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Raccolta di pensieri di Angela Caruso
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Quasimodo parla ancora al cuore dei giovani?

Mi colpiscono le considerazioni del prof. Luperini apparse sul sito www.laletteraturaenoi, dal titolo Sulle prove di Italiano dell’Esame di Stato: la poesia di Quasimodo; alcune mi trovano d’accordo, altre no. In linea generale, il professore ha ragione: bisogna proporre ai nostri alunni testi che facciano amare la letteratura, ma concludere il suo intervento con l’osservazione: “Offrendo ai giovani testi come questi, li si allontana fatalmente dalla letteratura”, si “stronca” un poeta che, secondo noi, non merita, ancora oggi, una “persecuzione” che dura dall’assegnazione del premio Nobel: prima i suoi contemporanei (invidiosi?!), ora i critici letterari.
Ma andiamo con ordine. La prima considerazione mi trova pienamente d’accordo: tutte queste tipologie di prove confondono l’alunno e complicano il lavoro del docente; la prova d’esame deve essere finalizzata proprio a “capire un testo, comprenderlo, commentarlo, interpretarlo, storicizzarlo, vederne le implicazioni attuali, ed esporre tutto ciò in modo argomentato, chiaro e corretto”.
Sulla seconda considerazione non sono d’accordo, perché non è vero che molte antologie riportano la lirica Ride la gazza, nera sugli aranci, forse, è solo l’antologia curata dal Luperini e mi permetto di dire che non è una delle liriche più felici e più significative del percorso poetico di Quasimodo.
Passando alla terza considerazione, vorrei puntualizzare ciò che mi vede in disaccordo: innanzitutto, non mi sembra che Quasimodo sia molto presente nelle antologie scolastiche e, quando è presente, sono sempre le solite liriche, spesso non le migliori, o la solita Milano, agosto 1943, e le poesie vengono accostate per antitesi e falsando la linea evolutiva del poeta; mi trova d’accordo, invece, la constatazione dell’assenza del poeta siciliano nella “attenzione e nella valorizzazione della critica”, di cui trovo conferma proprio nelle righe successive quando si legge che “oggi Quasimodo è reputato un notevole traduttore dei lirici greci, ma in quanto autore in proprio è un poeta di secondo rango”. “Un poeta di secondo rango”: è un giudizio del prof. Luperini o è un giudizio genericamente attribuito ai critici contemporanei, ma non condiviso dal prof. Luperini? L’impressione è che il giudizio sia condiviso dal nostro professore, se poco prima riporta la discutibile e squallida battuta (attribuita a Carlo Bo): “A caval donato non si guarda in bocca”! E qui, mi permetto di dissentire e di protestare con forza! Mi sembra un colpo veramente basso, e mi viene in mente la favola della volpe e dell’uva troppo acerba!
In merito alle osservazioni fatte al punto quattro, nulla da dire sulla prima parte, ma il riferimento a Monti mi fa saltare in aria! Leggo Monti o Foscolo? Avrà sbagliato il professore, non possiamo pensare a Monti! Forse a Foscolo, sì, a lui: è una bella intuizione, tra l’altro, vedo diverse affinità: l’amore per il mondo ellenico, la cura della forma, l’esilio, la vita raminga, la necessità di doversi adattare ad una realtà meschina, la fuga.
Infine, l’ultimo punto: “Quale rapporto può avere questo testo con la sensibilità e la mentalità degli studenti di oggi?”. Risposta del professore: “Ovviamente, nessuno”. Aggiungo io che, se l’analisi si dovesse fare su un testo anonimo, sarei d’accordo, ma se l’analisi, prevede la contestualizzazione all’interno di un percorso esistenziale oltre che storico, la risposta non può essere quella del prof. Luperini. Qui, mi si conceda di fare delle osservazioni personali: quale poeta italiano ha amato in modo viscerale la propria terra, concependo continue “parole d’amore” per essa, per la sua isola, “terra impareggiabile”? Parole necessariamente curate, scelte per impedire al sentimento di traboccare, parole che, nonostante tutto, colpiscono e turbano: Io non ho che te, / cuore della mia razza / Di te amore m’attrista, / mia terra […] (Isola). Leggendo questa ed altre liriche i miei alunni si sono appassionati, hanno scoperto il valore dell’appartenenza ad una terra illustre, hanno fatto entrare Quasimodo nel loro cuore, ritrovando nelle sue poesie e nella sua figura uno stimolo per ripensare la propria identità in termini positivi ed ottimistici, liberandosi dal peso di pregiudizi di chi artatamente vorrebbe alimentare ancora l’ennesimo complesso di inferiorità.
Angela Caruso

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“Molte sono le cose meravigliose, ma nessuna è più

