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Mattia e il mare
La pioggia era uno spettacolo inenarrabile. Mattia passava intere giornate ad osservare l’intermittenza dell’uragano che si abbatteva oltre la grande finestra proprio dinnanzi a lui. Il respiro che andava irrimediabilmente ad annebbiare il vetro non era un reale problema. Un colpo di manica ripuliva la visuale e lo spettacolo poteva continuare. La pioggia, il vento che ululava ed il mare. Erano per Mattia gli attori di uno spettacolo senza rivali. I protagonisti dell’opera d’arte che ogni giorno, specie d’inverno, veniva riproposta agli occhi di coloro che sapevano guardare un po’ oltre l’immediato. A quelli che usavano il cuore per vedere e apprezzare la realtà circostante.
Mattia avrebbe desiderato spingersi oltre la grande finestra dalla quale guardava con avidità tutte le onde del mare. Ma le sue gambe di ferro non glielo avrebbero concesso. Le stampelle, diventate ormai fedeli compagne di viaggio, non consentivano a Mattia di percorre grandi distanze e neppure di arrampicarsi su pericolanti scale arrugginite. Né su rocce appuntite che calavano a picco sul mare. Mattia aveva iniziato a convivere con quella situazione anche perché, come sempre succede a tutti coloro che hanno una mancanza di possibilità fisiche, aveva iniziato a sviluppare altri sensi. Come ad esempio la fantasia. Quella si che funzionava! Era una macchina eccezionale; di quelle che non si arrestavano mai, neppure durante la notte. Mattia immaginava e pensava; e pur se quei pensieri lo rendevano felice non aveva il coraggio di comunicarli a nessuno perché troppo irrealizzabili. Quel giorno Mattia si svegliò triste. I sogni quella notte non avevano funzionato e lui si era visto proiettata addosso la realtà così come era davvero: un bambino con le gambe malate destinato ad essere un uomo a metà. Tra l’altro quello era il giorno in cui avrebbe fatto il suo esordio a casa di Mattia il nuovo medico che, secondo la zia, rappresentava una sorta di uomo della provvidenza. Apparteneva ad un’equipe di medici super specializzati proprio in ciò di cui aveva bisogno il piccolo invalido. Faceva parte di una prestigiosa squadra di santoni della medicina che aggiustavano tutto ciò che toccavano. Né Mattia, né sua madre erano in realtà molto convinti della sponsorizzazione che la zia faceva del nuovo medico. In fondo - pensavano entrambi - “il vecchio medico non è riuscito a fare nulla. Che cosa può avere di speciale questo medico per riuscire in un’impresa disperata?” Pur se la mamma faceva di tutto per nascondere a Mattia questo inquietante pensiero, lo sguardo di Mattia scavava i suoi occhi e lo andava a snidare la in fondo dove la mamma pensava di serbare il segreto. Appena lei se ne accorgeva, non riuscendo a nascondere l’imbarazzo, inventava sempre una scusa diversa per fuggire lo sguardo dell’intelligente bambino. La preparazione dell’appuntamento era quella delle grandi occasioni. Il completo nuovo con il numero “46” in perfetti colori giallo e blu tradiva l’apprensione generale. Colazione abbondante per essere in forma e poi invito ad accomodarsi sul divano in attesa del nuovo dottore. Il tanto atteso mago della medicina. L’umore di Mattia non favoriva la gentilezza; cosa tanto raccomandata dalla zia che si affacciava con fare ansioso alla finestra generalmente occupata da Mattia. La fantasia del piccolo malato, man mano che l’attesa cresceva, iniziava a riprendersi i suoi spazi. “Chissà come sarà questo famoso medico che opera miracoli?” era la domanda che rimbalzava impertinente nella mente di Mattia. “ e poi che nome avrà?”. Improvvisamente scivolò dalle sue labbra una domanda che interruppe tutti i pensieri “zia … come si chiama il dottore?” . “ E’ l’equipe del DOTTOR. Tiraboschi” – rispose la zia con la fierezza di chi sa di avere fatto l’alleanza giusta, e poi riprese “ ma di certo non verrà proprio lui, manderà qualche suo fidato, e altrettanto preparato, collaboratore”. Chiunque avesse fatto irruzione da quella porta, da lì a pochi minuti, non avrebbe richiamato la simpatia del piccolo paziente. Sul volto di Mattia si leggeva la disapprovazione per l’iniziativa della zia e il suo disagio culminò in una secca affermazione rivolta a tutti coloro che si stavano preoccupando di lui senza comunicargli anzitempo le mosse effettuate “sarà un vecchio medico. Gobbo, coi baffi, antipatico e scorbutico. Poi mi chiederà di muovere le gambe, come fanno tutti. Io non riuscirò, lui si arrabbierà e andrà via dicendo come gli altri “ il ragazzo non collabora e non ha margini di miglioramento”. E finalmente capirete che dovete lasciarmi in pace”. La sala in cui si trovavano Mattia, la mamma, la zia ed il vecchio nonno si fece densa di silenzio. Alcune lacrime si spinsero fino alla soglia degli occhi della mamma ma il loro tuffo sul volto giovane e scavato della donna venne neutralizzato da un robusto suono di campanello. “E’ arrivato. Il dottore è arrivato. Mi raccomando, Mattia fai il buono. Non ci far fare cattive figure. E poi sai che i medici di equipe così prestigiose non hanno tempo da perdere. Se vedono che non collabori se ne vanno all’istante”. Tuonò la zia! Un bagliore di speranza camuffò di gioia il volto di Mattia. Era esattamente il suo piano. Fare in modo che il nuovo medico se ne andasse nel minore tempo possibile. “Prego si accomodi” esclamò la zia facendo scivolare la voce dalla tromba delle scale. Mattia non capiva ciò che stava accadendo sul pianerottolo. Non sentiva quel solito civettare – a suo avviso falso e di circostanza della zia verso il medico - che aveva l’intento di coprirlo di complimenti infondati col solo obiettivo di ottenere prestazioni attente e parcelle scarne. Mattia fu incuriosito dal silenzio insolito della zia e dalla assenza dell’atteso vocione roco e grave del nuovo medico baffuto. Colse invece la voce di una donna – giovane probabilmente -. L’udito di Mattia rimbalzò immagini immediate alla sua testolina in continua evoluzione. “sarà una dottoressa. Una di quelle zitelle antipatiche camuffata da persona gentile”. Immediatamente dopo il “prego si accomodi” pronunciato dalla zia con un tono che tradiva delusione e sconforto, lo sguardo di Mattia fu immediatamente inondato dal viso colmo di luce di una dottoressa assolutamente distante dall’immaginario collettivo di Mattia e dei suoi parenti. I capelli che superavano di poco le spalle e la frangia che, partendo da sinistra attraversava la fronte liscia e cadeva a picco sull’occhio destro, il naso modellato e raccolto in lineamenti morbidi e lo sguardo vivo. Il tutto colorato di un marroncino chiaro tendente al biondo. Sia occhi che capelli. Il colore del volto era riempito di una carnagione tenera, giovane e chiara ma non scolorita. L’età non era possibile decifrarla. “dimostra poco più di venti anni” – pensò la zia in modo così evidente da cogliere quasi il suono metallico dei suoi delusi pensieri. “ma – continuò a pensare la mamma – se lavora per una equipe così affermata sarà una quarantenne che si è mantenuta bene”. “ci hanno mandato l’ultima arrivata” – bisbigliò nervosamente la zia che, per lo sconforto, aveva lasciato cadere, in modo gentile, il peso del suo corpo sulla sponda del divano sul quale era stato parcheggiato Mattia. L’unico che non azzardò pensieri fu il nonno. Neppure cambiò mai posizione se non per stringere la mano alla dottoressa Corelli nel momento esatto in cui varcò la soglia di casa. Lui aveva l’atteggiamento di sapere esattamente ciò che stava accadendo. Sul suo volto c’era stampata a caratteri cubitali la serenità di chi sa in che modo evolverà la situazione apparentemente intricata o quantomeno imbarazzante. Il nonno era appollaiato sulla vecchia sedia a ridosso della porta di ingresso col gomito sinistro appoggiato al bastone. Lui non si rassegava all’idea di vedere Mattia infelice e – quasi per una scommessa con se stesso o per una forma di illusa consolazione – sperava di fare riaffiorare sul volto del piccolo la luce di un tempo.
