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Raccolta di testi in prosa di Stefano Previtali
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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I programmi della notte (parte 2)

I PRGRAMMI DELLA NOTTE (PARTE 2)
Stava seguendo un programma in cui il presentatore baffuto faceva da arbitro a due squadre di ragazze avvenenti che si sfidavano in varie discipline; quando una delle contendenti perdeva la sua sfida, si doveva sfilare il reggiseno lasciando ballonzolare i suoi seni al silicone, mentre la telecamera si avvicinava per un primo piano malizioso.
Un sorriso gli affiorò sulle labbra e ingollò un altro sorso di birra.
Ora alla ragazza seminuda venivano fatte lacune domande di rito, del tipo: “Cosa ti piacerebbe fare nella vita?” o “ hai degli interessi particolari?” o ancora “ ce l’hai il fidanzato?” ; e le risposte erano sempre le stesse per ognuna delle ragazze del programma: “la ballerina di qualche grossa rete televisiva”, “adoro danzare”, “sì, ma non è geloso di quello che faccio”.
“E cosa ne pensa tua madre del fatto che mostri i capezzoli a tutto il mondo?” disse Gianni emettendo una risata roca.
“E cosa dicono i tuoi genitori del fatto che ti spogli in diretta?” chiese il presentatore con un sorriso languido.
Gianni fece un gesto con la mano, unendo pollice e indice e tirando un’immaginaria linea orizzontale, che significava “come volevasi dimostrare…”.
“Oh no, i miei genitori non si intromettono nel mio lavoro…” disse la ragazza con voce civettuola.
“Lavoro?! Cazzo ragazzi, oggi le ho sentite proprio tutte” disse Gianni sbuffando aria doppio malto.
Si alzò dal soffice divano lasciando l’impronta del suo sedere nel cuscino e andò a prendersi un’altra birra dal frigorifero. Già che c’era prese anche alcuni cubetti di formaggio e due fette di salame; giusto per non bere a stomaco vuoto, pensò. In fondo non aveva cenato e , anche se ne avesse avuto la possibilità, dubitava che qualcosa di solido sarebbe riuscito a superare la bocca del suo esofago. Ora, invece, sentiva di avere un certo appetito.
Mangiò tutto appoggiandosi al piano lucido della cucina, lubrificando ogni tanto il canale di scolo con sorsi di birra. Poi estrasse una sigaretta dal pacchetto sgualcito che teneva nel taschino della camicia e si diresse verso la portafinestra che dava sul piccolo balcone.
Era una notte buia, senza stelle. Il cielo era ancora coperto da nuvoloni di pece, ma per il momento la pioggia aveva allentato il suo costante ticchettio. Mentre la sigaretta si consumava nel vento gelido, provò a tirare le somme della sua breve esistenza, valutando le cose che aveva portato a termine con un certo successo e quelle che aveva mancato. Pensò anche che, in passato, avrebbe dovuto fermarsi più spesso a tenere la “contabilità” della sua vita, ma lui si riduceva sempre all’ultimo in tutte le cose; glielo diceva sempre anche Linda.
Tra le cose portate a termine con un discreto successo svettava in prima fila l’affermazione personale come uomo e come capofamiglia. Non che avesse raggiunto chissà quale livello nella società, ma era un modesto impiegato con una buona paga, ben valutato dai superiori, aveva un discreto appartamento vicino alla città, due auto, un conto in banca che dava una certa sicurezza per il futuro e pagava regolarmente le tasse. Una vita ineccepibile sotto quell’aspetto. Vestiva Ralph Laurent e girava con una ventiquattrore, cenava spesso in ristoranti di classe e si poteva affermare con certezza che la sua famiglia (composta solamente da lui e Linda naturalmente) avesse goduto, almeno fino a quel momento, di un tenore di vita più che dignitoso, medio borghese. Era fiero di avercela fatta, nonostante i periodi bui e i suoi “momenti”.
Un altro fattore di cui non avrebbe avuto a pentirsene quando sarebbe giunta la sua ora era il decorso stesso della sua esistenza, in particolare nei suoi primi trent’anni. Era cresciuto amato e coccolato dai suoi genitori, aveva passato un’infanzia spensierata e fragrante come le estati che aveva trascorso a casa dei nonni, in campagna, aveva studiato e si era laureato in informatica, non che fosse un genio e nemmeno uno studente modello, ma alla fine ce l’aveva fatta, a piccoli passi. Il giorno del suo venticinquesimo compleanno suo padre, solitamente burbero e avaro di complimenti, gli aveva dato una pacca sulla spalla e aveva detto: “ Oggi sei diventato un uomo e non ho più nulla da insegnarti…sono fiero di te…” e gli occhi gli erano inspiegabilmente divenuti acquosi. Aveva avuto un certo successo con le donne, si era innamorato, si era sposato, aveva amato Linda con passione e aveva ricevuto amore a sufficienza per tirare avanti in quell’angusto buco di culo che era la vita. Aveva superato la morte dei genitori e il giorno che sua madre se ne andò sentì di essere stato un buon figlio e di non avere rimpianti nei suoi confronti.
Non sentiva di poter dire lo stesso nei confronti di sua moglie.
Nella lista delle mancanze, alla prima voce in grassetto, c’era la storia del bambino. Avrebbe voluto darglielo quel bambino, con tutto il cuore, ma non ci era riuscito e, anche se dagli esami non risultava, era sicuro di essere lui la causa di tutto. Dopo l’aborto spontaneo e la crisi depressiva che aveva investito Linda come una mandria di bisonti, questa certezza aveva iniziato ad insinuarsi nella sua testa; non ne aveva le prove, ma se lo sentiva e questo lo aveva messo in discussione nella sua funzione di uomo provocandogli un’insicurezza a livello sessuale che si sarebbe portato dietro fino all’ultimo. Lui e Linda facevano l’amore almeno una volta la settimana, il che non era niente male per una coppia sopra i quaranta e sposata da vent’anni, ma dal giorno in cui avevano perso il bambino aveva vissuto i loro momenti intimi con una certa irrequietezza. Ora che il tumore gli cresceva dentro, come un figlio che però, questa volta, non avrebbe perduto, desiderava aver fatto l’amore con sua moglie molto più spesso e con maggiore intensità, per farle capire quanto la desiderasse.
Si trovò a pensare di non essere preparato a tutto questo.
Non che non ci avesse mai pensato, anzi, Gianni riteneva da tempo di essere uno di quegli uomini sfortunati a cui era stata data la facoltà di rimestare troppo nei propri pensieri. A qualcuno era stato dato il dono della musica, a qualcuno quello dell’arte, a qualcuno quello di avere un pene al di sopra della media e invece a lui era stato fornito un cervello difettoso, capace solo di secernere pensieri tossici dalla propria neo corteccia.
Quei pensieri tossici, quegli impulsi negativi lanciati all’impazzata dai suoi neuroni lo avevano condizionato per buona parte della sua vita, impedendogli di viverla serenamente come gli altri.
Dai trent’anni in poi aveva vissuto con l’angoscia del tempo che passava, la paura dell’inesorabile decadimento fisico, il terrore ancestrale di trovarsi un giorno a guardare la morte da vicino. Spesso durante le serate invernali, con Linda che dormiva accanto a lui sul divano, veniva colto da una tristezza cosmica per la sorte del genere umano, per quel continuo e apparentemente inutile ricircolo di vite, per la vacuità dell’esistenza stessa (se non intesa prettamente in senso fisico di vivere, cibarsi e riprodursi) e pensava che se un Dio esisteva, allora doveva essere un sadico bambino che si diverte a staccare code alle lucertole.
Pensieri tossici che gli avvelenavano il sangue e l’anima.
Stretti cugini dei ricordi tossici, quelli che gli provocavano una stretta al cuore, come i ricordi d’infanzia, la nostalgia delle persone che lo avevano aiutato a crescere e di cui non rimanevano altro che fotografie sbiadite nelle cornici d’ottone sulle lapidi del piccolo cimitero del paese dov’era nato.

