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Raccolta di testi in prosa di Serena Lavezzi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Non è tutta la verità

Lo chiamavano Borgo, ma era soltanto un rudere al limitare del bosco più fitto, una casa mutante per metà capanna e per metà fortino. Aveva un aspetto fragile e un'anima poderosa, fortificata, si diceva, dai partigiani durante l'ultima guerra. In realtà se ne dicevano tante sul Borgo e sui suoi abitanti.
Lui lo chiamavano lo Sperlari, perchè se avevi bisogno di qualcosa e gli portavi un sacchetto di cioccolatini Sperlari lui non ti negava nulla. Schivo, leale, irreprensibile, aveva modi tutti suoi per risolvere le situazioni, ma tutti gli portavano rispetto e gli dimostravano cordialità.
Lei la chiamavano Marguti, questo nessuno era mai riuscito a spiegarselo con precisione. Le donne dicevano che era il nome di una qualche divinità hindu, gli uomini che era il nome della bisnonna della sua bisnonna. Alcuni ragazzini giurarono di aver sentito dire che era il nome di una strega celtica. Ma in realtà era soltanto una ragazza compassionevole, volenterosa, generosa e sensibile.
L'altro lo chiamavano Five e i pochi che ancora non ne conoscevano il motivo lo scoprivano dopo qualche mezz'ora passata in sua compagnia. Era famoso per essere permaloso e irascibile al limite della follia, era capace di arrabbiarsi per tutto ogni cinque minuti. Gli altri ormai non ci facevano neanche più caso, le conversazioni non si interrompevano più e lui sbolliva la rabbia da solo, borbottando tra sè e sè sulle ingiustizie riservategli dal mondo intero. Dopo altri cinque minuti era capace di rinserirsi nella conversazione come se non fosse successo niente.
Ritrovarsi tutti e tre a vivere in quella casa scapestrata era stata la conseguenza più logica ad un sussuseguirsi inarrestabile di eventi comandati dal Caso, o dal Caos. Solo uno spazio di differenza, ma parecchia materia filosofica su cui disquisire.
Tre mesi prima neanche si conoscevano, ed ora dividevano quelle tre stanze con inaspettato ordine e seguendo le regole base della convivenza: non si abusa del frigorifero nè della dispensa, si tiene sempre pulito il bagno, si rifanno i letti e lavare i piatti una volta per uno.
Era stata una vecchia e malandata Uno rossa a farli avvicinare.
Un signore aveva messo un annuncio per vendere a trecento euro la vecchia automobilina, Sperlari e Five si erano ritrovati lì per contendersela. Sconosciuti fino ad allora avevano deciso che risparmiare centocinquata euro a testa poteva essere un buon affare e un ottimo augurio per la nuova vita che avevano deciso d'intraprendere, abbandonando case e famiglie.
Fare un pezzo di strada insieme, in fondo, non poteva far male, pensarono. Fu così che uscirono dal garage del vecchio contadino a bordo della macchina rosso ruggine, diretti verso la strada statale più vicina.
All'autogrill avevano incontrato Marguti. Sperlari seduto sul cofano della Uno mentre Five faceva il primo pieno della loro nuova esistenza e lei seduta a gambe incrociate su di un muricciolo adiacente all'imbocco d'uscita dell'area. Si guardavano, in mezzo alla bolgia di turisti diretti in vacanza, forse al mare, si guardavano come tre cani randagi ritrovatisi per caso nello stesso vicolo. E perchè no, si dissero. Ma fu lei ad avvicinarli e uscirono dall'autogrill tutti accucciati dentro la Uno.
Erano strambi a vedersi, quando scendevano per fare due passi in qualche area di sosta, in qualche parcheggio di supermercato o all'uscita posteriore di un pub qualunque.
Lei con le cosce sode e i capelli lunghi, nerissimi e dritti come spaghetti crudi, gli occhi sempre coperti da grossi occhiali da sole, fianchi morbidi e vita sottile, tatuaggi dappertutto.
Lui, Sperlari, il più maturo, uno spilungone, un numero di scarpe spropositato e mani grandi, un cappellino calato a coprire anche la vista, spalle larghe e le dita che si muovevano senza sosta attorno ad un portachiavi senza chiave.