“E’ lui il nostro paziente speciale?” sentì chiamarsi in causa Mattia. Quasi per sfida girò velocemente lo sguardo verso la dottoressa Corelli che, nel frattempo, aveva posato il suo sul volto di Mattia in attesa che lui rialzasse il capo. Il movimento del collo di Mattia fu breve e, non appena i suoi occhi ritrovarono la posizione consueta, si sentì percorso da un brivido. Fu quella la prima volta in cui gli occhi di Mattia e della dottoressa Corelli si incrociarono. Gli occhi si liberarono immediatamente di tutto l’astio e lo sconforto che lo avevano gravato negli ultimi mesi. Lo sguardo e il cuore di Mattia furono travolti da un’ondata di freschezza inspiegabile che lo riportarono ai momenti in cui passava ore intere ad osservare il volteggiare di onde e gabbiani e a seguire la fuga di gocce che si infrangevano contro gli scogli levigati dal tempo e dalla furia del mare. In quel momento provò la stessa sensazione di libertà e di pace. Qualcosa in sé ritrovava il suo posto. “bene, bene, bene” esordì la dottoressa. “mi avevano detto che eri un tipo speciale ma non avrei mai immaginato che tu fossi anche così bello e così bravo” Mattia arrossì immediatamente ma questo non fermò l’esordio travolgente della dottoressa Corelli “ e poi mi hanno detto che ami il mare ma non credevo fino a questo punto. Vedi Mattia, la mia segretaria è un po’ sbadata. Tante volte si dimentica di segnare tutte le note dei pazienti e poi io mi trovo in difficoltà” “Gli occhi di Mattia già aperti e svegli si sgranarono e tradirono un pensiero che prese suono nell’attimo stesso in cui rimbalzò nel cervello “ e lei come sa che amo il mare?” “si vede dagli occhi. Nei tuoi occhi si coglie la libertà. E’ lei che tiene vivi i tuoi occhi. Siccome il mare è la massima espressione della libertà, ho dedotto che sei un grande amante del mare” E riprese abbozzando un sorriso “ Ma è vero o non è vero?”. Il suo volto nel frattempo depose definitivamente l’espressione del medico e assunse quelli dell’amica. “Si” rispose Mattia. Intanto lo sguardo della dottoressa planò con discrezione sulle gambe esili di Mattia e poi girò il suo volto sulla folla di parenti alle sue spalle e propose con autorevolezza “potrei rimanere sola col paziente?”. Lo scambio di sguardi tra la zia e la mamma tradì delusione ma non rimase loro altra scelta che dirigersi verso la porta della sala e andarsene. Anche il nonno abbandonò la posizione accettando l’invito della nuova amica di Mattia. Appena la dottoressa sentì lo sferragliare della serratura che andava ad incastrarsi col battente, guardò Mattia e disse “allora ti piace il mare o no?” Senza concedere a Mattia il tempo per elaborare la domanda e pensare ad una risposta, la dottoressa incalzò con un fare amichevole. “Penso di aver capito la terapia che fa per te”. Tra i due ci fu uno sguardo e fu di intesa. Mattia si rasserenò e si pose in ascolto della proposta della nuova amica. “ si chiama terapia del cuore …” esclamò la dottoressa Corelli. “terapia del cuore?” la interrogò il piccolo Mattia. “si …” riprese la dottoressa. “Vedi Mattia, il cuore può contribuire a guarire tutti gli organi del nostro corpo. Se lui sta bene …. tutto il nostro corpo è in salute”. “tra l’altro – proseguì la dottoressa – la tua casa si presta bene a portare a compimento il tipo di terapia che ho pensato per te”. Intanto Mattia, sempre più curioso e sbigottito, continuava a seguire ,con occhi sgranati, il discorso accattivante della sua nuova amica. “ti spiego tutto caro Mattia” riprese la Corelli, aggiustandosi con la mano destra un ciuffo di capelli che, ribelle, era andato ad adagiarsi su uno dei suoi bellissimi occhi nocciola. “Io sto notando che il problema non è nella tua gamba ma è localizzato qui e qui” e andò a sfiorare con l’indice della sua mano il cuore e la testa del piccolo Mattia. L’animo di Mattia era percorso da raffiche di sentimenti articolati e contradditori che si mescolavano confusi tra loro e affioravano in lui in un riassunto sapore di dolcezza, comprensione e fiducia sconfinata nelle parole della persona che aveva conosciuto da poche manciate di minuti ma che già avvertiva come importante. “Quindi – proseguì la dottoressa – possiamo iniziare subito. Ti spiego in che cosa consiste la terapia”. “Si però – la interruppe Mattia con l’emozione di chi deve dare voce ad un pensiero che si è fatto largo in lui al punto tale da non poter essere più contenuto – prima devo chiederti se posso considerarti una mia amica oppure una semplice dottoressa”. La dottoressa rispose con il sorriso soddisfatto di chi osserva i primi vincenti frutti del proprio operato e poi il suo volto si fece dolce come il miele e gli occhi nocciola si illuminarono più del solito. Spontaneamente poggiò il palmo della sua mano destra sulla guancia e poi sulla nuca del piccolo paziente, spostandogli indietro una ciocca di capelli. Non furono necessarie parole. I due si intesero alla perfezione e divennero amici. “allora Mattia – riprese la Corelli – la terapia ti costerà del sacrificio perché dovrai alzarti molto presto. Tutte le mattine fino al raggiungimento dello scopo finale. Dovrai alzarti ed andare al vecchio faro che si trova sulla costa orientale ad osservare il sorgere del sole”. Mattia apparve visibilmente divertito e non si chiese neppure quale fosse il nesso di tale terapia con la sua reale malattia e promise alla dottoressa di svolgere al meglio il compito fino al prossimo appuntamento che sarebbe stato fissato a distanza di almeno una settimana. L’unico pensiero che gli balzò in mente fu quello di cercare di comprendere in che modo la dottoressa Corelli avesse potuto convincere la zia che quel modo di agire avesse portato ad effettivi risultati. Comunque non ebbe il coraggio di porre la domanda, certo che la sua nuova amica avrebbe trovato la risposta giusta per superare l’ostacolo. Dal giorno dopo Mattia si levò di buon ora e andò alla ricerca del sole che stava nascendo. Il tratto da casa al faro posta sulla costa est era tutto sommato molto breve. Così Mattia, con l’aiuto delle sue gambe di ferro, iniziò a dirigersi alla meta facendosi largo tra vecchie sterpaglie accumulate dal tempo. Non appena approdò accanto alla parete circolare del vecchio faro vi si appoggiò esausto ma il suo respiro affannato venne ulteriormente rimestato da uno spettacolo di una bellezza senza paragoni che gli occhi di Mattia non avevano mai potuto gustare. Il sole era ancora una sagoma informe di un giallo pallido ben lontano dalla luminescenza a cui era abituato il piccolo Mattia. Proporzionalmente allo scandirsi di quei secondi eterni, la sua forma tendeva al rotondo perfetto e il suo colore scivolava di tonalità in tonalità fino a raggiungere un giallo vivo e misterioso. Contemporaneamente al suo movimento di innalzamento, il sole, che aveva intrappolato lo sguardo di Mattia, distribuiva sul mare riflessi di luce brillante e pungente che correvano sulle acque, si inerpicavano sugli scogli levigati dal tempo e raggiungevano il piccolo osservatore inondando il suo corpo, ancora intorpidito dal sonno, di una luce nuova, bella e mai sperimentata. A Mattia sembrava di non essere più quel bambino intrappolato da una malattia che non gli consentiva di fare una vita normale e iniziò a gustare un rapporto nuovo con le forme che la natura gli proponeva quella mattina. I gabbiani, che tanto amava per quel senso di libertà che suscitavano