I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
L’attesa
L’aveva attesa a lungo. Finalmente era arrivata. Era sicuramente lei, la intravedeva dalle persiane socchiuse. Non riusciva a scorgerla in maniera chiara, ne intravedeva la sagoma nella controluce del primo pomeriggio: i capelli ancora lunghi e arricciati, la flessuosità del corpo magro e slanciato, l’andatura dinoccolata sui tacchi bassi. Non poteva sbagliarsi: era quell’andatura che, fin da piccola, aveva fatto dire a tutti i familiari, parenti ed amici: tutta suo padre. Matilde era il suo ritratto. Da piccola non si distaccava mai da libri. Quella della lettura era la stessa sua passione. In famiglia nessun altro amava così tanto i libri come sua figlia. Gliela aveva trasmessa col moderato atto d’amore tra sé e la moglie all’atto del concepimento La sua famiglia si distingueva per la moderazione in tutto: nel bere, nel mangiare, nel parlare, nel fare l’amore. Persino nel pregare. La famiglia di Nino era una di quelle di cui tutti dicevano ma che gente per bene. Mai un litigio, mai nessun vicino aveva sentito provenire da quella casa un grido, una bestemmia, come pure se ne sentivano in quella vanedda dove abitava quella gente di poco conto, gli scricchianespole, come li chiamavano tutti, che se ne dicevano di tutti i colori, abbanniandosi l’un l’altro davanti a chiunque, leggendosi la vita in pubblico in mezzo alla strada. Nino no, era una persona corretta, un lavoratore, un uomo mite, amante della famiglia , rispettoso di tutti. E così tutta la sua famiglia. Questa figlia, solo questa figlia era riuscita male. Troppi grilli aveva questa figlia. Non voleva mai stare alle regole della famiglia. Come se non appartenesse a quella gente, a quel paese , a quella strada. Nino in tutti i modi l’aveva scoraggiata dall’andarsene via da lì, ma lei se n’era andata lo stesso. Se n’era andata via con un brunello, anche se era laureato. La laurea non gli serviva a niente, sempre brunello rimaneva. Il brunello gli aveva giurato che dopo il matrimonio, avrebbe fatto di tutto per riportare in quel paese la figlia, che era uscita di casa ancora neanche ventenne, che sì, l’avrebbe riportata. Erano passati venti anni e lui non l’aveva più rivista prima d’ora. Quindi non poteva sbagliarsi. Era lei, era Matilde. Nino non uscì dalla porta di casa ad attenderla. Aspettò che fosse lei a bussare , mentre lui fumava l’ennesima sigaretta. La via era lunga e prima che Matilde arrivasse, lui avrebbe avuto tutto il tempo di fumarne almeno la metà. Dall’angolo della stanza da pranzo al piano terra le lucine dell’albero di Natale riverberavano a intermittenza la fioca luce colorata nei vetri della porta-finestra moltiplicando quello spazio come se al di là della porta ci fosse ancora un’altra stanza. La stanza invece era una sola, ed era l’unica in cui la famiglia si riuniva per mangiare e per conversare. Nell’angolo, proprio sotto l’albero, la moglie aveva sistemato un minuscolo presepio, con la culla vuota nella mangiatoia. Ci volevano altri due giorni al Natale. La luce del pomeriggio era tanta nella strada, perché il Natale al sud è pieno di sole e, ad occidente, la sagoma di Matilde continuava ad avanzare a passi svelti diventando sempre più visibile. Il giorno prima lei si era annunciata con una telefonata veloce, aveva detto arrivo domani alle quattro del pomeriggio, ci siete a casa, e lui disse solo un sì di tutte le centinaia di migliaia di parole che aveva tenuto in serbo per quel momento. La figlia prodiga. All’interno della stanza , proprio di fronte alla persiana marrone scuro che separava la casa dal