I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Caro Giovani ti vorrei dire
che ancora continua oggi, incessante,
il risanamento di cui scrivevi.
Non solo alla Vetra ma ora anche
all’Isola, Pasteur, a Lambrate.
Ti chiedevi tu se era questo il modo;
io invece non mi aspetto più nulla
da loro (quelli che buttano giù tutto
e lo rifanno con un nuovo nome)
e solo mi domando dove vanno
le persone di prima? Evaporano,
da un giorno all’altro, con l’aumento
del prezzo e dell’altezza delle case.
Il cambiamento,
dicono che non si possa farne a meno;
ma lo dicono solo quelli a cui conviene.
Gli altri si adeguano o spariscono,
che è poi lo stesso.
La memoria era un suono.
“Pigia o scösâ in tu bàilu”[1],
aveva detto alla bambina.
Poi, non vedendola tornare
“Ti l’è trovôu?”[2], le urlava.
E questa di rimando
“Mamà, no trovo mànco o bàilu
figùrite o scösâ”[3]
[1] Prendi il grembiule nel baule
[3] Mamma, non trovo neanche il baule, figurati il grembiule
Hanno le ali congelate
i piccioni incollati al davanzale.
E tu ancora ti definisci nella caduta;
nel peso del corpo abbandonato
alla gravità del vuoto.
Riavvolgi allora la persiana, stànati
dall’inerzia della risacca
e lascia entrare il sole.
Le cose hanno sete di luce.