in lui, sembravano essere una razza speciale di uccello tropicale mai vista, illuminati come erano dal bagliore di quell’alba bellissima. I suoi colori sembravano scaldarsi mano a mano che la palla gialla si innalzava sul mare e l’animo di Mattia prese ad ardere di un’emozione nuova. Percepiva il ritorno di tutte quelle energie, di quelle possibilità che la vita degli ultimi anni gli aveva sottratto. Qualcosa di nuovo avveniva in lui e cominciò a godere del mistero che sembrava celarsi dietro l’esperienza che si stava consumando in quegli attimi. Mattia tornò al luogo dell’appuntamento ogni mattina senza neppure chiedersi, fino in fondo, se queste sue camminate fino al vecchio faro avrebbero portato dei risultati validi per la sua malattia. In ogni caso vi andava ed ogni giorno riusciva a cogliere qualcosa di nuovo, di sempre più bello. Imparava lentamente ad accorgersi della bellezza del mondo intorno; tutte le sfumature dei colori del sole, lo sciabordio delle onde ancora lievi sugli scogli, il canto dei gabbiani, il riflesso della luce che saltellava sull’acqua e giungeva repentina fino a lui abbagliandone lo sguardo. Il dispiegarsi di fronte a lui dell’orizzonte sconfinato suscitava nell’animo di Mattia nuovi interrogativi. “Che cosa c’e oltre? dove porta quella ideale linea di confine tra il concreto e l’astratto?” I giorni successivi furono di pioggia ma Mattia non volle rinunciare alla terapia del cuore che gli commissionò la dottoressa Corelli. Si munì di un grosso ombrello e di un impermeabile da pescatore e si diresse al luogo dell’appuntamento col sole. Che, ovviamente quel giorno non arrivò ma mandò suoi fidati collaboratori e Mattia si accorse che la pioggia dispiegava di fronte ai suoi occhi uno spettacolo inenarrabile. La furia delle acque quel mattino era travolgente ed inquietante. Facendo passeggiare lo sguardo oltre il vecchio faro abbandonato Mattia riuscì a cogliere l’imponenza della scogliera che sembrava approfittarne della furia del mare per divertirsi un po’ con le sue onde spumeggianti e gigantesche. Il piccolo e curioso paziente osservava le onde che si liberavano impazienti e si lanciavano orgogliose contro gli scogli. Le stesse onde, dopo l’urto violento, si scomponevano in mille rivoli delicati e biancastri che andavano ad adagiarsi nuovamente sugli scogli lungo la costa per poi lasciarsi sedurre dal richiamo del mare ed unirsi nuovamente alla sua potenza per riprendere il gioco. Alle spalle delle piccole onde scomposte, altre onde, rabbiose anch’esse, si preparavano alle stesse acrobazie. Anche i gabbiani riuscivano a godere di quello spettacolo inquietante. Le loro ali dispiegate planavano ora su una corrente, ora su un’altra che si presentava su quella stessa rotta. Erano come in balia del loro amico vento ma sembravano goderne. Il loro fare non era preoccupato ed il ribollire dell’acqua solo pochi metri sotto le piume consentiva loro di farsi accarezzare dagli spruzzi più arditi che arrivavano a lambirli. Si facevano scivolare leggiadri sul vento, cavalcandone, come esperti surfisti, le correnti più impetuose ed emozionanti. Colori e suoni davano vita ad uno spettacolo di una bellezza senza confini che allargavano il cuore di Mattia ogni giorno di più. Lui intanto continuava ad assorbire ogni fotogramma. Tutte le paure di Mattia si spegnevano a mano a mano che quei colori indescrivibili si incasellavano nei suoi occhi e nel suo cuore. Mattia iniziava a sentirsi vivo ed una mattina, l’ultima prima del ritorno della dottoressa, si accorse che le sue gambe avevano una strana energia. Un formicolio prepotente scendeva e saliva dai suoi nervi rendendo inutili le stampelle di ferro che ne avevano sorretto il peso per tutti quegli anni. Mattia si spaventò e fermò un attimo il suo andare scomposto prima che la mamma e la zia entrarono nella stanza e, preoccupate come non mai, si precipitarono verso di lui a frenare la sua fuga dalle stampelle. Mattia dapprima sorrise. Poi il suo sorriso si tramutò in una risata sonora e scrosciante al punto tale da coinvolgere la mamma e suscitare l’ira della zia che camminò speditamente fuori dalla stanza e si congedò sbattendo con forza la porta. “mamma cammino. Ora cammino. Ho scoperto che la forza di camminare era nascosta nel mio cuore” La mamma reagì con ovvio stupore ma ebbe la forza di bloccare la sua razionalità e si accomodò a fianco del piccolo bambino accarezzandone le gambe con dolcezza materna. “Mamma …. Ora cammino. La terapia della dottoressa Corelli ha funzionato. Ora cammino bene e non mi servono più le stampelle. Durante la settimana ho camminato tutte le mattine prima dell’alba verso il vecchio faro per vedere il mare! Vivere per quell’obiettivo così bello e coinvolgente ha scavato nelle profondità del cuore e mi ha concesso di tirare fuori delle risorse che non credevo di possedere. “ “Mamma – continuò Mattia – non avevo nessuna malattia. Il mio problema era qui” e con la mano sinistra indicò la zona del suo cuore. La mamma scoppiò in un pianto di gioia che lei stessa si affrettò ad interrompere dicendo “ allora dobbiamo chiamare la dottoressa Corelli e ringraziarla della terapia che ci ha suggerito”. “certo mamma. Dobbiamo chiamarla subito!” In quel momento la vecchia zia, sempre più nervosa, fece ingresso in camera con in mano una vistosa lettera indirizzata alla mamma di Mattia ed esordì con un secco “è per te!”. La mamma guardò Mattia e gli fece osservare con attenzione l’indicazione del mittente “CLINICA ORTOPEDICA DOTTOR TIRABOSCHI”. Fu uno sguardo di intesa ed insieme, con assoluta trepidazione, decisero di aprire la busta. Il corpo centrale della lettera riportava le seguenti parole “ci scusiamo per il disagio creato alla signora vostra causata da una improvvisa carenza di nostro personale. Il mancato appuntamento fissato per la settimana scorsa sarà comunque recuperato e sarà nostra preoccupazione inviare al domicilio indicatoci un nostro terapeuta che consentirà di iniziare una cura per il caso in esame” Il seguito erano parole pressoché inconsistenti che mettevano in luce scuse e si accertavano sulle modalità di pagamento. Mattia e la mamma non avevano il coraggio di alzare lo sguardo dal foglio ancora ben stretto nelle loro mani. Lentamente i loro sguardi si incrociarono e le loro bocche non trovavano le parole adatte né per commentare ciò che avevano appena letto, né, tanto meno, per offrire giustificazioni all’insistenza delle domande della vecchia zia. L’unica reazione fu una forte risata che fece nuovamente andar via la zia e consentì ai due complici di rimanere soli. “Ma allora chi è la dottoressa Corelli?” fu la domanda di Mattia che ruppe il nuovo silenzio tornato a regnare nella stanza. “non lo so, Mattia. Non lo so!” disse la mamma guardando dritto negli occhi il figlio. Mattia si alzò e fece un balzo verso la finestra. Poi si esibì in una rischiosa capriola e saltò in braccio alla mamma. “neanche io lo so chi è la dottoressa Corelli. Quel che è certo è che mi ha indicato la via per scoprire quanto di più bello esiste al mondo”. I due si abbracciarono e rimasero a lungo in silenzio. Poi la mamma disse “ vedi Mattia, la nostra vita è gremita di angeli che compaiono ad un certo punto per dirci qualcosa di davvero importante e poi scompaiono perché hanno compiuto la loro missione”. Nessun silenzio fu mai così eloquente come quello che riempì lo spazio tra Mattia e la mamma.
