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Salivo gli scalini scuri che portavano al primo piano della palazzina chiara. La 4^ Compagnia, la mia, si trovava sul lato destro del fabbricato.
Un odore misto di umanità, deodorante economico ed olio motore permeava l’aria.
Al termine della prima rampa di scale, un ampio ingresso faceva intravedere una grande stanza, divisa in più ambienti da muretti bassi; una sessantina di letti a castello in ferro nero; “cubi” ordinati ed armadietti metallici grigi.
Giganteschi finestroni occupavano la maggior parte della parete che prospettava sulla piazza d’armi; tende scure e massicce erano legate ai lati delle vetrate.
Prima della camerata, due locali.
Nella prima un paio di militari si muovevano intorno al mobile dattilo sormontato da una vecchia Olivetti 92.
Appena entrato, scattarono sull’attenti.
Un caporale mi chiese se dovesse accompagnarmi dal Comandante.
Dalla stanza vicina, eruppero urla leonine; la porta si aprì ed un sergente uscì precipitosamente inseguito da un posacenere in metallo!
Dietro la scrivania scura intravidi il Comandante, il ten. Paolo Maria Salladini.
Il grigioverde della divisa da combattimento contrastava con il rubizzo colore del viso; baffi e “pizzo” nerissimi correvano intorno alla bocca ed al mento; scuri capelli corti facevano da contraltare agli occhi chiari che lanciavano fulmini e saette all’inseguimento del malcapitato.
Mi accostai alla porta e, titubante, chiesi permesso.
“Che cazzo aspetta? Entri e chiuda la porta.”
Mentre mi irrigidivo sull’attenti, pensai che anche in quella caserma le “belle parole”, sebbene accompagnate dal “lei”, sarebbero state la costante della giornata.
“Sottotenente carrista Amedeo Cappella, assegnato al 7° Battaglione carri, 4^ compagnia. Comandi.”
La formuletta che tante volte avevo ripetuto durante il viaggio uscì tremolante e appena percettibile dalla mia bocca.
“Che cazzo dice; urli, lei è un ufficiale carrista, non una signorina!”
Cominciava proprio bene!
Ripetei le parole cercando di cacciare più fiato possibile.
Il ten. Salladini parve contentarsi di questa mia nuova esibizione; la poltroncina girevole cigolò; la tensione del viso si stemperò; la smorfia di rabbia che aveva alterato i lineamenti della bocca si tramutò in un sorriso.
“Siedi. Ora non ci possono sentire. Benvenuto in 4^ compagnia.”
Probabilmente lo stupore che si stampò sul mio viso per questo repentino ed inaspettato cambio di tono di voce ed atteggiamento, fece sorridere il Comandante che ebbe la sollecitudine di spiegarmi: “Sai, il Comandante deve essere sempre duro con i suoi sottoposti, sia che siano militari che ufficiali o sottufficiali. E per la truppa deve essere sempre chiaro ed evidente che chi la comanda è il Signore. Adeguati subito a questo principio se vuoi campare qui. Ricorda che la truppa, se ti può fregare lo fa; solo il terrore che riesci ad incutere ti può salvare. Urla e punisci e sarai rispettato; fatti vedere debole e docile e ti metteranno i piedi sopra. Se questo si verificherà, pagherai tu per tutti.”
Il discorsetto non mi andò giù.
Risposi che, secondo me, il terrore non genera rispetto ed essendo abituato a discutere con la gente, e a cercare di capire, non sarei riuscito a modificare il mio modo di pensare e di agire; avrei provato a “comandare” senza urlare. Salladini con occhi pungenti mi ricordò quello che aveva appena finito di dire: “A me interessano i risultati, se non ci saranno sarai solo tu a pagare!”
Mi resi conto che, tanto per cambiare, mi ero messo in un bel casino: i militari mi avrebbero visto come il solito sottotenente fighetto che per evitare la naja aveva trovato il modo per passare alcuni mesi lavorando meno, comandando e con uno stipendio. Probabilmente, avrebbero tentato di farmela pagare; il Comandante mi aspettava al varco e qualsiasi, anche minimo, errore sarebbe stato ingigantito e sarebbe servito a sottolineare che aveva ragione lui.
Rimuginando questi concetti che mi facevano sudare freddo, mi affidai ad un militare della compagnia per raggiungere gli hangar.
Lucenti carri armati mostravano tutta la loro potenza sotto il capannone.
Tante formiche correvano impazzite attorno a quei bestioni.
