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SE FOSSE
“Se fosse sempre così”, pensava. Tutto liscio come l’olio. Nessuna increspatura, nessuna onda anomala che travolge e non lascia modo di fuggire. Orizzonte piatto, delimitato da una riga precisa, netta.
Sul divano di stoffa rossa, con la camicetta sbottonata, le gambe ancora schiuse ad asciugare le umide incursioni affamate di cui aveva appena goduto, Adriana rifletteva, come sempre del resto, dopo una delle tante scopate senza sorprese, su quanto fosse stata stupida in passato a concedere tutto di sé, non sapendo che, accidenti, non era affatto necessario. Anzi. Meglio, molto meglio, come aveva fatto quella sera. Un paio di birre, quattro chiacchiere al tavolino di un locale chiassoso sul fiume, un’occhiata complice, lo sfiorarsi malizioso delle ginocchia e poi dividere brevemente il letto con qualcuno che non scuote le viscere e non tronca il respiro. Se poi lo si conosce da un bel pezzo, è ancora più semplice non incappare in spiacevoli imprevisti e complicazioni sentimentali.
“Allora, spaghettino di mezzanotte?”
“E uova strapazzate.”
“Cavolo, Adriana, ma dove lo metti tutto quello che ti divori? Vabbé…come li vuoi gli spaghetti?”
“Fai tu.”
Fede cucinava divinamente. Quando tagliava le cipolle strizzava gli occhi come una vecchia talpa, ma non lacrimava mai. Si muoveva in cucina con lenta e inesorabile precisione. Pochi minuti e nelle narici di Adriana era già penetrato un intenso odore di soffritto.
“Poi nel sugo ci metti anche i capperi?”
“Se la mia Principessa sul pisello lo desidera…”
Adriana osservava distratta il lampadario, una cascata di luce al centro della stanza. Non gliene importava nulla di frugare con gli occhi la vita segreta di quell’appartamento, di immaginare Fede nell’intimità domestica, mentre inseriva un cd nello stereo, apriva un cassetto per cercare una maglietta, si specchiava prima di uscire. Nessuna curiosità.
C’era stato un tempo in cui, invece, l’amore per una persona l’aveva trasformata in ladra e mendicante. In un’altra casa aveva scrutato ogni oggetto, fiutando come un cane randagio le tracce di quelle mani nervose, che si accendevano svelte sul suo ventre. Un giorno s’era portata via una penna col cappuccio rosicchiato, abbandonata sulla scrivania mogano; se l’era fatta scivolare nella tasca provando quasi pietà per se stessa. Vergogna.
Una penna, dopo tutto, era quanto le rimaneva di quell’essere dal gomitolo sfatto di capelli biondi, di cui conosceva ogni espressione del volto. Se socchiudeva le palpebre appesantite dai ricordi poteva ancora rivedere la curva delle sue spalle, le agili gambe da cicogna, la pelle screziata di nei e di lentiggini, i capezzoli minuscoli che s’aggrinzivano sotto la sua lingua. Portava una sciarpa di lana ruvida verde, d’inverno, e se la scordava ovunque. Odiava gli ombrelli, così ogni tanto compariva con i vestiti bagnati sotto il suo ufficio, “ho preso un po’ di pioggia…dove andiamo stasera?”. Ma non c’era luogo in cui sentirsi al sicuro, quando stava in sua compagnia. Sempre quel senso di estrema vulnerabilità, la certezza che una sola delle sue parole aveva il potere di ferirla a morte o di regalarle una fitta dolorosa di felicità. Persino il suo nome aveva un sapore, miele e assenzio insieme, con una erre che lo spaccava in due identiche metà, che a pronunciarla solleticava il palato, conficcandosi in gola come una spina. A tradimento.
“E’ pronto!”
Adriana si voltò verso la cucina. Un sorriso e un piatto fumante l’attendevano.
“Dolcetto o Grignolino, Signorina?”
“Acqua.”
Non prestava la minima attenzione al rumore dei discorsi di Fede. Un cicalio prevedibile e superficiale. Però la pasta era gustosa. “Se fosse sempre così”, si disse di nuovo. Stare con qualcuno e farci all’amore e saziarsi e discutere del più e del meno, poi salutare, “ti chiamo”, oppure no, tanto è lo stesso, e uscire all’aria aperta. Niente mente inceppata a covare ore gonfie di desiderio.
“…E poi a teatro non sai chi ho visto…mica li avevo riconosciuti subito… sembravano i due fidanzatini di Peynet, mano nella mano…Giorgia e Carlo…e lei non mi dà la notizia del secolo ‘ci sposiamo a settembre’…incredibile, secondo me non durano molto…un uovo ti basta?”
Una scarica di proiettili. Un colpo inferto nella pancia da una estremità all’altra con una lama rovente. Quel nome vicino a un altro, che non era il suo. Adriana impallidì. La forchetta le cadde sul pavimento.
“ Cioè…ma non lo sapevi? Scusa…non avrei voluto essere io a dirtelo…mi spiace…”
“Ma piantala con questo tono materno e accorato. Si sposano? E chi se ne frega. Io e Giorgia abbiamo rotto. Non mi interessa che cosa fa. Ho chiuso con lei.”
Fede frustò le uova nel tegamino, zitta, ché i veri amici sanno sempre quando è ora di tacere. E fanno finta di credere alle bugie.
Adriana sentiva un ronzio nelle orecchie e non aveva più appetito. Pensava a Giorgia stretta nelle braccia di Carlo. Com’erano lontane le interminabili notti in cui era stata lei a cullare i suoi sogni, a custodire il tepore del suo sonno.
“Adriana l’uovo freddo non è più buono, mangia, dài…”
Evitare accuratamente di correre un analogo pericolo, ecco che cosa doveva fare. Indossare una spessa armatura di freddezza, nascondersi, schivare la tentazione di perdersi negli occhi di un altro individuo, imparare a dosare, calcolare, soppesare ogni emozione. Soprattutto scappare.
“Se fosse sempre possibile”, pensò sospirando, inchiodata alla nostalgia arrugginita di un corpo, che non le sarebbe appartenuto mai più.
Silvia Rosa
(In Rac-corti, G. Perrone, 2009)