I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Dialogo della Terra
“Dove andrò, quando partirò da qui?” chiese Gelsomino al Signore, intento a creare nuove stelle. “Andrai sulla Terra, Gelsomino”, rispose Dio, senza lasciare il suo lavoro, “sarai un bambino, poi crescerai, diventerai un uomo e imparerai molte cose”. “Cosa sono le cose?” “Sono… come i pensieri; però hanno forma e colore”. “Cos’è un colore?” “È ciò che permette di vedere le cose”. Gelsomino non era ancora soddisfatto. “Signore”. “Dimmi”. “Com’è la Terra?” “Oh, è bellissima, Gelsomino”. “Perché tutti quelli che sono andati sulla Terra non tornano a trovarci?” “Nessuno può tornare qui, dopo essere stato sulla Terra, Gelsomino, dopo andranno da un’altra parte”. “In un posto ancora più bello?” “Forse… chi lo sa?” “Mi dispiace, Signore, io all’esistenza della Terra non riesco proprio a crederci. Esisti solo Tu”. “Abbi fede, Gelsomino…”
Id: 2992 Data: 12/12/2015 09:06:10
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Pinocchio e la libreria
“Ciao”, disse la libreria a Pinocchio, vedendolo entrare nello studio. “Ciao”, rispose Pinocchio, ma, guardandosi intorno, nella stanza non vedeva nessuno. “Sono io che parlo”, disse la libreria, scricchiolando un poco. Solo allora Pinocchio si accorse che a parlare era stata la vecchia libreria, ingombra di libri e di carte. “Come fai a parlare, se sei di legno?” domandò incuriosito Pinocchio. “E tu?” fece la libreria risentita, “non sei di legno, tu?” “Ma io ho la forma di un uomo”, rispose Pinocchio per giustificarsi, “diventerò un uomo vero, se sarò buono e studioso”. “E per il solo fatto che hai la forma di un uomo, credi di aver diritto a poter parlare?” sentenziò la libreria, che, essendo piena di libri, aveva idee molto filosofiche. Inoltre non sarebbe mai potuto diventare un essere umano. “Ma io sapevo già parlare quand’ero un pezzo di legno!” ricordò Pinocchio, “per fortuna maestro Ciliegia lo ha regalato al babbo, che voleva fabbricarsi un burattino”. “E ti sei mai chiesto che fine abbia fatto il resto dell’albero?” “No. Che fine ha fatto?” chiese Pinocchio, che, avendo una testa di legno, era un po’ duro di comprendonio. “Sono io”, rivelò la libreria. “Allora noi due deriviamo da uno stesso albero!” comprese finalmente Pinocchio. “Già. Abbiamo preso strade diverse, dopo; tu sei diventato famoso. Ci dev’essere anche la tua storia, fra i miei libri”. La voce legnosa della tarlata libreria si velò un poco di tristezza, per il diverso, seppur dignitoso, destino che le era toccato: una pigra e onesta esistenza nella casa di uno studente. “Ma tu perché non sei diventata un burattino? Avresti avuto fortuna: magari saresti stata protagonista di una storia, come me”. “Il falegname che mi costruì”, rispose stancamente la libreria, “era sordo”.
Id: 2946 Data: 21/10/2015 14:10:30
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Annunciazione
Era un pomeriggio d’estate. Pioveva. Maria ed Ester osservavano in silenzio le mille e mille gocce che scivolavano dai tetti raccogliendosi in rivoli fangosi lungo la via. Le due ragazze erano amiche da lungo tempo. Abitavano vicino e si vedevano spesso. Quel giorno Maria aveva portato un dolce all’amica e ne avevano mangiato qualche fetta insieme. Stavano confidandosi i loro segreti: sogni, passioni, desideri, quando il ticchettio sui tetti le aveva sorprese. Avevano guardato attraverso la finestra ed ecco, fuori c’era la pioggia. “Maria, ho paura!” disse Ester all’improvviso. “Che, hai paura di un acquazzone?” la prese in giro Maria. “Non scherzare… mi è successo qualcosa… volevo venire a casa tua per raccontarti tutto, stavo per uscire, quando ti ho vista arrivare…” Maria distolse lo sguardo dalla finestra e studiò incuriosita il viso preoccupato dell’amica. “Dimmi tutto”, disse, “ti ascolto”. “Ecco, ieri sera ho meditato a lungo le Scritture, prima di addormentarmi, e stanotte… mi è apparso un angelo in sogno. Ciao, Ester, non avere timore di me, mi ha detto con una voce dolcissima. Oh, Maria, non ho mai sentito un giovane con la voce così! Non ho avuto più paura. Mi sono sentita invasa da un senso di benessere che non avevo mai provato prima”. “E poi?” “Mi ha detto: sei stata scelta da Dio. Per opera dello Spirito Santo avrai un figlio: sarà il Messia che il tuo popolo attende da tempo”. “E tu?” “Io, sai… non ce l’ho fatta ad accettare. Non sono molto forte. Il signore non può volere degli eroi. Cosa avresti fatto se fosse successo a te?” Maria tornò a guardare fuori dalla finestra: aveva smesso di piovere e nel cielo, sgombro di nubi, cominciavano ad apparire le prime stelle. Già, che cosa avrebbe fatto, che cosa farebbe se ora la scelta del Signore cadesse su di lei? In quel momento si udì una voce di donna chiamare da fuori: “Ester, Maria è con te?” “Si”, rispose la ragazza affacciandosi all’uscio. “Maria, ti cercano”, disse poi rivolta all’amica, che a sentirsi chiamare s’era riscossa dai propri pensieri. “Ah, è Giuditta”, si ricordò Maria, “le serve del lievito, perché il suo è ammuffito. Mi disse ieri di lasciargliene un po’. Devo andare. Buona notte. E non tormentarti troppo: il Signore comprende il nostro cuore e sa perdonarci le debolezze”. “Buona notte, Maria, e grazie di tutto”, fece Ester, e rimase ad osservare, rinfrancata, l’esile figura che si allontanava sotto la luce della luna, fino a che non la vide sparire, inghiottita dall’ombra di una casa.