I meccanici con le loro enormi chiavi inglesi gridavano per farsi assecondare presto e bene dai militari. C’era chi portava attrezzi, chi ingrassava e strofinava l’esterno del carro, chi puliva con enormi scovoli l’incredibile cannone che fuoriusciva per oltre tre metri dalla torretta.
Nei mesi a seguire avrei vissuto la maggior parte della mia quotidianità nell’hangar a contatto con i mostri di ferro, con le loro necessità, immerso in olio, grasso e gasolio, tanto che per un bel po’ di tempo dopo il congedo la mia pelle continuò ad avere un tenace odore di officina.
Dopo le attività, tornai nella mia camera. Avevo programmato la mia serata: doccia, cena e subito a nanna.
Erano ventiquattr’ore che non dormivo: stanchezza e tensione si facevano sentire.
La cena mi parve particolarmente gustosa.
Insieme ad Umberto e a Lamberto, appena arrivati come me, entrai nel bar per qualche minuto di relax prima di andare a dormire.
Non vedevo l’ora di mettermi sotto le coperte.
Mentre ci raccontavamo le prime esperienze nei nostri rispettivi reparti, il ten. Gustato, ufficiale anziano in servizio, si avvicinò e, senza mezzi termini, ordinò di prepararci ad uscire.
Un’ondata di terrore mi colpì lo stomaco; l’incubo che pensavo di aver evitato durante il giorno si propose all’inizio della notte.
Non sapevo quello che ci aspettava e non volevo neanche pensarci. Gustato, i s.ten Stranges, Milella, Bedini, i s.ten medici Torre e Ceci, i ten. Andreani e Bizzarri ci aspettavano fuori della palazzina, davanti a due jeep.
Ci fecero salire all’interno di una, intruppati con quattro di loro e si partì. Non vedevo niente. I finestrini anteriori erano completamente coperti, ad arte, dalle teste e dalle spalle dei nostri accompagnatori.
Il viaggio fu lungo, oltre mezz’ora, tra sobbalzi, accelerazioni e frenate improvvise, salite, discese, curve e retromarce inspiegabili.
Il mio stomaco si lamentava, ma la tensione era tanta e cercavo solo di immaginare il “dove” ci stavano portando ed il “quando” saremmo arrivati.
Finalmente la jeep, con uno stridio di freni, si fermò repentinamente.
Il veicolo era fermo in salita e coricato su un fianco.
Bedini alzò il telo che chiudeva il posteriore e ci fece scendere.
Una notte nera come non ne avevo mai visto ci accolse nel suo ventre.
Ci trovavamo su una collinetta terrosa.
In lontananza scorgevo un lumicino rosso, in alto, e, in basso, alcune fioche luci, probabilmente case.
Il ten. Gustato ci gelò: “Vi aspettiamo domani per l’alzabandiera. Auguri.”
Risalirono tutti velocemente sui fuoristrada e filarono via, alzando polvere e sassi, senza che potessimo dire qualcosa, che un indizio colto dalle loro parole ci potesse dare una speranza di trovare la strada di ritorno che nemmeno potevamo immaginare, vista la nostra assoluta ignoranza dei luoghi.
Questa non ce la saremmo mai aspettati: avevamo una notte per trovarla e tornare in caserma.
Se l’indomani all’appello fossimo stati assenti, sarebbero stati guai grossi: proprio un bell’inizio.
Erano le 20.45.
Ci guardammo intorno e cercammo di applicare quanto ci avevano insegnato durante il corso nelle lezioni di orientamento, ma non avevamo alcun punto di riferimento e decidemmo di affidarci al ... culo.
Umberto indicò una direzione che lo ispirava particolarmente.
Io ero dell’avviso contrario.
A Lamberto sembrava di ricordare il lampione che si intravedeva in lontananza.
Cominciammo a camminare sulla direttrice suggerita dal nostro amico bolognese.
I miei occhi, minuto dopo minuto, si abituarono alla scura notte friulana. Intravedevo montarozzi sassosi, campi, più o meno coltivati, ma nessuna strada, nemmeno una luce in movimento. Mentre parlavamo tra di noi, uno spaventoso svolazzare di ali ci fece sobbalzare: un grosso gufo si era alzato in volo, disturbato dalla nostra presenza e dalle nostre chiacchiere.
Avere le sue pupille!
Erano le 22.00 e ci trovavamo ancora tra sassi e campi alla disperata ricerca di una via per uscire da quel labirinto senza fondo.