Infine il piccolo del trio, Five, una barbetta da pulcino, due occhi enormi e azzurri simili a quelli nei manga, i capelli rasati e una felpa con cappuccio anche con quel caldo insopportabile, quel particolare nessuno se lo spiegò mai.
Trovarono la casa quel pomeriggio stesso, era quasi l'imbrunire. Non avevano un'idea chiara su quello che avrebbero voluto fare della loro vita d'ora in avanti, su questo erano tutti d'accordo. Fu un' altra circostanza casuale a portarli al limitare del bosco, la benzina stava per esaurirsi e Sperlari non voleva rischiare. Scorsero la casa tra gli alberi, trovandola abbandonata decisero che poteva essere la loro.
Con incoscienza ci passarono la prima notte, tranquilli, e l'indomani, dopo aver fatto il secondo pieno, andarono a comprare il necessario. Per tutto ciò che riguardava la casa e l'organizzazione della loro vita all'interno delle quattro mura, Marguti prese le redini e gestì i bisogni di tutti sin dalla prima sera.
Li chiamavano I Tre Spiriti del Borgo, un nome un pò troppo lungo per delle conversazioni biascicate a mezza voce agli angoli delle stradine del paese, alla casse del supermercato, al bancone del bar. I bambini si dirigevano in bicibletta, dopo la scuola, per spiarli.
Tutto iniziò il giorno in cui uno di questi, per scommessa, mangiò alcune bacche prese da un cespuglio. Poco dopo si sentì male, forti crampi gli torcevano lo stomaco e una delle bambine, con la sensatezza tipica delle femmine, decise di andare a bussare al Borgo.
«Vi prego vi prego aprite! Carlino sta molto male, ha mangiato delle bacche! Aiutateci» gridò a squarciagola, battendo i pugni contro la porta di legno.
Dopo un attimo Marguti e Sperlari ne uscirono, lei mise tra le mani della bambina uno scampo di stoffa contenente qualcosa di duro, delle palline. Non disse nulla, fu Sperlari a parlare.
«Falle masticare al tuo amico, una adesso e una tra due ore. Gli passerà. E riportatelo a casa subito» disse, fissando la bambina.
Questa, un pò spaventata, corse via più veloce della luce e i due tornarono nella loro tana.
Da quel pomeriggio il racconto della bambina si trasformò in leggenda e poi in mito, arrivando addirittura ad alcuni paesi limitrofi e alle orecchie di qualche vecchio sperduto sulle colline. Di voce in voce, di bisbiglio in bisbiglio, Marguti divenne muta, Sperlari il capo banda, il guru del gruppo e su Five si taceva ancora.
I soprannomi vennero da sè, una ragazzina del paese follemente innamorata di Sperlari gli portò un sacchetto di cioccolatini e lui la aiutò nel compito di algebra, da quel giorno tutti quelli che andavano per chiedere favori portavano i cioccolatini per il capo.
Spesso passavano la serata nel pub del paese, col tempo vennero a conoscenza delle storie che giravano su di loro e non si stupirono più di essere osservati di continuo, dovunque andassero.
A volte qualcuno li avvicinava al tavolino, era uno di quelli in legno massiccio sistemato in fondo con le panche addossate al muro. Loro, con gentilezza, ascoltavano tutti.
Non c'era stato un momento preciso in cui avevano deciso di incarnare le loro stesse leggende, di vivere impersonificando le dicerie createsi prima di loro. Era stata una conseguenza necessaria, naturale, non violenta. Neanche loro sarebbero riusciti a ricordarsi quand'avevano cominciato, anni dopo.
Col tempo abbandonarono il Borgo senza rumore, dal giorno alla notte era di nuovo vuoto e silenzioso. In paese si fecero mille ipotesi, congetture, teorie di ogni tipo. Una fuga d'amore, un delitto che li aveva costretti a scappare ancora, i più fantasiosi si dimostrarono gli anziani, cui quella avventura aveva donato ancora un briciolo di passione. Ma di loro non si seppe più nulla e, di voce in voce, vennero dimenticati.
Li chiamavano I Tre Spiriti del Borgo, ma erano soltanto tre ragazzi. O almeno lo erano stati.
Sebastiano Angelini, detto Sperlari, scomparso dopo un'incidente stradale.