Id: 2905 Data: 24/09/2015 14:48:25
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Origine delle storie
Una volta, tanto, tanto tempo fa, quando gli uomini non sapevano ancora leggere e scrivere, in un villaggio giunse un uomo che veniva da Molto Lontano. Nel villaggio nessuno sapeva che Molto Lontano esistessero altre terre, perché nessuno si era mai allontanato tanto da perdere di vista la propria capanna. L’arrivo dell’uomo che veniva da Molto Lontano fu perciò un avvenimento memorabile. Tutti volevano sapere che cosa c’era Molto Lontano, allora l’uomo raccontò la storia del suo viaggio, riempiendo di meraviglia l’intero villaggio. L’uomo ripartì subito, perché doveva andare Molto Lontano, in un luogo opposto a quello da cui era venuto. Fu così che gli abitanti del villaggio seppero di essere circondati da terre Molto Lontane, e furono felici di trovarsi al centro del mondo. Nel villaggio ognuno tornò alla vita di tutti i giorni. Tutti erano tristi, perché non potevano più ascoltare la storia dell’uomo che era venuto da Molto Lontano e se n’era andato Molto Lontano. Alcuni scrutavano l’orizzonte, sperando che tornasse, o che da Molto Lontano giungesse qualcun altro, ma non veniva nessuno. Incominciarono a raccontarsi l’un l’altro la storia dell’uomo che era venuto da Molto Lontano ed era andato Molto Lontano, e chi ne sapeva meglio una parte, chi un’altra. Cominciarono a non trovarsi d’accordo su qualche particolare, ed ognuno aveva la sua versione della storia. Col passar del tempo, però, gli abitanti del villaggio si stancarono di raccontare sempre la stessa storia, perché, a forza di raccontarla, ormai la sapevano tutti a memoria, ed era diventata banale, come la vita di tutti i giorni. Il villaggio ritornò alla sua tristezza di sempre, rinunciando a raccontarsi in eterno una storia che non meravigliava più nessuno. Nel villaggio viveva un uomo diverso dagli altri. Se ne stava sempre appartato, e non parlava mai con nessuno. Quando non lavorava, sedeva imbambolato davanti alla sua capanna, con lo sguardo fisso nel vuoto; oppure gironzolava intorno al villaggio, affascinato dall’orizzonte, dove pareva si unissero il cielo e la terra. Questo accadeva già prima che arrivasse l’uomo da Molto Lontano, e dopo che egli se ne fu andato, l’uomo diverso dagli altri scrutava l’orizzonte con maggiore intensità di prima. Nella storia raccontata dall’uomo venuto da Molto Lontano avevano preso forma le sue fantasticherie, e quando l’uomo se ne andò, avrebbe voluto seguirlo, ma aveva paura di lasciare la sua capanna. Quando gli abitanti del villaggio cominciarono a raccontarsi la storia dell’uomo venuto da Molto Lontano, perché non si spegnesse la sua luce consolatoria, anche l’uomo diverso dagli altri voleva dire la sua, ma nessuno ascoltava la sua bella voce, tutti lo deridevano perché era brutto. All’uomo diverso dagli altri non rimase che chiudersi in un silenzio amareggiato, dove le immagini di lontananza che si portava dentro sin dal principio si facevano sempre più vivaci. In compenso ascoltava le storie ingarbugliate da tutti, così che solo lui riuscì a dipanarne il filo, ritrovando il loro ordine primordiale. Quando la storia dell’uomo venuto da Molto Lontano divenne banale, solo l’uomo diverso dagli altri trovò la soluzione giusta alla generale mestizia. Sparì