fuori, c’era una sottile parete che divideva quel luogo dalla cucina, dove sua moglie passava quasi tutto il giorno. Ma adesso lei non c’era. Era dalla sua vicina di casa per il rosario del pomeriggio. Non lo mancava mai, neanche quel giorno. Lui, Nino, invece, si era sbrigato presto. Aveva organizzato tutto per rimanere in casa. Si era fatto portare dai suoi manovali di gioventù che gli serbavano affetto e devozione, una cassa molto grande che era fino ad allora rimasta in soffitta e che, da solo, non era capace di trasportare. Era ormai più vicino agli ottanta che ai settant’anni e di certo tutta quell’età non gli consentiva più certe manovre che un tempo avrebbe svolto con un’agilità noncurante. Si sentiva troppo vecchio ma non abbastanza da darsi pace per il fatto che , mentre i suoi figli maschi erano rimasti a una tirata di schioppo da casa sua, proprio lei, l’unica figlia, fosse andava via così tanto lontano con quel brunello d’uomo. Chissà come quei vent’anni anni avevano cambiato il viso di Matilde, chissà cosa avrebbe raccontato della sua vita e del suo lavoro, chissà se aveva avuto dei figli. Non sapeva niente di lei. Dal giorno che se n’era andata via da quel posto lì, non aveva più scambiato con lei neppure un saluto per cartolina. Era andata via con la sua maledizione, aveva fatto di testa sua, aveva voluto organizzarsi la sua vita lontano da loro, dalla famiglia, dai fratelli. Ma come aveva potuto. Adesso stava per arrivare ed aveva scelto di farlo due giorni prima di Natale, da sola. Senza il brunello. Senza neppure portarsi appresso una valigia. Senza figli, se ne aveva. La vedeva, non aveva niente in mano, solo un piccolo zaino dietro le spalle. Era sola. Nino fumava aspirando grandi boccate da quella sigaretta che stringeva tra il medio e l’indice della sua mano nodosa con dei grossi peli in molta evidenza e le unghia quadrate. Continuava a sbirciare dietro le persiane. Attendeva. Aveva preparato la cassa, l’aveva collocata di lato all’albero di Natale, un po’ discosta dal presepio, ma ugualmente in bella vista. Quella cassa attendeva da vent’anni, relegata in soffitta. Era la cassa di Matilde e nessuno mai l’aveva aperta dopo la sua partenza. Sua moglie era ritornata, ne sentiva i passi dietro quel sottile muro tra la stanza dove si trovava e la cucina. Sentiva dei piccoli rumori ovattati, come di oggetti poggiati delicatamente sul tavolo. Sentiva anche il tossicchiare sincopato e quel vezzo che aveva sua moglie di raschiare la gola come per schiarirsi una voce che non usciva mai a modularsi in parole. Nannina era una donna silenziosa. Capiva che aveva portato da fuori qualcosa, sicuramente pensava di cucinare, per la sera, un po’ di pasta, qualche uovo. Non aveva perso l’abitudine, sua moglie, di far fronte al fabbisogno proteico della famiglia con le quantità di uova e legumi che riempivano la tavola di tutti i giorni. Nannina, adesso rimestava nella ciotola di plastica tuorli e albumi, lui, Nino, lo capiva dal rumore attutito e fievole del mestolo di legno che sbatteva sulle pareti rotonde. Ecco, così anche stasera non ci sarebbe stato un pasto speciale. Non si sarebbe festeggiato. Non c’era neppure tutta la famiglia in casa e Nino immaginava che Matilde di certo non si sarebbe fermata fino a Natale. La cassa era sempre nell’angolo. E lui non l’aveva mai voluta aprire nonostante le insistenze della moglie ma cosa stai lì ad aspettare ad aprirla, tanto lei oramai non verrà più. Almeno vediamo che cosa ha lasciato. Nino era sempre stato irremovibile. Gli sembrava che la figlia avesse diritto a quella riservatezza, a quella intimità