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È freddo. Stringo più forte la cintura dell’impermeabile e spingo la sciarpa fin sopra la bocca. Nel sottopassaggio l’eco delle ruote del trolley stride al contatto con i resti di spazzatura abbandonata. Ho deciso di partire all’alba. L’alba è da tempo mia amica: cancella la notte rubandole il buio dove tutto si nasconde o si palesa all’improvviso.
Sul binario il freddo è ancora più tagliente.
Le panchine sono deformate, puntiformi. Resto in piedi. La rugiada ricopre ogni cosa, anche le rotaie. Seguo il volo di una farfalla e fermo il mio sguardo sul cartellone degli arrivi: posata sulla A continua a sbattere le ali e resta ferma. Una voce lontana annuncia il mio treno. L’alito attraversa la sciarpa e mi appanna gli occhiali. Prendo dalla tasca destra un fazzoletto di carta e pulisco le lenti. Le sue ali sono blu con venature nere sottilissime. La terra sotto i miei piedi vibra. Lo stridio sul ferro è più tagliente del freddo. Provo a contare i battiti delle sue ali, arrivo a sessanta e mi fermo. Quel movimento è più veloce del mio pensiero. Il terreno vibra di nuovo. Chiudo gli occhi. Li riapro. Lei non c’è più.
Quel treno non lo vidi, ma potei fotografarlo nel ricordo.
Sul tram ascolto “Babe I’m gonna leave you” dei Led Zeppelin e penso che il treno lo prenderò d’estate.
Il freddo è troppo ingombrante per partire.
Arrivo a casa e disfaccio la valigia. Rimetto ogni cosa al proprio posto: i vestiti nell’armadio, le scarpe sullo scaffale nello stanzino, la fotografia di noi due in montagna sul comò. In estate la lascerò lì. Voglio che resti a lui l’unica foto di un mio sorriso. Odio la montagna.
Ecco: è tutto in ordine. Non si sarebbe accorto di niente. Non avrebbe mai saputo che quegli oggetti sparirono quella notte quando comparse la malinconia. A lui basterà quella foto sul comò per ricordare che sono capace di ridere. Per questo gliela lascerò la prossima volta. I ricordi sono importanti.
A me basta la fotografia del treno che non ho preso questa mattina. Sullo sfondo un’alba struggente di passi e di echi.
L’acqua bollente nella doccia non riesce a sciacquare il freddo che mi si è appiccicato alle ossa. Dentro a quel vapore tasto il mio corpo alla ricerca di un documento dimenticato dentro le tasche di un cappotto in disuso. Batto più forte per liberarlo dalla polvere che vi si è accumulata negli anni nonostante l’involucro di plastica messo a sua protezione.
La manica dell’accappatoio s’inumidisce e nel piccolo cerchio sullo specchio appare la mia faccia: una fototessera sbiadita che è spazzata via dall’aria calda del phon.
Mi metto a cucinare: risotto con scampi e asparagi. Giorgio ama i risotti. Mi aveva chiamato dicendo che riusciva a essere a casa per pranzo; il viaggio era andato bene: aveva concluso l’affare con quelli di Milano. Fa l’agente immobiliare “in grande”, come dice lui. È contento di quello che fa. A me non piace il suo lavoro; ottenere il margine di guadagno migliore mi sembra una frase ambigua: contiene la volontà di superare quello giusto. Io che mi sento sempre in bilico non posso giocare coi margini.
Tre anni fa quando l’ho visto entrare nel bar l’avevo travato bello.
Sì. Giorgio è bello: è alto e le sue spalle sono forti.
Aveva cominciato a venire ogni mattina e sapevo di piacergli. Mi dava sicurezza quel suo essere così vincente. La stessa cosa che adesso mi è insopportabile. Lui non ha colpe. Non ha mentito. Sono io la bugiarda. Ho accettato questa convivenza sapendo che me ne sarei andata. Un giorno. All’alba.
Quando arriverà e mi racconterà dei suoi successi dovrò cercare di restare in equilibrio. Non posso cadere ora. Fa troppo freddo.
Verso un mestolo di brodo e mescolo il riso con il cucchiaio di legno, osservo gli asparagi galleggiare. Ricordo quando da bambina volevo imparare a fare il morto: mio padre mi sorreggeva la schiena sotto l’acqua, contava fino a sessanta poi mi mollava. Io andavo giù e il sale mi entrava nella gola. “Papà tienimi di più”, urlavo quando riemergevo e sputavo per togliermi dalla bocca quel sapore orribile. “No, un minuto è sufficiente per imparare a fare una cosa così stupida”, rispondeva lui.