Improvvisamente, dopo un’altra buona mezz’ora di cammino e di imprecazioni, due fari veloci in lontananza bucarono la notte e la nostra inquietudine.
Velocemente, per quello che ci concedeva il terreno, raggiungemmo la strada.
Erano quasi le 23.00 e non si vedeva più nessuna automobile.
A quel punto, seppure raggiunta la strada, rimaneva ancora il dubbio su quale fosse la direzione per Vivaro, dove si trovava la caserma.
Ricordavo dei piloni dell’alta tensione nelle vicinanze della caserma e le lucette rosse che si scorgevano lontano ci spinsero in quella direzione.
Ci incamminammo rinfrancati e speranzosi, quantomeno, di raggiungere la caserma prima dell’alba. Ci veniva da ridere, la tensione si era smorzata e quelle lucine rappresentavano il nostro desiderato faro. Nessun veicolo allietò il nostro peregrinare.
Dopo un bel po’, finalmente, una casa sbucò dal buio.
Era una palazzina a due piani, circondata da un pergolato e da un ben curato giardino in cui si intravedevano piccole siepi di rose.
A pochi metri, lateralmente, vi era una grossa rimessa.
Un’auto era parcheggiata davanti al portone d’ingresso illuminato.
La tarda ora e la probabile attività contadina dei proprietari ci facevano dubitare che qualcuno fosse ancora in piedi a quell’ora.
Dalle imposte non trapelava alcuno spiraglio di luce.
“Suoniamo il campanello e chiediamo aiuto” disse Umberto.
“Ma sei pazzo, se si svegliano questi ci sparano a quest’ora di notte” risposi.
Umberto insistette.
Lamberto tergiversò.
Umberto si avvicinò alla porta, accompagnato dai nostri “aspetta”, “che fai”, “mo’ chiamano i carabinieri”, e appoggiò il suo dito al campanello.
Nella notte quieta, quel “driiiiin” perentorio risuonò come un colpo di mitra.
Eravamo pronti a darcela a gambe, ma senza un rumore, la porta si aprì e qualcuno si affacciò.
“Cosa volete?” ci urlò in faccia un energumeno con grossi e spessi baffi neri color notte e due occhi di brace.
Si vedeva lontano un miglio che era avvezzo a trattare con trattori e mezzi agricoli, con mucche e maiali e che aveva un sonno da morire. “Ci scusi per l’ora, ma dobbiamo tornare a Vivaro e vorremmo sapere se ci siamo quasi.”
La timida domanda di Umberto si infranse contro una risata cavernosa.
“Qui siamo a San Quirino; Vivaro è a venti chilometri, dall’altra parte. Avete sbagliato strada.”
Le gambe mi si piegarono.
Quei disgraziati si erano proprio divertiti: venti chilometri a piedi significavano quattro-cinque ore di cammino, come minimo. L’omaccione guardò i nostri visi disorientati, riprese a ridere e, probabilmente impietosito dal nostro aspetto disperato, ci resuscitò “Vi accompagno io con la macchina. Salite.”
L’avrei baciato.
L’auto correva veloce nella direzione contraria a quella in cui ci eravamo diretti: alla faccia dell’“orientamento”!
L’orco buono ci raccontò che spesso gli toccava accompagnare giovani e sprovveduti ufficiali abbandonati nelle campagne di San Quirino.
D’altra parte era un pegno che i novizi dovevano pagare agli anziani, anche se alla fine, pensavo, la scocciatura più gravosa era la sua che non c’entrava niente e che aveva l’unica colpa di vivere a ridosso di zona militare.
La mezzanotte era passata da trenta minuti, quando, ringraziando infinitamente il nostro salvatore, entrammo a Vivaro.
Chiesi se era possibile lasciarci qualche centinaio di metri prima della caserma.
Agli interrogativi dei miei compagni di viaggio, risposi che tanto valeva fare un po’ i furbi e raccontare di aver trovato immediatamente la strada, correndo per tornare in un paio d’ore.
Lasciammo il nostro buon samaritano e, dopo qualche minuto, suonammo al cancello della caserma.
Bedini, di servizio, strabuzzò gli occhi e rimase senza parole. Aprì i pesanti battenti in ferro e ci chiese come era possibile che fossimo già “a casa”.
“I nuovi ufficiali so’ tosti, Bedì!” gli risposi e andammo, finalmente,
a letto.