che per tutta la sua adolescenza non aveva mai potuto avere. E poi lui non voleva veramente sapere. Non voleva sapere perché in un pomeriggio di sole invernale, come questo di adesso, Matilde fosse semplicemente uscita da casa con la sua borsa piena di niente, con addosso solo i jeans e una giacca di panno nero, sempre la stessa da quando aveva compiuto quindici anni, e se ne fosse andata via, semplicemente. Incurante della voragine dell’assenza scavata dentro il suo cuore. E adesso Matilde era qui, a pochi metri da lui. Nino, al di qua della persiana, non visto, la guardava: era sempre bellissima ma già due solchi appena accennati agli angoli della bocca gli toglievano l’illusione che tutto quel tempo non ci fosse mai stato tra loro. Matilde è arrivata , ha aperto la persiana da sola, infilando la mano tra le due liste di legno colorato, come era solita fare da piccola, aprendo dall’esterno la piccola serratura: vede il padre - ne immagina l’attesa - ritto, nonostante l’età e le ginocchia malferme. Accenna un veloce bacio sulla guancia scavata e ispida di barba incolta. Nino non ricambia. Chiama subito la moglie che accorre veloce con il mestolo in una mano e gli occhi già lucidi. La stanza al piano terra è subito piena di quelle presenze. Il divano scuro appoggiato alla parete di destra è sempre lì al suo posto, con qualche squarcio in più, da dove occhieggia l’imbottitura di cascame bianco. Matilde si siede col vigore della stanchezza, il divano traballa: niente è stato cambiato, neppure la gamba anteriore rotta durante il trasporto distratto e frettoloso che i messi notificatori avevano fatto dell’unico bene mobile pignorato, la Singer , che Nannina aveva ricevuto in regalo dal marito durante la sola festa di compleanno riservatale dalla famiglia. Adesso sono lì tutti e tre, Matilde seduta in quel divano, la madre di ritorno dalla cucina dove era corsa velocemente a lavarsi e mani per meglio abbracciare la figlia, e lui, Nino, seduto sulla sedia di sempre in attesa di spiegazioni. Matilde vede la cassa, si avvicina, alzandosi da quel divano in sommario equilibrio, e si meraviglia di trovare ancora chiusa la serratura. Perché l’hai portata qui papà, pensò, cosa vuol dire questa messa in scena? Cosa pensi di trovare? Ci sono ancora tutti i miei libri di scuola e nient’altro. Potevi pure buttarla via . Invece , avvicinandosi al padre, lo ringrazia di avergliela fatta trovare. Pensò anche che lasciandola chiusa, lui avesse voluto rispettare in qualche modo la sua scelta. Adesso la cassa è lì e lei non sa che farsene. Non ha più la chiave per quella serratura, chissà dove è andata a finire. Nella fretta della partenza, non aveva pensato di portarla con sé. Chiede al padre di scardinarla: c’è una cosa che appartiene solo a te, gli disse. Nino aveva ancora le mani robuste e forti e con un abile colpo di martello, portato velocemente dalla moglie, fa saltare tutto. La cassa si apre cigolando nei due cardini di ferro. E’ una cassa di legno, rinforzata da liste di metallo verniciato di verde. Un sentore di polvere si sprigiona dall’interno. Matilde prende dalla sommità della catasta di libri ammassati, una busta sottile, bianca, senza destinatario. La dà al padre, gli dice è tua. Porgendola con la sua mano destra, fredda, lo invita a leggerla, ecco neanche questo coraggio ho avuto, di lasciartela prima di andare, pensa. Nino inforca gli occhiali, non vuole aspettare più. Le lenti spesse da presbite allargano i contorni dei suoi occhi che riverberano luce di innocenza nonostante la vecchiaia. Davanti alla figlia lesse:
Villalba, 10 ottobre 1970