I due rimasero a lungo a guardare il gioco dei gabbiani che con le loro ali dispiegate planavano ora su una corrente, ora su un’altra che si presentava su quella stessa rotta. Erano come in balia del loro amico vento ma sembravano goderne. Il loro fare non era preoccupato ed il ribollire dell’acqua pochi metri sotto le piume consentiva loro di farsi accarezzare dagli spruzzi più arditi che arrivavano a lambirli. Si facevano scivolare leggiadri sul vento, cavalcandone, come esperti surfisti, le correnti più impetuose ed emozionanti. Colori e suoni davano vita ad uno spettacolo di una bellezza senza confini che allargava il cuore di Mattia ed, ora, anche quello della mamma.
Non vi fu più nessun giorno di Mattia privo di quell’intrecciarsi di luci ed ombre che iniziavano nel mare li di fronte a lui ed andavano a trovare spazio nel suo cuore per traboccare poi nei cuori di chi lo avvicinava.
Id: 34 Data: 16/12/2007
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Torino-Palermo (persone lungo i binari)
Ho un ricordo remoto della ferrovia: fin da piccolo la nonna Francesca mi portava su un ponte a vedere la corsa del treno. Pur essendo agli inizi degli anni 80 il passaggio del convoglio era per lei – nata nel 1903 - un evento importante perché le riportava alla mente i tempi in cui il figlio macchinista la avvertiva del suo passaggio dal piccolo Magliano Alpi Soprano; paesino perduto nella pianura cuneese, troppo piccolo per consentire una sosta del treno per Savona. Così un colpo di tromba voleva dire “ciao mamma, ti sto pensando”.
Così è iniziato il mio amore per la ferrovia, per le stazioni in genere. Figlio di ferroviere ne ho incontrate molte e sempre in cuore la stessa sensazione: casa! Accompagnando il papà al lavoro passavo tanto tempo a perdere lo sguardo tra la folla confusa di quei luoghi agitati. Storie, occhi che passano per un attimo, volti che si incrociano per una volta sola e poi non si trovano più. Tutti mi parevano emozionati, come al loro primo viaggio: forse perché ogni partenza nasconde in sè un’incognita da scoprire poco alla volta.
E poi i binari; quel senso di corsa verso l’infinito mi metteva in cuore il desiderio di percorrerli prima del treno per sapere dove andava a morire la loro corsa. Tutta un’incognita la vita della stazione che mi ha fatto scoprire la passione per l’umanità così variegata e ricca, abbandonata e sofferente, sola, variopinta e bella. Una cattedrale, un mondo dietro le mura: quasi l’anticamera dell’infinito.
Quella volta a partire ero io con in cuore però la stessa voglia di incontrare qualcuno, la stessa speranza di incrociare gli sguardi che mi hanno appassionato fin da piccolo. Anche per me valeva l’incognita di una partenza … per tutta la vita. Mentre intravedo la sagoma del treno per Palermo mi scuote una voce. E’ Pasquale. Un ragazzo di circa 30 anni che tenta di vendermi una penna. Un po’ attonito lo guardo negli occhi e anche lui non mi sfugge: forse è sincero e mi racconta di lui, delle sue disavventure per poi propormi l’acquisto di una penna. Si illumina quando infilo la mano nella tasca dei miei Jeans, facendomi largo tra la confusione degli zaini appesi a tracolla, e tiro fuori una vecchia banconota da 5000 Lire.
Un po’ disorientato perdo lo sguardo tra i tabelloni luminosi in attesa della fatidica scritta “Palermo”. Ci pensa Giulio ad interrompere quella ricerca frastornata. Un napoletano sulla quarantina: amichevole, disponibile, accogliente facciamo subito amicizia e inizia a raccontarmi di lui. Nel frattempo ci accorgiamo di dovere prendere lo stesso treno … io, lui e altri 10 suoi amici. Chiassosi, simpatici mi accolgono subito tra loro. Il racconto della sua vita incalza e la sua personalità così variegata e ricca mi affascina anche quando mi racconta che si trovava a Sarno il giorno in cui la valanga ha spezzato vite, distrutto case e seminato angoscia nell’autunno del 1996.
Se la prende con tutti, non risparmia nessuno nel descrivere le conseguenze di quel disastro ma nei suoi occhi leggo voglia di giustizia, di amore mai avuto … sempre agognato e mai trovato. Lo attira il mio interesse al suo racconto e la domanda in stretto accento napoletano sorge spontanea “ … me lo spieghi che ci va a fare un torinese a Palermo” . “ A cercare lavoro” è la mia risposta più immediata. Il tempo di sgranare gli occhi e Giulio sobbalza in piedi coi gomiti sdraiati sul poggiatesta del sedile - come per parlare ad una folla oceanica - e si rivolge ai 10 amici che occupano a macchia di leopardo tutta la carrozza: “ vi è mai capitato di incontrare un torinese che va a cercare lavoro a Palermo?” e scoppia una risata rumorosa che mi fa arrossire. Così desisto e gli racconto la mia storia. “Ho deciso di giocarmi la vita per l’ideale più grande che potessi incontrare. Dio. Per Lui ho lasciato tutto e ho deciso di seguirlo ovunque … prima tappa Palermo, caro Giulio”. Ora ad arrossire è lui e le domande sull’amore, sul segreto per essere felici si susseguono fino all’annuncio dell’altoparlante “ Napoli Centrale” .