A questo pensava anche quella sera (pensieri tossici), sul balcone del proprio appartamento al quinto piano, con il viso imperlato da microscopiche gocce di pioggia che turbinavano all’impazzata nell’aria notturna di Dicembre.
E non solo…
Pensava anche a tutto ciò che avrebbe dovuto lasciare su questa terra insana ed infelice, ma a cui in fondo si era affezionato. Non riusciva a credere che non avrebbe più potuto sentire la voce rasposa di John Fogherty intonare “Fortunate Son”, o che non avrebbe più udito un attacco di Jimi Hendrix (dubitava fortemente che una volta passato al di là avrebbe incontrato il caro vecchio Jimi di persona). Provava già nostalgia per il calore dell’acqua calda nella doccia al Sabato mattina, mentre Linda si truccava davanti allo specchio, pronti per una giornata serena liberi da lavoro e impegni, o per il gusto del Big Mac, o per la scorbutica vibrazione che gli saliva dalle gambe al cuore quando cavalcava la sua Kawasaki nelle giornate estive e l’aria gli si infilava sotto il casco a rinfrescargli la fronte imperlata di sudore. E poi per il Tg delle otto di sera mentre pranzavano, per l’arrivo della bella stagione, per un giorno di vacanza, per un bel film preso a noleggio, per le fusa del gatto che si acciambella sul cuscino della poltrona, per il sesso, per la poesia stessa di vivere e soffrire e qualche volta, magari, essere felici.
E infine per Linda, la donna della sua vita, che lo volesse o no.