per un po’ di tempo dal villaggio, nascondendosi in una grotta che solo lui conosceva, e inventò una storia, che nell’oscurità venne alla luce più florida. Era la storia dell’uomo venuto da Molto Lontano, trasformata dalla nebbia dei ricordi e dall’arbitrio della fantasia. Quando tornò al villaggio, e gli fu chiesto dove fosse stato, rispose di essere andato Molto Lontano, e raccontò la storia che aveva inventata. Gli credettero per nostalgia, e per le affascinanti coincidenze fra le invenzioni dell’uomo diverso dagli altri e i frammenti della storia dell’uomo venuto da Molto Lontano. Sarebbero vissuti tutti felici e contenti, se alcuni sospettosi non avessero deciso di indagare sulla verità delle storie. L’uomo diverso dagli altri, infatti, dopo il successo della prima volta, spariva periodicamente dal villaggio, rifugiandosi nella sua grotta ad inventare altre avventure che rallegrassero il villaggio. All’ennesima fuga, fu seguito e scoperto. Sul villaggio scese un velo di costernazione e più nessuno volle ascoltare le meravigliose bugie dell’uomo diverso dagli altri. Ma il villaggio non aveva fatto i conti con la crisi di astinenza, che provocava un dolore più implacabile della fame e della sete. Ad ognuno accadeva, in certe ore del giorno, quando tutto appariva quadrato e grigio, di pensare senza volerlo alla spirale di colori evocata dall’uomo diverso dagli altri con le sue storie, che, nonostante fossero false, parevano diffondere una luce vera, come la lucentezza di certe pietre sembra accendere ingannevolmente bagliori di fuoco. Finirono col raccontarsi anche le storie dell’uomo diverso dagli altri, che riacquistò la sua aura magica, senza darsi pensiero per la loro falsità, anzi, le arricchirono di varianti sempre meno verosimili e più strabilianti. Alcuni, che furono chiamati aedi, erano più ricchi d’immaginazione, e sapevano raccontare le storie meglio di altri, sicché tutti volevano sentirle soltanto da costoro; gli aedi allietavano i commensali nei banchetti, consolavano i congiunti nei funerali e riempivano l’ozio nelle giornate di pioggia. Furono talmente coccolati, che finirono col vivere solo per cantare. Una volta, un uomo nato e vissuto nel villaggio, a forza di ascoltare storie di terre lontane, sentì il desiderio di andarsene per godersi il resto della vita nei luoghi meravigliosi evocati dalla fantasia. Salutò parenti ed amici e partì. Cammina e cammina, l’uomo arrivò Molto Lontano, ma non era affatto come se l’era immaginato. Giunse in un altro villaggio, simile a quello che aveva abbandonato, dove si svolgevano gli stessi lavori faticosi e si raccontavano le stesse storie meravigliose che avevano sempre fatto parte della sua vita. L’uomo era talmente lontano che non poté più tornare indietro. Adesso era il villaggio dov’era nato e che aveva lasciato ad apparirgli Molto Lontano, e le storie meravigliose che ascoltava nel nuovo villaggio gli si presentavano tinte dei colori struggenti della nostalgia. L’uomo comprese che, ahimè, le terre lontane sono un’illusione, e che la realtà è fatta di sfere concentriche, da dove nessuno può uscire facilmente: nella sfera più interna è racchiusa la vita quotidiana, con le sue banali sfumature di grigio, ma le sfere continuano all’infinito, e in quelle più lontane si stendono le tinte vivaci dell’arcobaleno.