Scendiamo entrambi ma la coincidenza per Palermo è già partita. Giulio ormai ha deciso di essermi amico. Mi sarebbe aspettata una notte in stazione e lui mi procura un posto tranquillo dove stare e cerca di convincere il capotreno a farmi prendere un convoglio merci per Palermo pur senza prenotazione. Tutto inutile ma il suo impegno per me era segno che l’amore sempre cercato ora lo stava dando. Salutandoci scorgo alcune lacrime nei suoi occhi. Abbiamo la reciproca certezza che non ci saremmo più incontrati ma quelle ore di viaggio avevano cambiato qualcosa nella vita di tutti e due.
Così mi incammino verso un bar nei pressi della stazione di Napoli. Degrado, sofferenza e dignità nei volti di quei derelitti che vivono in stazione messi in disparte dalla società. E’ forte il richiamo verso ognuno; quasi un andare alla ricerca del tesoro nascosto tra le pieghe del loro volto tumefatto dalla stanchezza, dalla fame, dalla galera.
Compro un panino e una bottiglia d’acqua che i pochi spiccioli che mi ritrovo in tasca mi consentono e decido di consumarli sua una panca attigua al binario n° 3. La stessa idea pare averla avuta Farouk un uomo distrutto dagli anni della ancora viva guerra in Cecenia. Una cicatrice che attraversa il volto testimonia che la vita non gli ha fatto sconti e la fuga dalla sua terra è stato l’unico modo per potere rimanere vivo. Raccontando di lui si fa interrompere dalla sensazione che io avessi ancora fame. Così strappa metà del suo panino al salame e me lo porge insieme alla Forst mezza vuota che stava sorseggiando per cacciare il panino raffermo nel suo stomaco malnutrito.
Quel tozzo di pane duro offertomi da mani insanguinate e sporche è un pranzo nuziale rivisto alla luce di un uomo che non avendo nulla continua a dare tutto.
Farouk diventava l’icona della gratuità, del dono e non me lo sarei più tolto dalla mente. Già proprio io che andavo nel mondo a portare il messaggio del Vangelo vissuto.
Immagini indelebili quelle di Faorouk, Giulio, Pasquale, sorrisi e volti stampati nel cuore per sempre, dipinti in luoghi certamente poco raccomandabili ma sempre teatro di incontri con la porzione di umanità più bella.
Immagini indelebili dipinte proprio laddove va a spegnersi la corsa di tanti binari.
Seguii quella luce.
La vidi fioca – dapprima – Tenue incandescente libera – poi –
Mi trascinò in cantine mi sdraiò su marciapiedi mi trasportò – con lei – mi diede in dono la sua eredità:
ferite (da sanare) lacrime (da tergere) divisi (da congiungere)
Ruppe gli argini del buon senso - anche del mio –
mi innamorò del buio poiché in esso continuai a trovar (luce).
Id: 31 Data: 05/12/2007
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Occasioni
Bastò far passeggiare lo sguardo un po’ a sinistra. Rimase come una farfalla nella ragnatela di un ragno. Vittima di un agguato.
Quegli occhi un po’ a mandorla, incorniciati da ciglia lunghe e discrete, lo stavano attendendo da sempre. Ebbe appena il coraggio di spostare lo sguardo un po’ in giù e accorgersi di una bocca semplice e un po’ screpolata, che andavano a porre un altro tassello per il mosaico di un viso bellissimo, semplice, genuino.
“Chi sei tu ?” pensò repentinamente Davide, passandosi la mano tra capelli come per liberare la vista da un ciuffo ribelle. “ Chi sei tu che mi attendi da sempre?”. Non volle trasformare in suono quel pensiero insistente che rimbalzava tra i corridoi della sua mente.
C’erano troppi ostacoli tra lui e quel volto. Ma nonostante tutto gli occhi misteriosi e quelli di Davide, valicando la breve distanza, erano ormai inscindibilmente legati.
L’autovettura guidata dal papà di Davide e quella su cui erano fermi quegli occhi, distavano pochi metri. Due caselli per l’ingresso in autostrada erano la loro reale distanza.
Davide avrebbe voluto abbandonare il suo sedile posteriore e proiettarsi a pochi metri più in là. Già ma che cosa avrebbe potuto dirle, pensò.
Beh, intanto si sarebbe atteso che anche lei avesse fatto lo stesso siccome si stavano – secondo Davide – attendendo da sempre. “Lei? – pensò – ma avrà un nome questa lei. Questo volto si chiamerà in qualche modo. Ma come!” Quel che è certo è che ci attendevamo da sempre e finalmente ci siamo trovati. Solo che ancora non so il suo nome. Forse non credevo di doverla incontrare proprio oggi … non sono preparato.” Si agitò Davide tra sè e sé.
Pensò di istituirne uno così d’ufficio. Come a quei neonati che si trovano davanti alla porta di una chiesa senza nessuna indicazione. Decise di chiamarla Francesca. Come sua nonna. Le labbra screpolate gliel’avevano ricordata nettamente!
“ora scendo – pensò Davide – corro alla sua macchina posta due file più in là. Apro la porta e le dico “ Francesca, ti ho ritrovata! Vieni” .
Davide lanciò un’occhiata avanti e vide che la fila di ingresso per l’autostrada si accorciava sempre più: ebbe il segno chiaro che non sarebbe rimasto molto tempo. Occorreva sbrigarsi e farlo subito.
Il piano era perfetto. Attorno tutto taceva: il papà impegnato a cercare le monetine per pagare il pedaggio non si sarebbe accorto in tempo della fuga, la mamma un po’ addormentata cullata com’era dal viaggio e soprattutto la sorellina Silvia distratta dal suo giocattolo nuovo non avrebbe opposto resistenza all’inconsueto gesto. Davide era amante dell’avventura. Almeno di quella vista in TV. Ma non avrebbe mai pensato di diventare protagonista di una rocambolesca fuga. Comunque non così presto, a soli 12 anni.
Il tempo di batter ciglio e di visionare la situazione intorno e Davide rialzò lo sguardo per non perdere il contatto con Francesca.
Un immenso tir si era allineato in coda per l’ingresso in autostrada proprio nella postazione di metà rispetto a quella dove era in coda l’auto del papà di Davide e quella di Francesca. “Una tragedia” – pensò Davide facendo quasi scivolare quel pensiero sulle sue labbra per l’agitazione. “Questo bestione mi farà perdere le tracce di Francesca. Manderà a monte il mio piano”
Inizio a sudare freddo il povero Davide anche perché ormai era giunto il turno del loro ingresso in autostrada. Abbassò il finestrino e sporse la testa come per controllare la situazione. L’auto rossa di Francesca era troppo indietro e poi la pioggia sottile che aveva iniziato a riversarsi sull’asfalto rendeva ancora meno chiara la visibilità.
“ Ormai non c’è più nulla da fare” – pensò Davide gettandosi a peso morto sul sedile con le mani nuovamente tra i capelli.
“eppure quegli occhi erano i suoi” – si rassicurò Davide – “Quel volto, quelle labbra. I capelli. Era lei” L’auto del papà di Davide partì veloce. Lui ebbe ancora il coraggio di voltarsi indietro e frugare tra la confusione di auto e pioggia per cercare uno spiraglio di quegli occhi.
“ci troveremo di nuovo. Puoi starne certa” fu l’ultimo pensiero prima di ritirarsi in un comodo sonno.