La sigaretta era finita già da un po’ ed ora il cerchietto incandescente si stava divorando il filtro.
Gianni sentì il calore tra le dita, segno che era ancora vivo, e la gettò nella notte.
Aveva un groviglio in gola, come i cavi dietro il mobile della tv.
Rientrò nel soggiorno e il calore lo investì pizzicandogli le guance. La tv era ancora accesa sullo stesso canale, ma i programmi di prima avevano ceduto il posto ad una noiosa televendita di tappeti persiani. Emise un sospiro profondo, quasi a voler cacciar fuori tutta la negatività accumulata durante le sue elucubrazioni.
Guardò l’orologio con i numeri romani affisso sopra la porta che dava in soggiorno: le due e un quarto.
Notte profonda. Notte buia come la morte.
“Già, la morte…e non ho ancora avuto tempo di finire la mia birra” pensò e si scoprì a sorridere. Per una volta il suo cervello aveva sfornato un pensiero sano che innalzò di una tacca il suo umore, anche se rimaneva sempre nella zona rossa, quella sotto lo zero.
Tornò al lavello e recuperò la lattina che spiccava sul piano zigrinato.
Raggiunse il tavolo del soggiorno e una fitta nel petto lo irrigidì mentre si piegava per sedersi.
Era già cominciata? Probabilmente sì. O forse, più che cominciare, stava per finire.

Id: 369 Data: 06/05/2009 11:18:29

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I programmi della notte (parte 1)

I PROGRAMMI DELLA NOTTE

Gianni chiuse la porta d’ingresso con la massima delicatezza possibile. Sapeva che Linda dormiva già e non voleva disturbarla.
Appese il cappotto all’appendiabiti di legno nel corridoio con un sospiro.
Era stata una giornata pesante.
Era rimasto in ufficio oltre l’orario usuale per risolvere alcuni problemi che erano sorti con i clienti della grossa azienda dove lavorava. Poi era uscito trafelato con la borsa di pelle che gli ballonzolava contro la gamba destra per non tardare alla visita che aveva fissato dal dottor Paolini, con la pioggia che mitragliava il suo cappotto beige come colpi di Kalasnikov; era salito sulla sua Peugeot ed era partito a razzo facendo sibilare le gomme sull’asfalto bagnato. Nell’asettica saletta d’attesa del dottore aveva atteso per circa un quarto d’ora, leggendo riviste di cui non gli importava un accidente, solo per ammazzare il tempo. Poi la giovane infermiera, probabilmente una tirocinante che si stava ancora laureando, l’aveva chiamato e da lì in poi la sua vita non sarebbe stata più quella di prima.
“Metastasi…iperattività cellulare” erano le parole che aveva usato il dottor Paolini con quella sua voce baritonale e monotona, ma lui ne aveva in mente una sola, corredata di tutte le terribili storie che aveva sentito raccontare da altre persone: tumore; e non era facile da mandar giù a soli quarantacinque anni.
Mentre tornava a casa si era fermato per farsi una birra in un piccolo pub di periferia, squallido come la cameriera che l’aveva servito. E mentre la schiuma si dileguava lentamente dal suo boccale, pensava a come avrebbe riportato la notizia a Linda, che ancora non sospettava nulla, convinta che quella fosse solo una banale appuntamento per ritirare i risultati delle radiografie fatte precedentemente. Era così strano pensare che quella mattina, appena sveglio, si era sentito ancora giovane e forte. Ed ora, passate poche ore, aveva la morte davanti agli occhi, sottoforma di una macchia scura nell’azzurro glaciale delle radiografie.
La birra era ormai ridotta ad un cerchio schiumoso sul fondo del bicchiere e lui non aveva trovato ancora una soluzione.
“Cara, ho un tumore…” era la soluzione più drastica, ma avrebbe preferito evitare di essere così diretto, se non voleva trovarsi con Linda accasciata sul parquet lucido del salotto.
“Cara, vedi…il dottor Paolini dice che non va tanto bene…per niente bene ad essere sinceri…” forse suonava meglio, ma era comunque un bel cucchiaio di merda da mandar giù.
Si era alzato dallo scomodo sgabello di legno su cui erano inciso “Manuela 6 una troia” a caratteri cubitali, aveva pagato la sua birra alla cassa ed era uscito nella fine pioggia di Dicembre, stringendo i lembi del suo cappotto per ripararsi dal freddo.
Aveva guidato fino a casa senza rendersene conto, costantemente martellato dai dubbi e da pensieri bui. Una volta posteggiata l’auto vicino al portone a vetri del palazzo si era fatto cinque piani di scale, per procrastinare il momento in cui sarebbe entrato nel suo appartamento, aggredito da quel silenzio mortale.