Anna Eva Lauriz, detta Marguti, scomparsa in seguito ad un'incendio.
Mauro Martinelli, chiamato Five, scomparso per una scommessa finita male.


Id: 2153 Data: 30/01/2014 13:56:15

*

Lei

Lei




Umiliati e Offesi di Dostoevskij fu la prima cosa che vidi, ancora prima di scorgere lei.
Svoltai l'angolo della stazione, ritrovandomi sul marciapiede del primo binario con un fortissimo senso di vuoto nel petto. E più mi guardavo attorno, cercandola senza trovarla, più quell'oppressione mi schiacciava.
Quando la scorsi una decina di metri più in là mi resi conto che quel dolore avrebbe anche potuto farmi svenire, proprio lì. Lei forse mi vide subito e forse fece anche un passo verso di me, ma i miei occhi furono catturati prima dal libro che teneva stretto al petto.
Solo dopo qualche istante, mentre l'immagine di copertina si faceva sempre più nitida, alzai lo sguardo al suo viso. La prima cosa che notai furono le guance rosse per il freddo, mi resi conto solo allora che anche io tremavo.
Era ben coperta, sulla testa aveva una cuffia di lana marrone che le copriva metà fronte e da cui uscivano, scarmigliati, alcuni boccoli biondi. I guanti dello stesso colore stringevano con forza il libro contro il lungo cappotto color panna; aderente, sottolineava ogni sua curva.
Per qualche istante, osservando la linea morbida dei suoi fianchi persi la cognizione di dove fossi e del motivo per cui ci trovavamo lì, nella stazione di una città a noi sconosciuta.
Mi ritornò vivido alla mente un ricordo lontano, risalente a quattro anni prima. Mi stupisco ancora, pensandoci, di come in un tardo pomeriggio così freddo e grigio avessi potuto ricreare nella mia mentre il ricordo di quella calda mattina di luglio.
Ancora oggi lo trovo incredibile. Pernottavamo in una pensioncina appena fuori Parigi, io avrei dovuto consegnare un racconto alla rivista di lì a un paio di giorni. Con la scusa avevamo deciso di cambiare aria e stavamo alla pensione ormai da una settimana.
Il posto non era nulla di grandioso, ma se ti affacciavi dall'ampia finestra della stanza ti trovavi immerso in un campo di tulipani rossi.
Guardandoli ti sentivi cullare dalla leggera brezza che sembrava accarezzarli ad ogni ora del giorno. Ricordo con estrema chiarezza la sensazione che mi diedero, perchè fu proprio quella con cui iniziò la mia giornata.
Ero solito svegliarmi prima di lei e mettermi a scrivere sul mio quaderno, per la colazione la aspettavo e anzi quella mattina decisi di portarla io in camera.
Così mi vestii e scesi nella sala al piano terra. La pensione era gestita da tre sorelle sulla sessantina, cucinavano per la maggior parte della giornata. Col mio francese tentennante, l'esperta di lingue era lei, riuscì a spiegare che mi serviva un vassoio per portare la colazione di sopra.
Presi due briosche ancora calde, burro e marmellata fatti in casa, caffè e latte bollente. Lei aveva già gli occhi semiaperti, impigriti, quando posai sul tavolino rotondo il vassoio.
«La colazione è pronta» dissi.
Quella mattina, ispirato dai tulpani, avevo scritto molto e mi sentivo irrimediabilmente felice.
«I tulipani sono svegli?» mi chiese, senza alzarsi.
Era una domanda che mi faceva spesso.
Sorrisi «Sono svegli,si».
«Non voglio andare via da qui» disse.
Io la guardavo, perduto senza speranza in quella sua delicatezza smaniosa e prepotente. Il suo corpo era nascosto in parte dal leggero lenzuolo.
«Ci potrei vivere così» disse ancora.
Io iniziai a sentire un caldo terribile guardandola lì stesa. Mi tolsi la camicia che avevo allacciato appena e lei si liberò del lenzuolo, stirandosi come una gatta.
La prima cosa che fece fu scostare la tendina bianca della finestra e guardare i tulipani. Una cascata di capelli biondi, con il riflesso del sole sul vetro parevano quasi bianchi, le scivolava sulle spalle e lungo la colonna vertebrale.
