows. I imitated him, little hammer, between my hands, his tools in miniature… I dreamt about the Trojan horse. Then in the evening I hid myself among sawdust: "There is no safer place in the world", he said, with open arms. Nowadays I take no cover but in his eyes (in the calm before the storm); piece by piece I tidy up our carpentry. * We grow old We grow old in people’s eyes or when, opening a wardrobe, the mirror takes us by surprise. We grow old, half-plunged in our rivers seeing portraits reflected when images flow among a thousand folds; we grow old in twisted reflections of cutlery and glasses. * Upon this paper Upon this paper my life is written, a tree doubled over in pain. The red ink flows over the skin, full stops and commas are hair and stars: eyes of sea left on ships, destroyed houses, rusting girders. This paper is as black as the storm, destroyed villages where there is no fiesta. This paper burns as reason does, lightning in the sky flashes in its millions. This paper is a sky where there is no God, this paper is alone… this paper does not fly… this paper… it is I. * The infinite is inside our eyes The infinite is inside our eyes; not outside, not in the things of this world, but in their shadows. Night, Death, Blinking, take us through the universe again, out of time.
Id: 71669 Data: 05/09/2024 10:30:45
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