Id: 30 Data: 05/12/2007
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Nandòn, il marinaio
Nessuna scelta per chi nasce in un paese in riva al mare. Da grande sarà un marinaio. Neppure un ufficiale. Quella è roba da ricchi. I poveri nati sul mare faranno i marinai. Un futuro predestinato a cui i giovani uomini si consegnano con rassegnazione e spirito di doveroso servizio. Non era così per Nandon. Un giovanotto alto dalla pelle un po’ olivastra che attendeva con trepidazione il giorno del suo primo imbarco da marinaio. Per Nandon il mare era un amico. Un vero amico. Le parole di nonno Berto avevano mosso qualcosa in lui durante le gite in barca. “… vedi Nandon ci sono due tipi di marinai. Gli zelanti e gli innamorati. I primi si abbandonano al loro destino come ad un dovere ineluttabile e vivono per attendere l’ora del ritorno a casa. Sono bravi, compiono con precisione e cura il loro lavoro ma non conoscono il mare. Gli innamorati, invece, si nutrono di ogni momento passato a contatto col mare. Ne sanno cogliere la bellezza, ne apprezzano ogni spruzzo, sanno fermarsi sul molo a sentirne il profumo. Lo assaporano come un bicchiere di vino invecchiato, lo sfiorano con la delicatezza con cui sfiorano il volto della loro amata che li attende. Gli innamorati hanno col mare un rapporto vero. Ne ascoltano la voce, ci si arrabbiano, gridano con lui. Riversano nel dialogo col mare passione e mitezza. Gli innamorati muoiono spesso in mare perchè non potrebbero mai abbandonarlo! E’ parte di loro”. Da nonno Berto, Nandon aveva imparato la vita. A respirare coi tempi del giorno e della notte. Aveva in corpo i ritmi del sole, della luna, delle stagioni. E l’amore passionale per il mare! A Nandon poco importava se il suo incarico in nave sarebbe stato di mozzo, di addetto alla sala macchine, di sguattero in cucina. In fondo era solo una scusa come tante per unirsi al suo mare.
Il giorno del primo imbarco era una festa. L’unica in un paese di gente sobria che preferiva il lavoro duro al divertimento. Quella, però, non se la perdeva nessuno. Era inoltre un’occasione per le ragazze di presentarsi ai giovani marinai e darsi appuntamento al loro ritorno. Quasi una sorta di promessa di fidanzamento. Nandon si presentò tra i primi al luogo dove tradizionalmente si teneva la festa del saluto. Cappello piatto stile inglese, pantaloni neri retti da indistruttibili bretelle e camicia bianca, sotto la quale si intravedeva la canottiera di cotone, tipica del marinaio. Il ciuffetto che scendeva dal cappello, la sigaretta fissa in bocca e le mani in tasca quasi a camuffare i suoi 17 anni di fronte agli ufficiali che sarebbero, da li a poco, venuti per la selezione e per definirne la destinazione di imbarco.
Il cuore di Nandon era innamorato per natura. Perdeva ore a guardare le cose più genuine e belle che la natura gli offriva. E poi i volti della gente. Di quelli Nandon non se perdeva neppure uno: volti, i più vari nei quali riconosceva la bellezza. Tra le rughe di un vecchio consumato dalla vita, negli occhi freschi di una giovane fanciulla che ad essa, invece, si affacciava. Nandon si inabissava nella gente. Un vero cercatore di bellezza, di quella genuina, sana. Di quella che esula dal criterio a cui tutti ormai siamo abituati. Un puro. Che scopriva il bello oltre le forme. Non riusciva a non appassionarsi alle persone che incontrava, alle situazioni che precipitavano lungo il suo andare. Ma con tutta sincerità Nandon non aveva intenzione di incontrare una ragazza con la quale darsi appuntamento al ritorno. Non riusciva ad avere il cuore diviso. Il mare lo stava attendendo e lui era intenzionato a rispondergli con tutto se stesso. Una promessa di fidanzamento avrebbe frenato la sua passione per il mare e lo avrebbe trasformato in un marinaio zelante che attende il ritorno a casa.
Quando la folla del paese arrivò, Nandon preferì ritirarsi in un angolo della locanda a consumare con calma il suo boccale di birra. Il mare, l’unico pensiero. Quel mare così ben conosciuto che aveva scandito i tempi delle sue giornate. Quel mare che da lì a poco sarebbe divenuto l’unico compagno della sua vita.
Solo la flebile voce di Carlo s’inserì tra i suoi pensieri. Un bambino di 4 anni che probabilmente trovò in Nandon un volto rassicurante al di là della sigaretta e della birra. “non trovo mia sorella”. Abbastanza per un cuore innamorato. Sufficiente per dimenticare pensieri e sogni e farsi carico della nuova necessità di qualcuno. Benché sconosciuto! “La troviamo subito.” Fu la risposta di Nandon alla richiesta implicita di Carlo. La ricerca di Nandon e Carlo varcò i confini della locanda spingendosi fino al molo. Il tempo, intanto, si faceva sempre più breve.
Le ombre della sera erano calate e gli ufficiali, che avrebbero arruolato i ragazzi del villaggio, si stavano avvicinando al luogo della festa. Un pensiero sfiorò Nandon: come potere salire su una nave senza avere trovato la soluzione al problema del piccolo amico? Partire era la realizzazione del suo sogno. Trovare la sorella di Carlo una necessità immediata. Intanto le lussuose macchine degli ufficiali erano arrivate e il lento spegnersi dei rumori della festa era segno che la selezione era iniziata.
Addio sogni di gloria. Fu il suo primo ed unico pensiero. La decisione giunse da sola. Il cuore innamorato di Nandon non avrebbe mai potuto abbandonare Carlo neppure se la posta in gioca era la realizzazione del sogno. Quando questo pensiero si fece più terso nella mente, si inginocchiò davanti a Carlo, ne asciugò le lacrime e lo rassicurò. “Tranquillo. Troveremo tua sorella. Anche se dovessimo cercarla tutta la notte”. Il piccolo si rasserenò. Ancora un’occhiata malinconica alla piazza dove ormai la selezione era già avviata.
Il tempo di cacciare via le ultime malinconie ed una voce interruppe il loro andare dissennato “Carlo, Carlo”. Il piccolo fece scivolare la sua mano fuori da quella di Nandon e prese correre nella direzione della voce. Nandon si gustò la scena da lontano. Si commosse e pensò “vale quanto una vita in mare”. I due si erano ritrovati. Attese l’arrivo dei due ragazzi ancora confusi. La giovane si presentò con occhi bassi di imbarazzo. Elisabetta, la sorella tanto cercata, ebbe appena il coraggio di dare un’occhiata al volto di Nandon e scusarsi per il tempo perso col fratello. Qualche coccola a Carlo e il pensiero di potercela ancora fare ad imbarcarsi travolse letteralmente Nandon. “Ora devo andare”. Disse fissando gli occhi di Elisabetta che non si fece scappare l’occasione: “grazie per tutto. Ma non mi hai detto il tuo nome. Come ti chiami?”. Nandon prese a correre con la mano sul cappello che tentava di prendere il volo. Dopo alcuni passi veloci si volto e gridò “Nandon. Mi chiamo Nandon. Il marinaio”.
Evidentemente arrivò in tempo perché in paese nessuno lo rivide. Una sorta di angelo che compare una volta, fa un regalo a qualcuno e va via per sempre. Come quel ragazzo dalla pelle un po’ olivastra, dal volto pulito, mascherato da adulto che si commuove facilmente. Che corre verso il suo sogno dicendo di chiamarsi Nandon. Nandon, appunto. Il marinaio.