Id: 2872 Data: 22/08/2015 22:19:17
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I piccoli zoccoli
I piccoli zoccoli Un giorno il gatto di compare Pietro catturò un topo che calzava dei piccoli zoccoli ai piedi posteriori. Compare Pietro prese gli zoccoli e li mostrò ad amici e conoscenti, dato che una simile novità non s’era mai vista. Nessuno gli seppe spiegare il fenomeno. Gli consigliarono, tuttavia, di rivolgersi a Donna Trebbicchèra, la strega del paese. Compare Pietro seguì il consiglio: portò gli zoccoli alla strega e questa gli spiegò che quelli erano zoccoli incantati, chi li calzava, arrivava in capo al mondo, dove nasce la sorgente dei soldi; la gente più fortunata del mondo era riuscita ad arrivare fin lì per attingere denaro come fosse acqua di fontana; ma soltanto chi aveva preso solo quei pochi che gli servivano, era riuscito a conservarli, mentre chi ne aveva presi troppi li aveva visti volar via in poco tempo, come l’acqua non resta in un recipiente bucato. Come un fiume impetuoso, i soldi passano di mano in mano e non si fermano mai… e dove vanno a finire tutti questi soldi... sprofondano entro buche di talpe… queste buche si formano Dio sa come… può capitare che uno è straricco, e il giorno dopo si ritrova senza una lira… tutto sprofondato sotto terra! Ma sicuramente questi zoccoli non ti vanno bene: sono troppo piccoli. Falli misurare ai tuoi figli e manda loro alla sorgente dei soldi. Compare Pietro aveva tre figli: Peppe, Ciccio e Lazzarino, che era il più piccolo e sfortunato, perché era paralizzato alle gambe. “Peppe”, disse compare Pietro, “mettiti questi zoccoli, arriverai in capo al mondo, dove nasce la sorgente dei soldi; prendine il giusto, non un soldo di più. Se ce la farai vivremo per sempre felici e contenti”. Peppe s’infilò gli zoccoli e partì. Cammina e cammina, saltò fossi e scavalcò ponti, traversò pianure e montagne, campi e boschi, percorse strade e sentieri, dovunque lo portavano gli zoccoli incantati. Fino a quando arrivò in capo al mondo, dove sgorgava la sorgente dei soldi. Era meravigliosa: da una fenditura della roccia zampillavano monete d’oro e d’argento, grandi e piccole, e il suolo, tutt’intorno, ne era cosparso. Una leggera brezza sollevava banconote di vario taglio e di tutti i colori, che volteggiavano nell’aria e s’impigliavano fra i cespugli e fra i rami degli alberi. I soldi s’incanalavano in un ruscello tintinnante, fluivano velocemente, senza sostare mai, smaniosi di disperdersi per il mondo. Peppe comprò un paio di buoi e un carro, lo riempì di soldi e prese la via di casa. Compare Pietro, quando vide il figlio tornare con quel carico prezioso, non ci vide più dalla contentezza: “Quanti soldi ha portato Peppe!” diceva, “un carro intero! Basteranno certo per tutta la vita”. Ma i soldi, quando ci sono, non bastano mai: compare Pietro ricomprò certi attrezzi che gli servivano; poi aveva una moglie, comare Caterinella, che aveva sempre bisogno di questo e di quello; Peppe e Ciccio andarono a far baldoria all’osteria; regali di qua, prestiti di là, di tutto quello che Peppe aveva portato, rimasero solo il carro e i buoi, che almeno furono d’aiuto per lungo tempo. Compare Pietro, come vide che i soldi erano finiti, chiamò Ciccio: “Ciccio”, disse, “mettiti questi zoccoli, arriverai in capo al mondo, dove nasce la sorgente dei soldi: prendine il giusto, non un soldo di più. Se ce la farai vivremo per sempre felici e contenti”. Ciccio s’infilò gli zoccoli e partì. Cammina e cammina, saltò fossi e scavalcò ponti, traversò pianure e montagne, campi e boschi, percorse strade e sentieri, dovunque lo portavano gli zoccoli incantati. Fino a quando arrivò in capo al mondo, dove sgorgava la sorgente dei soldi. Comprò un sacco, lo riempì e prese la via di casa. Compare Pietro, quando vide il figlio tornare con quel carico prezioso, non ci vide più dalla contentezza: “Quanti soldi ha portato Ciccio!” diceva, “un sacco pieno! Basteranno certo per vent’anni”. Ma presto anche il sacco di soldi finì: rimase solo il sacco, che, con toppe e rammendi, servì ancora per molto tempo. Gli zoccoli si erano quasi consumati, e furono buttati nel cesto della legna da ardere. Un triste giorno, Lazzarino sparì. Lo cercarono di qua e di là, per giorni, settimane e mesi: Lazzarino non si trovava; nessuno ne sapeva niente e Donna Trabbicchera, che avrebbe potuto rintracciarlo con le sue arti magiche, era morta. Così compare Pietro e comare Caterinella dovettero rassegnarsi. Passò tanto, tantissimo tempo. Un bel giorno di primavera, mentre compare Pietro e comare