Sbirciò nella fessura della porta semiaperta della camera da letto e vide un cumulo di lenzuola nelle quali era avvolta sua moglie.
Povera Linda. Era stata una moglie fedele e comprensiva, l’unica che fosse davvero in grado di capirlo, anche nei suoi momenti. Sì, perché c’erano stati periodi della loro vita coniugale in cui lui si era abbandonato a momenti di sconforto ed era caduto in una lieve depressione che aveva messo in crisi il loro rapporto di coppia. Uno di questi momenti, in particolare, era stato il più duro da superare, circa una decina d’anni prima. Il lavoro andava e veniva e Gianni aveva iniziato a bere. Passava le serate a riflettersi nell’occhio buio del televisore spento e Linda si era chiesta più e più volte cosa ci vedesse. I loro scambi sessuali si erano ormai ridotti a rare occasioni, per lo più quando lui era completamente sbronzo, ma avevano perso quella delicatezza e dolcezza dei loro primi anni; sembrava quasi che lui le scaricasse contro tutta la sua rabbia e che , più che scoparla, volesse ucciderla. Non c’era nulla di peggio dell’alcol per affondare sempre di più in quella melma olezzosa che era diventata la loro vita. Linda non riusciva mai a capire in che stato si trovava suo marito, se era in un momento buono e aperto al dialogo o se era uno degli altri “momenti”, e allora stava zitta. Lui non aveva mai alzato le mani, anche se aveva avuto esplosioni di aggressività, veri sequestri emozionali che lo facevano sembrare più simile ad una belva idrofoba che ad un essere umano. In una di queste esplosioni aveva demolito il televisore del salotto scagliandolo contro il muro, che ancora ne portava i segni. Linda era rimasta in silenzio anche quella volta.
Poi ci fu la storia del bambino e a quel punto non stette zitta e tirò fuori tutta la sua rabbia contro di lui. Successe che una mattina Linda si svegliò e s’accorse di avere trentacinque anni e di essere prossima a passare quella fascia d’età in cui una donna diventa madre; concluse che la colpa era sua.
“Io voglio avere un bambino, Gianni, e se tu non sarai capace di riportare un po’ di normalità in questa famiglia, giuro che me ne vado!” le aveva detto quella sera, con occhi così seri da ghiacciargli il cuore. E se ne sarebbe andata davvero, se non fosse stato che quella sua reazione così decisa provocò effetti di miglioramento sugli atteggiamenti di suo marito. E fu così che finì quel terribile periodo.
Provarono e riprovarono in tutti i modi ad avere un figlio, ma non arrivò mai. Un anno dopo quella terribile sera in cui mai il loro rapporto era stato così vicino alla disfatta, Linda scoprì di essere incinta e per qualche mese quella casa fu illuminata da una luce idilliaca. Poi però sorsero delle complicazioni e Linda perse il bambino innescando così il secondo periodo buio della loro storia insieme, ma stavolta erano in due a farsi forza l’un l’altro e non ognuno per conto suo come nella volta precedente. Il periodo passò, ma da quel giorno in cui Linda aveva realizzato che non sarebbe mai diventata mamma una luce strana era rimasta nei suoi occhi, come una traccia indelebile, uno strascico di dolore che non se ne sarebbe andato mai più.
Povera, dolce Linda.
Una donna che aveva scoperto il dolore troppo presto, quando ancora i suoi seni non erano completamente formati e aveva gambette scarne che a malapena la reggevano in piedi. Aveva perso suo padre all’età di quindici anni, un incidente nel cantiere dove lavorava come muratore. Era caduto da un’impalcatura e si era spaccato l’osso del collo. Linda era cresciuta con la madre ed era diventata donna precocemente rispetto alle sue coetanee. Sapeva il significato del dolore e aveva abbastanza attributi per affrontarlo; avrebbe superato anche quest’ultima difficoltà.