Id: 29 Data: 05/12/2007
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Pausa caffè
Trovarsi al punto giusto al momento giusto. Luciano l’aveva capito bene. Molto bene. Per questo aveva scelto come punto di appostamento la panchina situata proprio accanto alla macchinetta da caffè .
Una macchina da caffè all’ingresso di un grande palazzo moderno, centro amministrativo e finanziario di diverse aziende di spicco sul mercato. Questa l’ancora di salvezza di Luciano. Una macchina da caffè, dunque. Punto di convergenza di tante storie non raccontate, dove per attimi si incrociano sguardi, lacrime, confidenze e poi scompaiono nell’indifferenza più completa.
Luciano era solo al mondo. Per questo capiva la solitudine. Soprattutto la individuava sulla gente. Bastava uno sguardo, l’inflessione della voce rubata in un dialogo, una lacrima. La solitudine ha un brutto colore quando si annida sul volto delle persone.
Ogni mattina Luciano attendeva l’apertura delle porte del palazzo e andava a sedersi su quella panchina ad attendere i primi consumatori. Puzzolente e malandato com’era non era stato ben accettata la sua presenza. Con l’andare del tempo, però, Luciano seppe dimostrare di meritarsi quella postazione.
Fin dal primo giorno capì che quella era una vera e propria vocazione per lui. Rimanere fermo ad osservare il passaggio di quei volti stanchi già dal mattino. Osservare quelle storie di gente infelice, di persone tese a produrre, convinte che dall’ affrettarsi del loro passo sarebbe dipeso il tracollo finanziario dell’ azienda. E poi accoglierle, ascoltarle, capirle, farsi compagno i viaggio, amico.
“Fantasie provocate dalla sindrome dell’indispensabile” ripetè Luciano - con assoluta certezza medica – al dott. Marchetti direttore generale di una grossa impresa di import – export con sede al decimo piano del palazzo. Gettò via il bicchierino bianco nel quale aveva consumato con fretta il suo espresso senza zucchero della mattina e piantò gli occhi sul povero Luciano. “Forse – bisbigliò il dottor. Marchetti – sarebbe bene fare sapere a questo straccione chi sono io e quali responsabilità ricopro in azienda”. Ma poi – vista la singolare attenzione con la quale Luciano stava ad ascoltare le sue vuote parole che tentavano di mantenere in piedi un castello di carta ormai crollante – decise di raccontare al nuovo amico tutti i suoi travagli. Due ore. Fu il tempo del suo racconto. I passanti non credevano ai loro occhi. Il dott. Marchetti che perde due ore del suo prezioso tempo per parlare con un vagabondo. E la produzione? I nuovi accordi con la filiale thailandese, la data del consiglio di amministrazione da fissare. La logica di un sistema soppiantata da un gesto così inconsulto e semplice insieme.
Quando finiva la scorta di caffè, di buon mattino si presentava Luca. Il tecnico che gestisce la manutenzione di quell’apparecchio. Anche lui è sempre un po’ di corsa. E’ la prima tappa di una lunga giornata. Capì subito che perdere tempo con Luciano è sempre un investimento, un guadagno. Così tra i due nacque un’amicizia da cui Luca trasse enorme benefici per ricostruire il suo matrimonio, per sanare i rapporti con i genitori, per recuperare vecchi rapporti.
Gli avventori alla macchina da caffè erano sempre maggiori e nessuno disdegnava l’idea di fare due chiacchiere con Luciano. Tanti tornavano solo per ringraziare. Luciano ascoltava, capiva. Di rado parlava. In un mondo che va di corsa Luciano era come un porto sicuro confortante, caldo, accogliente. Nel palazzo non si parlava di Luciano. Non era previsto dalle procedure. Ma l’aria che iniziò a respirarsi si faceva sempre più distesa, più tersa.
Nessuno quindi disse nulla il giorno che Luciano non si presentò più alla solita panchina accanto alla macchinetta del caffè. Questo è il destino dei vagabondi: a volte spariscono. Ma avendo conosciuto Luciano, nessuno ebbe il dubbio che anche quella volta sarebbe andato alla ricerca di una nuova panchina. Vicino ad un’altra macchinetta da caffè.
Ma comunque sempre al posto giusto. E al momento giusto. Forse.
Id: 16 Data: 05/12/2007
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Tra cielo e mare
C’è un punto all’orizzonte. L’ultimo con i confini delineati nettamente. Che anticipa l’infinito. Laggiù dove cielo e mare si baciano, si sfiorano senza mai mescolarsi. E’ l’incontro tra la forma e l’informe tra il concreto e l’astratto. Toby abitava in un villaggio a ridosso dell’oceano. Di quelli che ti regalano le luci inconfondibili dell’alba e i colori meravigliosi del tramonto. Villaggio di capanne dove ancora il tempo era scandito dall’alternarsi del giorno e della notte e gli abitanti non avevano smarrito il piacere dell’incontro, il sapore di una sorpresa, la passione per il silenzio. Ma soprattutto l’amore per il mare. Che ogni sera inghiottiva il sole e lo restituiva dopo poche ore. Premuroso nell’alimentare gli abitanti del villaggio, affascinante quando gridava nei giorni di tempesta. Il mare che laggiù in fondo, all’orizzonte, in un punto preciso, l’ultimo che lo sguardo poteva incontrare, dialogava col cielo. “E’ la cassaforte del mondo” – dicevano i saggi. Laggiù, dove il sole andava a nascondersi la sera, cielo e mare custodivano i segreti mai confidati, l’amore rimasto incompiuto, il coraggio inespresso, le parole d’amore non dette. Toby era un ragazzo ma conosceva il mare quanto un vecchio pescatore. Soprattutto amava quel punto di incontro tra cielo e mare. In primavera passava ore ad osservare quell’incontro amorevole seduto in cima alla rocca del villaggio ed, essendo tutt’intorno silenzio, cercava di carpirne i segreti. Ma il desiderio di partecipare a quel salotto si faceva ogni giorno più prepotente in Toby. L’altra passione di Toby era Lucy. Piccola, minuta, con un ciuffetto di capelli che cadeva a picco sulla fronte, era una ragazza semplice, di quelle di cui ci si può innamorare senza ritorno. Gioviale, amante della compagnia anche lei era innamorata di Toby. Erano molto simili. Stesso modo di affrontare la vita, di parlare, medesimi difetti. Il suo amore per il ragazzo l’aveva confidato al sole. Una sera d’estate prima del tramonto. Lucy era certa che il sole avrebbe depositato il segreto nella cassaforte custodita da cielo e mare e un giorno, forse sarebbe sbocciato. Lucy credeva alle favole. Anzi era certa che potevano diventare realtà perciò non confidò mai a Toby quel sentimento. Un giorno, di ritorno da una gita in zattera, Lucy adocchiò Toby isolato a fissare il punto di incontro tra cielo e mare. Accortosi della sua presenza, Toby sorrise e le confidò “ Un giorno andrò e verrò a raccontartelo”. Lucy capì che Toby era destinato a compiere qualcosa di importante.