Caterinella stavano seduti davanti la porta di casa, videro un puntolino scuro avanzare lentamente lungo la via. Che è, che non è, era Lazzarino! Avanzava strisciando, con le mani infilate in quel che rimaneva degli zoccoli incantati. Come giunse davanti casa, sputò tre monete d’oro: tutto quello che aveva potuto portare dalla sorgente dei soldi. Compare Pietro, quando vide il figlio tornare con quella miseria, non ci vide più dalla rabbia: “Hai fatto tanta fatica per così poco!” disse, “questi spiccioli non basteranno neanche un mese”. Quel piccolo tesoro sembrava tanto misero che fu custodito gelosamente in una cassettina di legno con la chiave, da aprirsi solo nelle estreme necessità. Furono talmente parchi che, quando aprivano la cassettina, non ricordavano più se e quando l’avevano aperta prima. In questo modo nessuno si accorse che le monete erano magiche, e rimanevano sempre tre; non se ne accorse nemmeno il povero Lazzarino, che se ne andò all’altro mondo, senza che nessuno gli dicesse grazie. Un giorno il governo decise di coniare una nuova moneta, e ognuno dovette cambiare tutti i soldi che aveva in casa. Mio padre, che aveva ereditato la cassettina, prese le tre monete e andò a cambiarle in banca. Io, che conoscevo tutta la storia, per averla sentita raccontare da mia nonna, dissi a mio padre che le tre monete erano magiche; egli rispose che non credeva alle favole contate dai vecchi, e infine quelle monete, se anche fossero state magiche, sarebbero in ogni caso andate fuori corso, perciò bisognava cambiarle per forza. Così non mi è rimasto altro da fare che scrivere questo racconto, per conservare, di quel che facevano e dicevano gli antichi, almeno la memoria, che, col passar del tempo, diventa favola; e spero che almeno le favole non vadano mai fuori corso
Id: 2839 Data: 26/06/2015 21:11:04
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Gli Astrofagi
Gli Astrofagi Alla memoria di Italo Calvino Viviamo fluttuando nello spazio cosmico. Ci nutriamo di tutta la materia che troviamo intorno a noi. stelle, pianeti, satelliti, asteroidi, comete, polvere cosmica, nebulose sono gli ingredienti della nostra cucina. Per noi il rapporto con la realtà si risolve nel mangiare. Assaporare il cibo, masticarlo, inghiottirlo, digerirlo, espellerlo, è il nostro miglior modo di comprendere le cose, pur se quest’esperienza del mondo esterno può darsi solo distruggendo, o, più esattamente, trasformando, ciò che vogliamo conoscere. È vero che altri organi di senso, come la vista e l'udito, ci permettono di cogliere informazioni a distanza, ma non sempre ciò che si vede o si sente corrisponde esattamente a ciò che è: illusioni ottiche e sonore possono trarci facilmente in inganno. Solo mangiando conosciamo davvero l'universo, perché lo assumiamo, lo facciamo diventare parte di noi, lo comprendiamo e lo interiorizziamo. Ci mangiamo perfino fra noi, ma pratichiamo questo cannibalism non per fame ma per altruismo. Chi non ha mai desiderato far partecipe un amico, un conoscente, di ciò che pensa o sente? Bene: per noi questo può accadere unicamente lasciandoci divorare dall'amico o dal conoscente, e divorandolo a nostra volta. Questo reciproco divorarci si perfeziona quando incontriamo l’anima gemella (fra noi non esiste differenza fra semplice conoscenza, amicizia, amore). Ma non moriamo mica, eh, mangiandoci a vicenda: ci fondiamo, ci mescoliamo, diventando un unico essere (questa è una cosa misteriosa che non so spiegare come avviene! Diciamo che pare annullarsi l’opposizione fra vita e morte). Mangiare ed essere mangiati è, per noi, la suprema legge morale, il modo per favorire il metabolismo cosmico. I nostri scienziati hanno persino formulato l'ipotesi teorica che l'universo sia eterno proprio in virtù di questa nostra capacità, continua e infinita, di mangiare e cagare. Dalle feci dei nostri lontani antenati si sarebbe, in pratica, formato l'universo che divoriamo, digeriamo ed espelliamo ricominciando il processo ciclico. In fondo, il Big bang potrebbe non essere altro che una mega defecazione primordiale, così come la fine di questo universo consisterà in un definitivo inghiottimento galattico che porterà ad una nuova espulsione di feci, e così in eterno. Cominciamo da bambini a conoscere mangiando. Dalla nascita, fino a quando abbiamo circa due miliardi di anni, assorbiamo un po' di tutto: onde elettromagnetiche, radiazioni, polvere cosmica. Crescendo, i gusti si arricchiscono e si differenziano: i maschietti amano sgranocchiare gli asteroidi, mentre le femminucce preferiscono succhiare le