Papà, lo so che maledirai questo giorno e gli altri a venire, dopo che avrai letto questa mia lettera. Ma non voglio chiederti perdono. Non ho nulla da farmi perdonare. Io adesso ho solo diciannove anni e tu, quando ti dissi che volevo sposarmi, mi desti uno schiaffo, mi dicesti che ancora non ero nell’età giusta, che neppure la legge consentiva i matrimoni ai minorenni, che avrei dovuto aspettare la maggiore età, cioè i ventuno anni, come minimo. Così mi dicesti allora, che ne avevo solo sedici e andavo ancora al liceo, quel liceo che mi hai maledetto fin da quando ho iniziato a studiare. Ho cercato di aspettare. Di anni ne sono passati solo tre, non ce la faccio ad aspettare i ventuno. Il brunello, come tu lo chiami, ha molti anni più di me, è già laureato, saprà bene procurare di che vivere a tutti e due, non preoccuparti. Lui sarà un magistrato tra non molto, come spera, e non può più stare qui. DEVE andare via. E io VOGLIO andare con lui, perché lo amo, e perché non amo questo paese, questa terra, questa gente. Papà, io non la amo questa Sicilia. Voglio andarmene al più presto e non posso più aspettare. Non voglio più vederti tornare avvilito dal lavoro, nei giorni in cui questa gente, la tua gente, non la mia, ti costringe a comprare il materiale edile per costruire le case che tu sai fare tanto bene, ai prezzi esagerati cui non puoi sottrarti, in cui questa gente, la tua gente, ti costringe ad assumere come lavoranti degli scalzacani che incassano senza fatica. Che anzi, la notte vanno a rubare tutto ciò che possono arraffare, costringendoti ad acquistare sempre nuovi sacchi di cemento, nuovi conci di tufo, nuove impastatrici. E tu? Cosa fai tu? Tu lo sai chi sono i ladri, eppure non dici nulla, ti alzi al mattino all’alba, e con i pantaloni rigidi di tutta la calce e il cemento che mamma non riesce a togliere con le sue sole mani, vai al lavoro dove ti ammazzi a spaccarti la schiena sotto il crudele sole dell’estate, per portare a casa cosa? La mamma fa solo frittate e minestre di fagioli, anche la domenica. E neanche uno straccio di macchina da cucire può rimanere a sua disposizione, quella macchina pignorata che ieri hanno portato via gli uscieri per venderla all’asta chissà dove, la macchina con la quale lei ci faceva i vestiti che non poteva comprarci. Che fai tu, papà? Che fanno tutti i tuoi amici? Subite le angherie e i soprusi di questi quattro delinquenti di paese, a cui voi qui non volete dare neppure il nome,- perché la mafia non esiste, dite, e l’hanno inventata quelli del nord e voi non sapete neppure cosa significhi-, ma che fuori di qui si chiamano mafiosi ,e che voi riverite con la coppola in mano ogni domenica quando andate a messa e il prete li accoglie anche in chiesa invece di sbatterli fuori a calci. Che fate voi, quando vedete calpestare i diritti dei vostri figli, la possibilità di farli studiare, che fate? Li portate con voi a lavorare perché i soldi servono, dite. Ma a chi? Non sono soldi per voi, quelli che tuoi amici e compagni, i vostri figli, guadagnano spaccandosi il culo ogni giorno o, come dici tu, buttando il sangue dalla mattina alla sera. Io qui non ci voglio stare, papà, io me ne vado, che tu voglia o no. IO ME NE VADO. Oggi, subito. Non lascio più passare neanche un minuto. Non ho il tempo di abbracciare la mamma e i miei fratelli, non so se tu lo farai per me. Matilde
Nino, ripiega la lettera che Matilde non gli aveva consegnata al tempo della sua ribellione e guarda la figlia: una luce nuova la illumina. I suoi nuovi occhi vedono la casa, la moglie, i figli, il paese, gli amici, le strade, e si riempiono di lacrime.