“Molte sono le cose meravigliose, ma nessuna è più mirabile dell’uomo”
Sono andata a Siracusa, dopo alcuni anni, con lo stesso stato d’animo di chi va a fare un pellegrinaggio religioso o di chi torna ai cari luoghi del passato, alla sacralità delle origini: mi sono immersa nella sorgente prima della cultura occidentale, per ritrovare le radici, il mondo esistenziale ed umano dei nostri padri greci. Qui, insieme a questi, ho ritrovato anche la mia identità religiosa, la mia fede nell’uomo vero, appassionato, che vive i suoi affetti, pronto a pagare anche costi altissimi per essi.
“Molte sono le cose meravigliose, ma nessuna è più mirabile dell’uomo”: così esordisce il coro nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, esaltando già, prima di conoscere lo sviluppo degli eventi, la grandezza e la straordinarietà dell’uomo (deinos), per il suo ingegno, l’abilità, il pensiero e la conoscenza del bene e del male. Esempio di questa realtà è proprio l’eroina dell’omonima tragedia che, nel secondo episodio, dirà: “Certamente io non sono nata per odiare, ma per amare”, rispondendo a Creonte che l’accusa di avere disobbedito ai suoi ordini, seppellendo il fratello Polinice, ottemperando invece al suo dovere di sorella, nel rispetto della propria coscienza morale. Come si può resistere al fascino e all’attrattiva della tragedia greca? Tragedia antica e moderna, sempre attuale e per questo universale, espressione del contesto storico-culturale greco, ma perfettamente ascrivibile a qualsiasi tempo e luogo. Tragedia universale.
L’Antigone e l’Edipo re sono sicuramente le più belle, perché i temi sono comprensibili, a qualsiasi latitudine, dal momento che è l’uomo il protagonista: il soggetto e l’oggetto, la vittima e il carnefice, l’innocente e puro e il colpevole e turpe, il tiranno e il rivoluzionario. L’uomo; quello delle contraddizioni e del sacrificio estremo.
L’uomo tragico greco è dotato di una coscienza morale (che lo porta a distinguere il bene dal male) e di una volontà, che conosce i suoi limiti e le potenzialità di un cuore dai sentimenti spesso smisurati. In queste caratteristiche riconosciamo l’uomo di sempre ed è il motivo per il quale la tragedia greca non tramonterà mai e avrà tanti lettori e spettatori.
Se poi la rappresentazione è affidata ad attori straordinari, la scenografia è ben fatta ed originale, le coreografie armoniche e coerenti, il gusto e la “partecipazione” a ciò che si svolge sotto i nostri occhi porta a quella “empatia” che conduce alla “simpatia” e, infine, alla catarsi. Se poi senti cantare, urlare, soffrire, in greco antico, ti vengono i brividi! Questa è l’Edipo re.
Ci si cala nel personaggio e si vive insieme a lui: si condivide la determinazione di Antigone, senza alcun conflitto tra dovere personale e dovere civico, tra l’amore verso “chi merita” e “chi non merita”. E tutto questo non è evangelico? Non c’è stato qualcun altro che ha dato la vita per i giusti e gli ingiusti?
Si soffre, poi, con Edipo l’innocente-colpevole, il puro-impuro, il giudice-imputato, l’infelice Edipo.
“Oh sciagura terribile a vedersi per gli uomini, / la più terribile tra tutte quante io / ho incontrato fin ad ora. Quale follia / o infelice ti assalì? Qual è il demone / che piombò con balzi più lunghi dei lunghissimi / sul tuo disgraziato destino?/ Ahi ahi infelice…”: questi i dolorosi versi dell’ultimo commos del coro. Cos’altro c’è da aggiungere?
Tutti noi siamo fratelli di Edipo.

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Alcune riflessioni su “Nuovo Cinema Paradiso”

Alcune riflessioni su “Nuovo Cinema Paradiso”

            Ho rivisto dopo alcuni anni il film di Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” e questo mi ha colpito e coinvolto profondamente, come se lo vedessi per la prima volta. Scene, dialoghi, musica ed eventi già noti si succedevano ad immagini, parole e situazioni dimenticate o quasi del tutto nuove, che ripescavo dal limbo della mia memoria con sorpresa, meraviglia e piacere insieme. È come se le emozioni suscitate dalla visione di questo capolavoro cadessero via via su un terreno vecchio, ma nuovo allo stesso tempo: un’altra persona, rispetto a prima, che “gusta” con una nuova percezione cose antiche.

            L’attenzione (e l’amore) alla nostra terra, ma soprattutto ai siciliani che la abitano o non, ma che la “onorano” sempre, mi portano a fare alcune riflessioni.

            Innanzitutto, la precisazione che Tornatore con questo film si rivela un grande Artista: un poeta della pellicola, che si serve del linguaggio cinematografico per esaltare sentimenti universali, che superano dimensioni cronologiche e spaziali, ma che si connotano, altresì, come appartenenti al tempo e allo spazio dell’Autore, cioè alla nostra Sicilia, a quel triste-grande momento del dopoguerra e del boom economico degli anni successivi. Riconosciamo la realtà storica ed umana della nostra terra: la tragedia dei dispersi di guerra, l’endemica disoccupazione, la povertà, insieme ai potenti sentimenti della solidarietà e dell’amore, alla semplicità dei modi e alla gioia di vivere, alla genuinità dei bimbi e dei “semplici”.

            E poi, l’originalità del soggetto, la bellezza di un legame indissolubile tra un uomo senza figli e un figlio senza padre, la purezza e la fedeltà al primo amore giovanile, la fuga dalla propria terra maledetta, lo struggente ritorno e la dolorosa “ricerca del tempo perduto”, l’ironico dispetto della scena finale.

            Ci sono, qui, tutte le caratteristiche della letteratura siciliana: ritrovo l’asciutta narrazione di Verga, la lucidità di Sciascia, lo spirito di Bufalino, lo struggimento di Vittorini e di Quasimodo, l’eleganza di Consolo e l’ironia di Brancati, solo per citare i più noti, ma questo significa solo che Tornatore ha reso pienamente alcuni aspetti dell’identità siciliana che fanno della nostra isola una “metafora” del mondo intero.