comete. Cominciamo, maschi e femmine, a sviluppare la nostra specifica sessualità, fino a quando siamo pronti a sbranarci d'amore l'un l'altra. Quando raggiungiamo l'età matura stelle e pianeti sono il nutrimento prevalente. Le nebulose, infine, sono il classico pasto per gli anziani. Le assorbono respirando dalla parte stretta di una specie d'imbuto. Il pasto, insomma, diventa un percorso nutritivo, conoscitivo e formativo insieme, perché i cibi variano dai più semplici e facili da reperire, da comprendere e da digerire, fino ai più complessi e difficili. Le stelle costano molto, perché più difficili da gestire: bisogna riporle in speciali contenitori refrattari e tenerle sempre sotto controllo, perché mutano e si consumano in fretta. Caratterizzate da violente reazioni chimiche al loro interno, alterano lo stato psicofisico di chi le mangia, di conseguenza sono vietate ai minori, ed anche noi adulti dovremmo evitare di consumarne troppe prima di metterci alla guida. Apportano moltissime calorie, e non ce ne possiamo fare un’abbuffata. Noi maschi le mangiamo perché fatichiamo e facciamo sport, ma le femmine preferiscono i buchi neri: assorbono materia ed energia ed aiutano a mantenere la linea. Dobbiamo stare attenti, inoltre, ai pianeti gassosi, perché provocano reazioni rumorose piuttosto … imbarazzanti! I pianeti, specie se provvisti di satelliti, sono una leccornia. Il pianeta dev’essere mangiato fresco, perché, se si conserva a lungo, i satelliti smettono di girargli attorno e gli finiscono sopra rovinandolo; ma anche quando non accade, il gusto non è più lo stesso. Al contrario, un pianeta privo di satelliti, seppur meno gustoso di quello che ne è fornito, si può conservare senza inconvenienti. Alcuni usano anche togliere i satelliti e cucinarli impanati con polvere cosmica, mentre il pianeta ormai privo di lune lo lasciano essiccare, ma è un modo di procedere che non mi sembra molto ortodosso: i pianeti con satelliti vanno mangiati così come sono, mentre i satelliti girano intorno al pianeta. Questo girare provoca una sensazione inebriante sulla lingua e un piacevole rimescolio nello stomaco. Non per nulla i pianeti con satelliti costano di più: sono tanto più cari quanti più satelliti possiedono. In effetti, ci vuole anche una certa abilità nel prelevare un pianeta senza arrestare la rivoluzione dei suoi satelliti. L'ideale, ma non sempre si può, è ingoiarlo sul posto, piazzandosi precisi sulla sua orbita e spalancando la bocca abbastanza da farcelo entrare insieme coi satelliti che gli girano intorno. Naturalmente, oggi le cose sembrerebbero più semplici, perché al supermercato trovi interi scaffali di pianeti con satelliti, regolarmente orbitanti, sospesi dentro apposite confezioni trasparenti, fatte apposta per far vedere che sono freschi. Non vi fidate! Per la maggior parte si tratta di pianeti in origine senza satelliti, a cui hanno fatto girare intorno qualche grosso asteroide sbozzato a forma di sfera. Perciò costano poco. Quando li mangi, però, t'accorgi subito della contraffazione. Ma i pianeti che più ci fanno venire l'acquolina in bocca sono quelli azzurri. Solo il Buongustaio Cieco, leggendario Vate fiorito ai primordi della nostra civiltà, ne avrebbe assaporata la bontà, riconoscendo il colore al gusto. Ce ne ha lasciata una sublime descrizione in uno dei suoi Poemi. Di essa si sono nutrite le leggende del nostro popolo, alimentando poesia e filosofia. Su questi fantastici pianeti azzurri due teorie si sono sviluppate nei secoli, affascinando gli amanti del gusto. Una afferma che esisterebbe un solo pianeta azzurro, l'altra ipotizza che ce ne sarebbero molti, sparsi in tutto l'universo. Veramente, quando, nelle nostre dotte conversazioni, si finisce col parlare dei pianeti azzurri, altri due punti di vista si contrappongono. Alcuni di noi prediligono una visione razionale della realtà. Secondo costoro l'esistenza dei pianeti azzurri è pura leggenda, feconda nel campo della poesia culinaria, ma che non trova fondamento nella cucina scientifica. Altri, più inclini all'irrazionalità, sono affascinati dalle teorie del complotto. Sospettano che individui fortunati trovano, guidati dall’ispirazione olfattiva, i pianeti azzurri, ma, ritenendosi i soli degni di gustarne, se li pappano da soli. Poi vanno in giro, atteggiandosi a Vati, a dire quanto sono saporiti, e a far crepare d'invidia noialtri. È per questo, sostengono gli irrazionali, che si sanno tante cose sui pianeti azzurri, anche se nessuno li ha mai visti. Chi li ha scovati ed assaggiati ha trasmesso agli altri, per