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Raccolta di testi in prosa di Loredana Merlin
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La regina delle fate

Io ero in piedi sul letto. A volte salivo anche sulla scrivania, ma lì era pericoloso. Ma dovevo stare in alto. Le creature magiche stanno sempre in alto. Domandavo alla mia sorellina: “Facciamo che chiamiamo la regina delle fate? Da lei possiamo sapere tante cose.” “Mi darà qualche nuovo gioco?” chiedeva lei.

Io invece avrei voluto che papá smettesse di bere e che la mamma fosse più felice.

“Allora devi chiudere gli occhi. Li chiudo anche io e poi quando ti dico di riaprirli, guarda e stai in silenzio”. E lei si concentrava, le mani a coprire gli occhi, mentre io…  

La regina delle fate vestiva il suo abito più bello. Era di raso blu come la notte con arabeschi argentei che percorrevano tutta la gonna. Foglie di vite e rami attorcigliati d’argento salivano sul bustino fino al collo.

Sul capo un velo blu copriva anche il volto, per celarla agli umani, che avrebbero potuto con il loro sguardo corrompere la sua magia. Il bellissimo copriletto, dote della mia mamma, era l’abito perfetto per la regina. Bastava poi usarlo alla rovescia e argento e blu si scambiavano. Così la regina delle fate talvolta poteva vestire il colore della luna e gli arabeschi diventavano blu come la notte.

“Eccomi! Mi riconosci?” facevo io con voce di fata. Com’è la voce di fata? Non so, non ricordo, ma certo doveva essere una voce importante e solenne, magari un poco cantilenante o forse poteva assomigliare ad un tintinnio. Nella nostra cameretta, la mia sorellina seduta per terra, mi guardava con gli occhi sgranati. I suoi boccoletti biondi immobili. Stava tutta fissa e quasi non respirava.

“Hai visto che magia? Te l’aveva detto tua sorella che sarei venuta.” Ma lei, piccina, voleva sapere se sua sorella sarebbe tornata. E io, che non ero più io, ma la regina delle fate, ci credevo ancor più di lei. Quello era un gioco che mi piaceva così tanto. Io dovevo sparire e al mio posto mandare la fata.

A volte io non volevo tornare. Non volevo proprio essere io. Troppo bello essere un’altra e magica per di più. La magia riusciva sempre, forse proprio perché mi trasformavo veramente. Oh si, ero un’altra. Le molecole del mio corpo lo volevano. Tutta la stanza era un altro luogo: un castello, un bosco magico, un salone incantato.

Piccole noi due. Più piccola lei. Cosa ne sapevamo di favole e incantesimi? Nessuno ci raccontava di queste cose. Forse qualche storia la mamma. Sì, mi ricordo di Prezzemolina e di qualche orco e di una favola che leggevo sempre, le fate fragoline. Dolorosamente ammetto di non avere molti ricordi di altri racconti. Le storie stavano nella mia testa e si sviluppavano attimo per attimo. Improvvisavo personaggi, mi travestivo. Ogni oggetto che mi capitava fra le mani diveniva parte delle mie trame. Coinvolgere mia sorella era naturale. Spesso travestivo anche lei.

Negli anni, quando diventammo più grandicelle, qualche buon’anima ci regalò delle bambole, che diventarono le protagoniste delle mie sceneggiature. Il lavoro più lungo consisteva nel trasformarle nei personaggi che inventavo. Sempre creature fantastiche e bellissime. E finalmente venne l’iscrizione alla biblioteca di quartiere.

Da allora ho conosciuto infinite storie e altrettante magie.


*

Un pezzo di vita

1933 - La nonna che sogna

Lei era davanti all’altare. Aveva fatto bene a scegliere un abito normale. Così poi l’avrebbe sfruttato ancora. Le piaceva tanto quel cappotto verde. Morbido e caldo dava un po’ di colore a quel dicembre così freddo. Il 3 dicembre 1933 non era ancora arrivata la neve, ma l’aria pungente le faceva male alle mani e al viso. La chiesa era fredda, ma accanto a lei c’era l’uomo della sua vita. Lo amava, davvero tanto. Sapeva bene che non era perfetto e non lo sarebbe stato mai, ma non le importava. Si girò verso le persone sedute dietro di loro. Poche in verità e non avrebbero comunque avuto soldi a sufficienza per altri invitati. Ritornò a guardare accanto a sé, ma non c’era più nessuno. Era sola. Sentiva freddo e una sensazione strana in gola. Le sembrava di non poter parlare.

1998 - Io

L’allucinante reparto di rianimazione mi ricordava un film di fantascienza. Non ero mai stata in un posto così. Entrando lì tutto subiva una trasformazione, perfino i pensieri. I letti erano pochi e non vedevo nemmeno gli esseri umani che li occupavano. Io vedevo lei, solo lei. Ero attratta dal faro della mia vita. 

Poi tutto quel bianco, tutta quella troppa luce. Bende e tessuti, plastica e trasparenze in un unico fluttuare, come qualche cosa di sospeso: una nube carica di ansia e terrore. E li giaceva il mio ultimo legame materno e lottava come sempre, come una leonessa, imbrigliata in quegli orrendi tubi. La spietata chiarezza del luogo era la metafora crudele della realtà ed io paradossalmente mi sentivo irreale.

Una dimensione nuova, galleggiante, che in un istante, eppure uno zigzagare di attimi, ognuno attonito e unico, mi trascinava via.

Fu così…

Nonna, nonna cara non mi lasciare. Non fare come fece la mamma. La sua mano nella mia, come una stravaganza e quel tubo nella bocca una pura follia. Niente, più niente è meno di questo. Mi guarda negli occhi e mi parla con essi.

Piano, piano nonna, troppe cose vuoi dire. Ma io già le conosco nonna. Le so. Quante volte mi hai raccontato. Non preoccuparti, sei la nonna migliore del mondo. Ti voglio bene nonna. Poi un rombo acuto montante e disumano. Io vedo che lei vorrebbe dirmi ancora e ancora. Provo a fondermi con lei, divengo liquida, deforme. Entro dai suoi occhi, dalle sue mani. Entro in lei, nel cuore, nell’anima,  per essere lei, per comunicarle il mio amore, per essere la sua creatura.

Nonna chi mi consolerà più? Nonna non puoi lasciarmi.

Gli occhi suoi sono lucidi, vivi, presenti. Per un momento ci credo. Ecco ora usciremo da qui. Le toglieranno quel tubo e lei potrà ancora raccontarmi della sua vita, dei suoi ricordi e quindi poi diverranno i miei ricordi. Saremo sempre una nell’altra. Un proseguimento di madre in figlia. Ti lascio un attimo nonna. Torno subito. Stai tranquilla. Ti voglio bene, tanto. Sono con te.

Fuori, via il camice verde. Via via tutto quell’asettico. Non ricordo nemmeno chi sono.

Mi richiama il medico. Ma quanto tempo è trascorso? Non più di qualche minuto ne sono sicura. La nonna è stata estubata, ma il cuore non ha retto. Come? Come non ha retto? Ma mi sta aspettando. Lei mi vuole lì vicino. Mi deve parlare.

Sento il muro liscio dietro di me. La schiena scorre lungo di esso. Sento le gambe piegarsi. Sento che divento piccola piccola. Un mucchietto di dolore. Vivrò per sempre come un puzzle scomposto, mai più intero, mai più completo.

Recisi i legami. Lei resta qui dentro. Io sono fatta di lei.