Non ho mai imparato a stare a galla.
Il riso è pronto, lo assaggio. Aggiungo un pizzico di sale. Lo dimentico sempre.
Lui entra nel momento in cui poso la teglia al centro del tavolo.
– Ciao amore, poso la valigia e arrivo subito – dice, e mi lancia un bacio con la mano.
Verso il riso nei piatti e mi siedo.
– Come stai, ti vedo stanca – si siede.
-Non ho dormito bene stanotte- rispondo, mentre mi mordicchio il polpastrello del mignolo sinistro.
– Ti mancavo io accanto, Asia – dice, mi sfiora la mano, io la scosto e lui continua: – Ho deciso che quest’estate andremo a Selva di Val Gardena. Tu ami la montagna ed io amo farti felice. Ho già prenotato l’albergo. –
– Scusa, c’era poco sale nel risotto- farfuglio, e mi chino per raccogliere il mestolo che ho fatto cadere sul pavimento.
– È un posto incantevole. Ti piacerà- mi guarda e si accende una sigaretta.
Mi alzo e getto il mestolo nel lavandino. Prendo il posacenere e lo poso al centro del tavolo.
– Non hai mangiato niente – mi rimprovera e versa la cenere dentro il piatto.
Mio padre faceva la stessa cosa e mia madre si arrabbiava.
Mi siedo, accendo una sigaretta e mi avvicino il posacenere. È di ferro e vecchio. Era di mio nonno. Una mattina mi ero svegliata e avevo trovato la tavola ancora apparecchiata, un piatto era colmo di cicche e quel posacenere era nel centro, vuoto. Ricordo che andai di corsa in camera dei miei: la finestra era spalancata, mio padre era sdraiato sul letto a petto nudo e fumava, non mi guardò nemmeno, la sua voce mi arrivò da lontano: “ Tua madre se n’è andata. Per sempre.” Restai per un po’ immobile a guardare il fumo baluginare nell’aria, poi chiusi la porta, andai in cucina e cominciai a sparecchiare. Faticai a staccare quei mozziconi dal piatto. All’improvviso mi diressi nello stanzino e cercai la sua valigia. Non c’era. Bene. Non era morta. Se ne era solo andata. Sapevo che sarebbe accaduto. Aveva resistito dodici anni. Pensai che dodici anni fossero tanti visto che erano tutta la mia vita. Mi sentii male, mi vennero i crampi allo stomaco, faceva un caldo tremendo quell’estate. Finii di pulire il tavolo e misi il posacenere nel mio zaino. Decisi che se un giorno avessi cominciato a fumare lo avrei usato, sempre.
– Asia, ti senti ancora male?- la voce di Giorgio mi arrivò da lontano.
– Non ho fame. Domani torno al lavoro.-
– Allora vengo a fare colazione da te. I tuoi cappuccini sono i migliori di Torino- dice, si alza e si butta sul divano.
Carico la lavastoviglie. Il mestolo è rimasto nel lavandino. Prendo la spugna e apro il rubinetto. Devo grattare forte per togliergli da dosso il riso che vi è rimasto appiccicato.
– Giorgio, come si chiama?- chiedo mentre stacco gli ultimi chicchi con le unghie.
-Cosa?-
– L’albergo.-
– Augenblick. Significa “attimo” in tedesco. –
– Anche “battito d’ali”- lo dico a bassa voce, sorpresa dalla coincidenza.
Mi volto, Giorgio si è addormentato. Mi siedo e lo guardo. Vengo sopraffatta da un’improvvisa tenerezza per quel corpo familiare abbandonato sul divano; la stessa che nella notte si sarebbe sciolta in malinconia. Si presentava con il buio, mi assaliva alle spalle e mi torturava fino a prosciugarmi ogni energia. All’alba spariva, ma lasciava le ferite a testimonianza. Invisibili agli occhi di Giorgio.
Guardo la sua faccia. È capace di addormentarsi in un minuto, appena la sua testa tocca il divano o il cuscino. È spiazzante la sua serenità: fa vacillare il filo sul quale mi esercito di giorno a restare in piedi.
“Augenblick”, non esiste una parola corrispondente in italiano.
È più un’immagine in movimento.
Come il treno che non ho visto, ma conosco.
Mia madre che fa la valigia al buio per sparire all’alba.
Il biglietto sotto al posacenere con quella frase “ Perdonami Asia. Forse un giorno capirai. Non posso più restare. Ti voglio bene.”
Sì.
L’estate è il tempo giusto, per partire.