Lo sguardo lontano, vedevo i tulipani riflessi nei suoi occhi che da nocciola diventarono rossi.
Aveva addosso solo una canottiera bianca corta, bordata di pizzo e le mutandine abbinate. Guardandola di sbieco notai che le si erano formate delle deliziose goccioline di sudore tra le scapole.
Stavo per avvicinarmi quando fu lei a venirmi incontro, osservò il vassoio. Riempì una delle tazze di latte fino all'orlo, fumava.
«Non capisco come fai a bere il latte bollente con questa afa» le sorrisi, mentre preparavo la sua briosche.
Lei beveva avidamente e mi sorrideva. Aveva l'abitudine di fissarmi negli occhi con un'intensità tale da farmi spesso perdere l'equilibrio.
«E' accogliente» disse, come se quell'aggettivo potesse spiegare tutto.
In un sorso finì il latte e si versò subito un'altra tazza colma, lasciandone per me appena un dito in fondo alla brocca. Lei era fatta così, tutto era suo ed io, sua vittima consapevole, le davo tutto.
Le passai le briosche farcita e andò a sedersi sul davanzale, si sistemò sul fianco destro, appoggiando la schiena al muro e tirando su i piedi. Con le ginocchia piegate ci stava perfettamente.
Addentò mezza briosche bevendoci dietro metà del latte. Lei era così, il primo approccio era infuocato e poi diventava lenta e parca.
«Dimmi perchè non possiamo restare».
Capì che si era svegliata e forse ci aveva anche dormito, con quel pensiero fisso. Lì per lì pensai che vere ragioni non esistevano, ma era un falso pensiero dettato dall'atsmosfera romantica di quella alcova circondata dai tulipani.
«Perchè questo è un albergo, non una casa. Perchè il mio lavoro qui è temporaneo e la nostra vita è tutta da un'altra parte» dissi, pragmatico com'era il mio carattere.
Prima di conoscerla lo ero anche di più ed era la cosa che malsopportava di me.
Stava sbonconcellando la briosche tirando via la marmellata con le dita e mettendosela in bocca.
«Tutte cose giuste, ma non è quello che ti ho chiesto. Quelle sono solo parole. Io voglio sapere perchè» sentenziò.
Era capricciosa, lo era stata dal primo minuto che l'avevo conosciuta, un anno prima.
A volte questa sua bambinesca intransigenza mi eccitava, quella mattina non so perchè m'infanstidii
Mi risentivo facilmente quando qualcuno metteva in discussione la mia capacità di giudizio, la mia maturità e si, il mio punto di vista. Sentivo che il mio stato d'animo di pura felicità stava scemando e me la presi con lei.
«Non sono solo parole, sono fatti. Quelli della nostra vita. Altre ragioni non ne vedo, anche se sarebbe divertente non si può vivere sempre in un mondo di sogno evanescente, come vorresti tu».
L'avevo ferita, volevo farlo. Immersi la mia brioche nel caffè, fingendo di non essermi accorto dello sguardo che mi aveva lanciato. Volli apparire indifferente e ci riuscii abbastanza bene.
«Tu sai sempre tutto eh?» mi apostrofava.
Continuò dopo qualche secondo.
«Tu e il tuo piccolo mondo fatto di obblighi, compiti, fatti, come li chiami tu. Una vita senza istinto, senza un barlume di spontaneità, priva di un vero guizzo vitale! Fatta di promemoria incasellati tra le uova e il pane in una lista della spesa che non finisce mai».
Mi guardò e si girò verso si tulipani, che era sicura la comprendessero più di me.
Guardandola la prima cosa a cui pensai, forse perchè sono uno scrittore e quindi abile nel cogliere le sfumature invisibili nelle cose, fu quanto era stridente il contrasto tra la durezza delle sue parole e la dolcezza della marmellata che si metteva in bocca.
Da buon visionario quale sono, che ne dica lei, pensai che c'era qualcosa di intimamente sbagliato: da una bocca colma di pesca e zucchero non avrebbero potuto uscire parole tanto amare.
Lo sguardo impaziente che mi lanciò mi riportò alla realtà.
Probabilmente la sottovalutavo, ma a volte mi prendeva come un raptus e non riuscivo a negarmi il piacere di provocarla, strattonarla, piegarla con le mie parole.