quanto è stato possibile, l'idea delle sensazioni gustative di questo rarissimo bocconcino prelibato. Oggi i più sono inclini a credere che quella dei pianeti azzurri, o del pianeta azzurro, sia una secolare montatura culturale. Tale dotta bufala avrebbe le sue radici proprio nel Poema del Buongustaio Cieco. Fra l’altro, anche costui non si sa neanche se sia veramente esistito. Tuttavia, giacché i suoi versi hanno fatto testo per tutte le generazioni a venire, tento un sunto in prosa delle caratteristiche culinarie di questo pianeta più unico che raro. Già il suo aspetto visivo (perché in cucina anche l'occhio vuole la sua parte!) appare invitante: la zona illuminata dal sole è, per l’appunto, d'un azzurro intenso attraversato da macchie e filamenti bianchi; la parte in ombra, poi, se il pianeta è abbastanza vecchio, si ricopre in alcune zone di miriadi di minuscoli puntini luminosi. Si ipotizza (questo passo del poema è particolarmente oscuro) siano dovuti alla presenza di microrganismi. Proprio ad essi si deve quel gusto un po’ aspro, elettrizzante. Questi microbi sarebbero, infatti, capaci di produrre energia. Ma questa è solo una delle infinite sfumature di gusto che si sprigiona dall’astro. La lingua – canta il Poema – coglie pure il mistico (così lo definisce!) sapore del sottilissimo involucro d’aria. La bocca è poi sommersa da un'impressione di freschezza dovuta all'acqua, che lo ricopre quasi del tutto (e proprio l'acqua gli fa assumere quel meraviglioso colore azzurro). Mentre con la lingua assapori queste prime sensazioni aromatiche, l'agitarsi dei microrganismi provoca una specie di eccitazione alle papille gustative. Ma il bello deve ancora venire: se aspetti che si sciolga la sottilissima crosta di terra che lo riveste, puoi lasciarti penetrare fin dentro l'anima dal gusto inebriante del magma infuocato che c'è dentro. Basta! Sapete che faccio? Parto alla ricerca del pianeta azzurro. Antonio Risi
Id: 2824 Data: 09/06/2015 19:39:00
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Ser Cepparello, qual pessimo uomo in vita ...
Ser Cepparello, qual pessimo uomo in vita all’Inferno dannato, nel mondo per santo reputato, è, con insolito decreto di Domeneddio, in Paradiso condotto Un giorno, mentre nel mondo le fabbriche chiudevano a causa della crisi, anche il Padreterno, per risparmiare, decise di chiudere l'Inferno ed il Purgatorio. Non era certo una decisione da prendere subito, perché avrebbe dato troppo nell'occhio, ed anche perché, prima di raccogliere tutte le anime dannate e purganti nel Regno dei Cieli, bisognava fare qualche esperimento, accogliendo in cielo qualche spirito isolato, per vedere, come dire, che effetto avrebbe fatto. Senza contare che i diavoli dell'Inferno e gli Angeli del Purgatorio avrebbero scioperato. Il Signore riunì in concilio angeli e santi del Paradiso, per esporre loro la faccenda e per scegliere un dannato da trasferire. L’opzione cadde su un certo Ser Cepparello, tristo figuro, risiedente in uno degl'infimi gironi infernali. La scelta era motivata dal fatto che costui, per errore, era considerato santo sulla Terra, e pertanto nessuno, almeno tra i vivi, si sarebbe accorto del cambiamento di sede. Fu trovato, a fatica, un volenteroso disposto a discendere agli Inferi per compiere la delicata missione. Sorvoliamo sui particolari del trasferimento, ed arriviamo al fatidico giorno dell'ingresso di Ser Cepparello in Paradiso. Costui, appena entrato, spalancò gli occhi per lo stupore. Tutto ciò che vedeva era indescrivibile: il Paradiso era una vera e propria metropoli con strade, piazze, appartamenti, negozi, uffici, e così via. Gioiosa, così si chiama la Città Santa, possiede una speciale qualità: la puoi abbracciare tutta con lo sguardo. Non per la sua piccolezza, dato che essa è infinita, ma perché è stata costruita con tale sapienza urbanistica da permettere a chi vi si trova di comprenderne la struttura e di non perdersi mai, tanto che non c'è bisogno di piantine topografiche per orientarsi. Da qualsiasi parte ci si trovi, si può vedere la piazza centrale col suo edificio circolare. Questo edificio, poi, ha una particolarità: la forma e la disposizione dei suoi elementi architettonici crea una sorta di cassa di risonanza per cui chi si trova lì può ascoltare tutte le conversazioni che si svolgono nei diversi punti della città, anche se si parla a bassa voce. Gli edifici sono stati costruiti con una disposizione tale da non avere mai, nel corso della giornata, facciate in ombra. Eppure non è possibile descrivere la forma di questa città con il