Anche Toby intuì di essere innamorato di Lucy ma la passione per raggiungere quel posto era diventata per lui missione a cui posporre tutto il resto pur bello e importante. Partecipare a quel salotto, rubare al cielo quei segreti era la sua unica ragion d’essere. Così decise. “Partirò”. Il giorno che seguì la sua solitaria decisione, Toby venne raggiunto dalla notizia che il saggio più anziano del villaggio, ormai morente, voleva incontrarlo. Si recò di gran corsa a casa del vecchio e, facendosi largo tra la gente, si inginocchiò per stargli più vicino. L’anziano marinaio chiese a Toby di prendere il suo diario di bordo.
“vorresti andare all’orizzonte a rubare i segreti del cielo. Vero ragazzo?” Toby non rispose. “ E’ così. Lo so!” – incalzò il vecchio. “ sono felice e fiero perché in tutti questi anni non ho mai incontrato una persona degna di affrontare questo viaggio” . Toby non parlò. Con la testa leggermente piegata in avanti per ascoltare meglio la voce flebile del vecchio, stringeva sempre di più le sue mani. “Vedi ragazzo io sono stato molto vicino a quel punto di incontro tra mare e cielo e ho capito che solo chi ha cuore puro può accedere a quella cassaforte. Il cielo non è geloso dei suoi segreti ma li vuole affidare a chi ne farà buon uso”. “apri il quaderno”- riprese il vecchio - “leggi la mappa per poterci arrivare. Strappa la pagina e portala con te. Non avrai difficoltà.” La voce del vecchio si fece più debole e malinconica per la vita da cui si stava congedando. “ Ti devo confessare un altro segreto. Il più importante”. Toby lacrimava di gioia e fierezza. “il segreto è questo. – riprese il marinaio. “Arrivato e condiviso col cielo, col mare e con il sole i segreti degli uomini, raccolti gli scrigni più preziosi delle persone, le loro sofferenze mai comunicate, i loro amori non confidati, la loro bellezza rimasta inespressa, sarai investito di una missione importante: fare fiorire sulla terra tutte quelle confidenze. Non tornerai tra gli uomini se non come un angelo. Per la gente scomparirai per sempre ma sarai presente nel loro cuore come inviato speciale del cielo a guidare il loro cammino, a rialzarli dalle cadute, a tergere le loro lacrime come invisibile amico”. Toby e il vecchio incrociarono il loro sguardo e si congedarono. Pochi minuti dopo il vecchio salpò per l’ultima volta. Verso il cielo.
Toby raccolse il coraggio e il mattino seguente – prima dell’alba – si trovò al molo per partire. Non salutò Lucy. Troppo difficile congedarsi dalla giovane amica. “allora parti, Toby” si sentì chiedere con voce delicata e commossa. La riconobbe: era lei. “si … te l’avevo detto. Ricordi quella volta in barca” rispose con gli occhi impegnati sulla cima. “ Sono felice perché realizzi il tuo sogno! “ riprese Lucy. La giovane scoppiò in pianto e appoggiò il viso impregnato di lacrime sulla spalla di Toby. “Ti faccio una promessa, Lucy. – riprese Toby - sarò sempre con te, in ogni attimo”. Lucy sorrise, abbassò lo sguardo e assaporò il calore della mano di Toby che teneva forte la sua. “Ti incontrerò in quel silenzioso colloquio tra cielo e mare. Vero Toby?” riprese. “Certo Lucy. Li ci incontreremo sempre perché è lo scrigno di tutte le cose più belle del mondo.” “Stai felice Lucy “ – incalzò Toby stringendo il gracile corpo della ragazza a se. Così spiccò un salto ed entrò nella barca. Lucy si riavvicinò, né rapì lo sguardo e disse “ incontrerò sempre i tuoi occhi”. E appoggiando le labbra sulla sua fronte si congedò da lui con pochi rapidi passi. Toby, dando le prime due remate, prese fiato e disse a gran voce “ Tornerò”. La barchetta sparì all’orizzonte. Lucy rimase a lungo a passeggiare sul molo.
Id: 15 Data: 05/12/2007
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Tratti di strada
Tratti di strada: appunto. Percorsa con voi. Innestato con voi in un disegno immenso pensato da sempre. Con voi –ancora- per percorrere insieme tratti di strada. Pezzi di viaggio. Mi piace pensare ad una carovana che va. Si ferma ad un tratto, bivacca per la notte, riparte, è costretta a cambiare percorso: soffre per chi non resiste all’asperità del viaggio e si ferma, si accorge di chi soffre in silenzio, prega che le provviste siano sufficienti fino al primo villaggio … poi si ferma … poi riparte. Un viaggio appunto … come la vita. Così mi è piaciuto ordinare per voi questi pensieri (scritti di lampo al rosso del semaforo, intasato nel traffico, in attesa da un direttore d’azienda, in fila alla posta) ripensando alle grazie, all’amore di Dio ricevuto durante questo pezzo di viaggio fino ad ora compiuto e restituendoGli mediante voi (che ne siete l’espressione più genuina) il mio grazie. Sono pennellate che cementano il gaudio e la coscienza di potere vivere sospeso tra cielo e terra, sublimando fino in fondo l’esperienza pienamente umana e pienamente divina che Gesù ci chiama a fare con il Vangelo vissuto in tutta la sua radicalità. Una nota tecnica: non ci sono titoli perché –mi pare- che il titolo possa un po’ ingabbiare quanto potrebbe dire ad ognuno quella parola. Però fanno riferimento ai 5 misteri gaudiosi: quello dell’annunciazione dell’angelo a Maria, quello della visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, quello della natività di Gesù e ancora quello della presentazione di Gesù al tempio ed infine quello della perdita e del ritrovamento di Gesù. Un ultima nota: non oserei chiamarle poesie. Senza alcuna falsa modestia, non hanno nulla da spartire con le produzioni di chi può dirsi pienamente poeta. Sono pensieri: fiori raccolti apposta per voi lungo … Imbiancarono strade abbatterono muri Resero percorribili sentieri - prima sconnessi - si fece più breve la strada del sole Svanì la tempesta tutto intorno fu calore trasparenza Si vide Vidi. Partii. Seguii quella luce. La vidi fioca – dapprima – Tenue incandescente libera – poi – Mi trascinò in cantine mi sdraiò su marciapiedi mi trasportò – con lei – mi diede in dono la sua eredità: ferite (da sanare) lacrime (da tergere) divisi (da congiungere) Ruppe gli argini del buon senso - anche del mio – mi innamorò del buio poiché in esso continuai a trovar (luce). Non riuscii ad imprigionarlo tra le pieghe della ragione. L’incontro fu luce che elevò il passato rilanciò il futuro mi restituì il presente Lo incontrai e fu pace: mi innamorai. Provai a tenerlo stretto in pugno: svanì Lo inseguii vorticosamente lo cercai per vette altissime tra abissi profondi: fuggì Sconsolato guardai a valle e vidi l’uomo. Mi occupai di lui. Ora eccolo Non lo cercai più: rimase. Restituii al cielo scrigni segreti: consegnai all’Assoluto diamanti preziosi. Nulla e tutto si susseguirono con definita certezza si spalancarono i recinti: libertà. ci sei -non vedo- parli -non sento- riflesso di luce rimasta nei ricordi – di un tempo – appoggi su labbra screpolate parole di saggezza – frammenti di infinito – restituisci senso all’arcipelago – disordinato – dei perché - gridati - dall’alto del legno (il tuo).
Id: 3 Data: 05/12/2007
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