Gianni socchiuse la porta con dolcezza e si diresse verso il salotto.
Non beveva più come un tempo, ma quella era una serata anomala e non disdegnava l’idea di una rimpatriata nel paese della sbornia.
Non aveva avuto altri vizi se non quello del fumo e forse era quella la causa di tutto quel casino, anche se il dottore aveva parlato di una difettosità cellulare, più che di un cancro da fumatore.
Gianni decise che avrebbe cominciato la serata con una birra. Aprì il portello del frigorifero ed estrasse una lattina gelata da mezzo litro di bionda doppio malto. Quando la aprì un ricciolo di schiuma si gonfiò sopra l’apertura. Ne bevve una sorsata e si andò a sistemare sul divano.
La voce della Tv arrivò prima che il quadro si illuminasse di immagini e Gianni si arrabattò a cercare il telecomando per abbassare il volume; non voleva svegliarla. Iniziò a far scorrere i canali ad un ritmo psichedelico. Era passata la mezzanotte e decise che avrebbe guardato qualche spogliarello sexy di una rete privata.
Anche quello era un tacito accordo della loro vita matrimoniale. Erano stati sempre fedeli l’uno all’altra e quella dei programmi della notte era l’unica trasgressione che Gianni si concedeva, forse più come valvola di sfogo che altro. Non che li guardasse con particolare interesse, ma ogni tanto gli piaceva farsi una birra davanti ad un paio di chiappe ondeggianti intorno ad un palo. Sapeva che Linda era a conoscenza di questo suo piccolo vizio; lo aveva anche beccato qualche volta, spuntando all’improvviso dal buio del corridoio, ma non gli aveva mai detto niente, se non qualche battuta tipo: “Siamo rimasti svegli fino a tardi questa notte!” detta con un sorrisetto complice e sardonico al tempo stesso. Era una di quelle piccole cose che dava linfa al matrimonio. Un piccolo angolo segreto che ognuno di loro coltivava all’oscuro dell’altro, un’oasi dove prendere una boccata d’aria ogni tanto per poi reimmergersi nelle profondità della convivenza. Non che vivere insieme non fosse piacevole e nemmeno una costrizione che toglieva la libertà, ma era bello per ciascuno di loro coltivare un proprio orticello, anche solo per fare qualcosa che non fosse “per noi”, com’era stato per molte altre cose dal giorno in cui si erano scambiati le fedi nuziali. Quel mobiletto lo compriamo per il “nostro” soggiorno, la “nostra” cucina, eccetera eccetera. Ebbene, quel paio di chiappe alla Tv erano sue, sue e di nessun altro, come lo era il piccolo rito della birra da solo in salotto, mentre lei dormiva. Ed era convinto che anche Linda avesse il suo angolo speciale, ma non era completamente a conoscenza di che cosa vi coltivasse ed era questo fatto a dare linfa al loro matrimonio; quell’angolo sconosciuto tra due persone che si conoscono ormai a memoria.
Naturalmente era ancora innamorato di sua moglie. Certo, non aveva più vent’anni e il suo seno cominciava ad arrendersi alla forza di gravità, ma l’amava come la prima volta che si erano incontrati e per questo sarebbe stato così difficile separarsene.
Si erano incontrati a casa di un loro amico comune, durante la diretta di una partita di calcio. Lui era venuto con la sua banda di amici motociclisti e birraioli, lei con la sua compagnia mista di ragazzi e ragazze che frequentavano lo stesso istituto scolastico. Avevano parlato, avevano riso (lui ci sapeva fare con le donne, almeno una volta era così) ed era finita che si erano dati appuntamento per il Sabato successivo. Inizialmente si erano frequentati con le rispettive compagnie al seguito, poi avevano cominciato a vedersi da soli e così sarebbe stato fino a quella notte.
Al principio non fu facile per Gianni entrare nelle grazie della madre di Linda, inacidita da una vita troppo dura ed estremamente protettiva nei confronti dell’unica figlia e dell’unica persona che portasse il cognome di suo marito. Man mano che passava il tempo, però, lui era maturato e la madre di Linda aveva cominciato ad affezionarsi, a considerarlo uno della famiglia se non addirittura “l’uomo di casa”. Gli preparava sempre il suo piatto preferito quando tornava dal lavoro e gli faceva sempre trovare una birra fresca nel frigorifero, in tempi in cui l’attaccamento alla bottiglia era ancora una faccenda lontana a venire.
Avevano poi trovato la loro casa, a pochi passi dal centro, ma già abbastanza in periferia da non dover passare ore ed ore nel traffico per rincasare. Poi si erano sposati e se fossero vissuti in una fiaba, questo sarebbe stato il finale, ma la vita è ben altra faccenda, brutta come una macchia scura e informe nell’azzurro di una radiografia.


Id: 367 Data: 04/05/2009 13:25:23