«Si vede che leggi tanti bei romanzi, ma parlare come uno di quei frivoli e ingenui personaggi che tanto ami non fa sembrare le cose che dici più intelligenti. Dì semplicemente le cose come sono, chiare e limpide: tu mi odi» le scaraventai addosso quelle parole con il tono più indifferente che riuscii ad esibire.
Lo feci solo per farla infuriare. Notai che la tazza le tremò appena tra le dita, l'avevo confusa. Mentre mi parlava io guardavo la stoffa delle sue mutandine, costellata di rimasugli unti di briosche.
«Io ti odio?» aveva un tono sorpreso.
Alzai gli occhi e la fissai per la prima volta.
«Non dici che tarpo le ali dei tuoi mille sogni, dei tuoi progetti campati in aria? Perchè ho i piedi troppo piantati nel fango, così mi hai detto».
Lei mi guardava.
«Una settimana fa, prima di partire» conclusi io.
Sono uno che rimugina su tutto e su quella sua frase avevo pensato tanto, troppo. Era ancora lì, che aspettava solo di venire fuori con prepotenza.
Lei dopo un attimo di smarrimento capì tutto, molto più chiaramente di me, sia chiaro.
Mi sorrise e lì capì che avevo perso, mi aveva smascherato. Abbandonò la tazza sul davanzale a bearsi dei tulipani e venne da me.
Mi si fermò davanti e io allontanai la sedia dal tavolino, ma non mi alzai.
«Sei così permaloso..» mi guardava con quel suo sorriso dolce, divertito, altezzoso.
«Non mi dimentico certo le cose che mi dici, anche se ti farebbe comodo» dissi, mantenendo il tono da duro, ma già sapevo di aver perso contro quegli occhi che ancora mi parevano rossi.
Lei decise che il gioco del gatto e il topo la divertiva, dimentica d'ogni astio.
«Ah si, mi farebbe comodo?» sempre quel maledetto sorriso.
Mi sembrò che la luce nella stanza fosse diventata accecante per un attimo. Gli occhi, seguendo uno dei suoi boccoli, si fissarono sull'orlo di pizzo della canottiera e poi sull'ombelico nudo e umido, infine sulla linea dei suoi fianchi. Morbida, creava un equilibrio perfetto nella sua figura.
Lì si fermò il mio sguardo, senza poter andare nè su nè giù.
Perso nelle mie elucubrazioni pensai che se fossi riuscito a scrivere anche un solo breve racconto sulla bellezza dei suoi fianchi, lì soltanto mi sarei potuto definire un grande scrittore.
Fu quella visione che mi aveva riportato alla mente questo ricordo. Lei si era accorta che mi aveva vinto, sfinito, che di nuovo ero ai suoi piedi, pronto anche ad abbandonare tutto e vivere tra quei tulipani.
Ma lei non voleva questo, mi metteva alla prova continuamente solo per accertarsi che il suo potere su di me non fosse svanito. Che la mia devozione fosse totale, infinita, sempre accesa.
Quella fulgida e calda visione s'interruppe quando la mia mano si allungò a toccare il suo fianco, mentre nella realtà la sua mano gelata nonostante il guanto sfiorava la mia.
Mi ritrovai inaspettatamente sul binario. La folla era aumentata, tutti che emettevano nuvolette d'aria. Lei mi sorrise stringendomi le dita.
«Sei caldo».
«Lo so» sorrisi.
Sentivo l'impulso irrefrenabile di baciarla e lo feci, stringendola contro di me con molta forza.
Nella mia memoria quel bacio non finiva più, ma razionalmente durò al massimo un paio di minuti. Quando riaprì gli occhi il treno era sul binario e lei mi faceva segno di sbrigarmi.
Prendemmo i primi due posti liberi, posammo borse e giacche; ci aspettava un lungo viaggio.
Lei prese la mia mano, intrecciò le dita nelle mie e le posò aggrovigliate sulla sua coscia. Poi prese a guardare fuori dal finestrino ed io presi a guardare lei.
Era il mio destino.
Mentre il suo era quello di scoprire il mondo, il mio poteva solo essere d'intuirlo, osservando lei.


Id: 2146 Data: 24/01/2014 18:24:17