Id: 65097 Data: 30/01/2022 20:30:59
*
L’altro amore
e la vide e l’amò la rincorse la baciò l’abbracciò la cullò e fece del suo corpo un mantello la coprì la scaldò e in lei sparse il suo seme lei fuggì la raggiunse la fermò l’avvinse e la picchiò e ancora l’accarezzò e le sue ferite aperte leccò e guarì ma lei di soppiatto partì lo abbandonò.
E ancora soffrì il suo cuore cavò lo pestò lo sminuzzò lo impastò con la terra del suo giardino e per sempre lo zittì e ancora andò e altre abbracciò e baciò ma non sparse il suo seme e più non amò e invecchiò ma non nell’oblio del suo stesso dolore e disse: -muoio!- e svanì nel pulviscolo d’alba di un giorno d’inverno.
Id: 65006 Data: 19/01/2022 19:05:03
*
Regalo
Regalo Che grande regalo m’hai fatto quest’oggi Palermo! Le lastre di grigio selciato scavato dai passi di mille bambini di madri abbronzate dal sole africano di facce olivastre e turbanti di lino di occhi bistrati di donne col velo mettevano in ombra il grande sfacelo dei marmi e dei tufi di Ballarò. Il concento di voci bizzarre s’alzava di tono al mio passo veloce e non una voce stonava. Nel grande mercato in mezzo alle lingue diverse dai suoni stranieri discorsi fluivano interi nei loro messaggi di vita. Lo zenzero si mescolava allo zafferano e il pepe africano inondava di effluvi la via. E intanto più avanti odorosa s’offriva una bianca pomelia dai fiori striati di giallo, e una rosa tardiva intrecciava i colori ai canti dei venditori modulati nell’aria bollente del sole crudele agostano. E la folla dei tuoi abitanti intenti a comprare ogni cosa fluiva scomposta ariosa in mezzo alla luce. D’incanto s’aperse Il portone di Casa Professa: le note sonore di un organo vecchio di anni e di storia si aprivano a chiunque volesse sentire, gli altari di marmi intrecciati diversi per forme e colori si offrivano a tutti per niente, così come sempre tu fai coi tuoi doni più belli e inattesi: li mostri al passante distratto e d’un tratto ti mostri così come sei, senza belletto. Che grande regalo m’hai fatto quest’oggi Palermo a non farmi pagare il biglietto!
Id: 37068 Data: 28/03/2016 22:01:35
*
Le bambine
Nell’una la tremula lacrima della gota rosata si affianca al sorriso luminoso nell’altra il cruccio di diniego a tutte le richieste offusca il riso che non tarda a illuminare gli occhi di stelle pennellati con l’azzurro di cielo urla e strepiti invadono la casa per uno straccio conteso o per un gioco. Durano poco i pianti e l’infanzia dei profumi stupisce l’aria intorno e abita il mio esistere la vostra ilarità. 30 settembre 2012
Id: 29604 Data: 31/12/2014 19:14:35
*
Specchio
il volto che rimandano i bagliori dello specchio sbilenco mi guarda… l’insulto del tempo indifferente non mi ferisce (l‘abitudine lenta ai guasti preserva da improvvisi stupori…) è la meraviglia assente dall’iride aperta a visioni ormai note è la lascivia dei giorni che incomincia adesso a scavare nel fondo e mi aspetta in agguato ridendo sguaiata del mio terrore. 6 aprile 2006
Id: 29560 Data: 29/12/2014 10:34:26
*
Sguardo
Sguardo Se il tempo di vecchiaia negare mi dovesse i miei ricordi legandomi all’effimero presente dell’oggi informe e se una scelta consentita mi fosse (una sola!) il tuo sguardo eleggerei tra tutte, padre. Il tuo sguardo ridente da bambino che accompagnò i miei anni facendomi scoprire ogni mattino la bellezza del giorno. E nel nero della notte il solo splendore delle stelle. 26/09/2006
Id: 29531 Data: 27/12/2014 17:28:44
|