linguaggio consueto. Per la sua inafferrabile purezza, eleganza, bellezza e perfezione delle forme, ciò che più vi si avvicina, nel nostro universo materiale, è il fiocco di neve. Ser Cepparello, girovagando oziosamente per la città, si ritrovò ad un certo punto nella piazza centrale. Osservò l'elegante edificio rotondo, domandandosi qual palazzo fosse mai quello. Chiese informazioni ad un passante e seppe ch'era una banca. Pensate voi qual fosse la prima idea del novello ospite celeste: compiere una rapina! Si calò sul volto un passamontagna che s'era ritrovato chissà come fra le mani, ed entrò. “Fermi tutti! Questa è una rapina”. “Ser Cepparello, venga. La stavamo aspettando”, fece l'impiegata allo sportello, un angelo calmo e pacato, dal sorriso radioso. L'uomo rimase interdetto: non s'aspettava d'essere riconosciuto. “Non se l'aspettava, immagino”, indovinò l'impiegata, leggendogli il disappunto nel volto, pur coperto, “Succede sempre, sa', coi nuovi arrivati”. “Sta' zitta, o t'ammazzo!” “Vada là! Chi vuole ammazzare? Si rende conto di quel che dice? Siamo già morti tutti. È vero che all'Inferno, malconci come siete, sembrate più morti di noi, ma non siam vivi neanche qua. E adesso mi dica quanto le occorre”. “Tutto. Tutto quello che c'è nei forzieri”. “Non è possibile”, puntualizzò fermamente l'impiegata, “i nostri forzieri sono miracolosi: non si svuotano mai”. “Poche chiacchiere”, sbuffò Ser Cepparello spazientito, “riempite i sacchi senza fiatare. Questa è una rapina, ho detto”. “Ma, Ser Cepparello, mi scusi”, fece l'impiegata senza scomporsi, “perché vuol compiere una rapina? Lei può prelevare tranquillamente quello che le occorre, senza sbraitare tanto”. Intervenne la capufficio, un arcangelo dolce ed autoritario: “La Banca del Paradiso apre automaticamente un conto ai residenti, che in vita hanno investito presso di noi i loro talenti. In tal senso, lei non ne avrebbe diritto, ma beneficia di una specialissima deroga, in quanto soggetto sottoposto a trasferimento sperimentale per Divin Decreto”. “In realtà, lei queste cose dovrebbe conoscerle”, puntualizzò l'impiegata allo sportello. “Evidentemente è qui da poco: ancora non gli è stata concessa la visione di Dio, che gli permetterà di essere tutto in tutti. Adesso è quasi del tutto cieco”, chiarì l’arcangelo, che evidentemente, per il suo grado superiore, conosceva in modo più approfondito le decisioni che venivano dall’alto. “Io ci vedo benissimo!” sbottò Ser Cepparello, ma proprio in quell'istante gli caddero come delle scaglie dagli occhi. Subito la luce immensa del Paradiso lo colpì. Poi cominciò a sentire qualcosa su di sé, come uno sguardo acutissimo che penetrava a fondo nella sua anima. Era una sensazione nuova, mai provata quando era all'Inferno, anche se, ora s'avvedeva, laggiù aveva sempre desiderato qualcosa del genere, ma questo desiderio era vano ed indefinito. I dannati vorrebbero vedere Dio, anche se non ricordano più il Suo Nome, perché non possono santificarlo. Ser Cepparello, riacquistata la vista, cominciava a percepire la visione beatifica dell'Eterno. Il malvagio, fissando lo sguardo entro l'occhio implacabile di Dio, si vedeva finalmente qual era: la sua iniquità gli stava davanti come se fosse scritta a lettere di fuoco. Si sentì improvvisamente perduto. “Dovrò mutar carattere”, decise, “adattarmi ai civili costumi degli abitanti del Cielo”. Questo era un bel proposito, ma il nostro povero diavolo comprese che non sarebbe riuscito ad attuarlo. Mutamenti ed evoluzioni vanno bene nel nostro universo spazio-temporale, ma in Paradiso il tempo è abolito ed ognuno di noi ha un carattere fissato per l'eternità. Nel contempo si rendeva conto che tutti gli abitanti del Paradiso potevano penetrare a fondo nella sua anima oscura. Non solo non gli era possibile simulare, ingannando il prossimo, ma doveva sopportare di sentirsi vergognosamente nudo, esposto al severo giudizio di angeli, santi e beati. “Povero me!” pensava, “Tutti sapranno che sono malvagio, e mi odieranno!” Sì sbagliava, il poverino! Nessuno avrebbe potuto odiarlo, perché il Paradiso è il regno di Dio, ed i beati sanno solo amare. Il meschino si sentiva addosso l'amore di tutti, senza potersi nascondere. Gli sembrava mille, diecimila volte meglio l'Inferno coi suoi strumenti di tortura. Il Padreterno, considerando che la sofferenza di Ser Cepparello s’era accresciuta dacché era stato trasferito in Paradiso, comunicò al Celeste Concilio la riuscita dell’esperimento.
Id: 2779 Data: 05/05/2015 19:51:40
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